31 luglio 2013

Rodolfo Graziani, soldato o criminale di guerra? - di Ernesto Nassi, Vice presidente vicario ANPI Roma


RODOLFO GRAZIANI, SOLDATO O CRIMINALE DI GUERRA?

di Ernesto Nassi, Vice presidente vicario ANPI Roma

Questo scritto è un breve sunto della storia di Rodolfo Graziani, militare colonialista e repubblichino. Le fonti sono tratte da materiale dell’ANPI di Roma e dai libri di Angelo Del Boca indiscutibilmente uno dei massimi esperti del colonialismo italiano e dall’Enciclopedia della Storia d’Italia Einaudi. Per un approfondimento del periodo della colonizzazione italiana e della Repubblica di Salò consiglio, oltre ai libri di Del Boca, di recarsi presso le “Biblioteche di Roma”dove si possono trovare diversi libri sui temi trattati, di autori diversi, italiani e stranieri.

Il colonialismo italiano, con l’uso massiccio di armi chimiche, la creazione di campi di concentramento, le deportazioni e le uccisioni di massa di etiopi e libici, fra i colonialismi, è stato uno dei più violenti e aggressivi.

Secondo quanto scrive Angelo Del Boca, nel suo libro: “Italiani, brava gente?” in Libia, negli anni venti, si consolidò la fama di un giovane colonnello (36 anni) Rodolfo Graziani, destinato a diventare il più celebrato e odiato tra gli ufficiali italiani.

Graziani, in polemica con le “teorie retrograde e statiche” dei vecchi ufficiali coloniali, attuò una strategia che mirava più a colpire a morte l’avversario che a occupare territorio, utilizzando tutti i mezzi tecnici moderni: radio, aerei da ricognizione e da bombardamento, autocarri armati, autoblindo mitragliatrici, fidando non tanto sul numero dei soldati, ma sulla fulmineità delle azioni, sfruttando al meglio le truppe eritree e libiche, facendone uno strumento tremendo di morte, sul quale costruii la sua rapidissima carriera, ritenendo di avere, insieme ai suoi sottoposti, caratteristiche diverse dagli ufficiali che operarono in Libia nel 1911. L’avvento del fascismo impresse una accelerazione per la “riconquista della Libia”, già iniziata dagli ultimi governi pre-fascisti, favorendo Graziani che spesso aveva criticato le pause e le incertezze del passato.

Negli anni giornalisti e scrittori servili fecero a gara a costruire il personaggio Graziani, attribuendogli virtù eroiche carismatiche, facendolo entrare (da vivo) nella leggenda, paragonandolo a Scipione l’Africano, consolidandogli la fama di militare durissimo, senza pietà, crudele. Qualche suo collega (non solo gli arabi) lo definì “Il macellaio degli arabi”.

Graziani era il militare che piaceva a Mussolini; che l’indomani della marcia su Roma, si definì il più fascista tra gli ufficiali superiori.

Questo fu il “soldato Graziani” all’inizio della sua carriera coloniale.
Tra il 1922 e il 1932, ci fu la “rioccupazione della Libia”; il governatore della Tripolitania, Giuseppe Volpi, portò avanti il suo programma di riconquiste senza darne conto alla opinione pubblica, ma solo al ministro delle Colonie, Luigi Federzini, così, completata la questione politico-militare della regione di Yefren, Volpi decise di non dare tregua ai ribelli e di procedere all’occupazione del Gebel e del Garian. Il 6 febbraio 1923, conquistò Tarhuna, il 27 dicembre 1923, Beni Ulid, il 15 giugno 1924, Mizda, il 23 novembre, 1924 Sirte, il 15 febbraio 1925 l’oasi di Ghadames. Praticamente, con 20.000 uomini, Volpi riconquistò quasi tutta la Tripolitania. Nel corso di queste operazioni, Graziani si distinse per fortuna e audacia, tanto da essere promosso generale di brigata. Nel gennaio 1928, alla ripresa delle operazioni, Graziani al comando del “Gruppo A” operò per saldare la Tripolitania alla Cirenaica, con quattro bombardamenti al “Fosgene” che seminò panico e morte tra i Mogàrba er-Raedàt, occupò Hon il 14 febbraio 1928, il 22 espugnò Zella, il 25 febbraio, con 1.500 uomini, riprese la marcia per raggiungere i pozzi di Tagrift, subendo attacchi da guerriglieri di Aulad Soliman, di eguale numero degli italo eritrei. Negli scontri la “colonna Graziani” lasciò sul campo 5 ufficiali, 54 uomini di truppa, feriti 6 ufficiali e 156 gregari; i mujaheddin persero 247 uomini in battaglia, più 50 passati per le armi nell’inseguimento.

Nel 1929, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio venne nominato, da Mussolini, governatore della Tripolitania e Cirenaica, mantenendo la carica di Capo di stato maggiore generale. Badoglio Giunse a Tripoli il 24 gennaio 1929 e nella stessa giornata emanava due proclami, uno per gli italiani l’altro, brutale e minaccioso, diretto ai libici: “Voi tutti, abitanti della Tripolitania e della Cirenaica … sapete che l’Italia è benevola con coloro che si sottomettono agli ordini; inflessibile invece, e senza pietà, per i pochi malintenzionati che, nella loro follia, credono di potersi opporre all’invincibile forza dell’Italia”. Il proclama di Badoglio, ottenne l’effetto contrario e tra marzo e maggio, i capi della resistenza tripolitana decisero di attaccare i presidi italiani, scendendo dai monti in pianura. La reazione di Graziani fu immediata, efficace, implacabile e in tre scontri vittoriosi, respingeva i mujaheddin.
Nel mese di novembre del 1929, ottenuto il consenso di Mussolini, Badoglio e Graziani si prepararono all’occupazione del Fezzan. Il 5 dicembre 1929, Graziani occupò Brach, una decina di giorni dopo Sebha, puntò su Uau el Chebir, nella roccaforte dei fratelli Sef en- Nasser, che rifiutarono il combattimento rifugiandosi nell’oasi di Cufra. Il 21 gennaio 1930, cadeva anche Murzuch, la Capitale del Fezzan. Il 28 gennaio, Graziani raggiunse Ubari, dove apprese che gli ultimi Mujaheddin erano in fuga verso l’Algeria, con al seguito famiglie e bestiame. Forse un altro “soldato” non avrebbe infierito su persone in fuga, ma l’astioso Graziani, il 13 e 14 febbraio 1930, irritato per il mancato combattimento, fece decollare tutti gli aerei, i Caproni 73 (che potevano portare una tonnellata di bombe) e i Romeo Ro.1, che si avvicendarono, bombardando e mitragliando i fuggiaschi. Il grosso dei ribelli, con le famiglie, circa 2.800 persone e 6.000 cammelli, sotto un uragano di fuoco, furono decimati. I superstiti si arresero alla guarnigione francese di Fort Tarat. Così, Graziani si guadagnò il nome di “Macellaio del Fezzan”!

L’occupazione della Ghibla e del Fezzan, in soli tre mesi, fu il risultato del sodalizio tra Badoglio e Graziani (la mente e il braccio operativo) entrambi ambiziosi, ostinati e spietati, indifferenti alle sofferenze delle popolazioni libiche, che palesemente disprezzavano.
Nel marzo 1930 i due, ancora insieme, pensarono a come liquidare la resistenza senussita in Cirenaica. (Badoglio come governatore della Libia e Graziani insediato a Bengasi come vicegovernatore della Cirenaica) Graziani, nel suo primo discorso pubblico, dichiarò fedeltà al fascismo (fu la prima volta, da quando il fascismo era al potere, che un generale dell’esercito faceva pubblicamente dichiarazione di fede fascista) e in qualità di vice-governatore prese come primi provvedimenti la riduzione delle truppe, da 23.000 a 13.000 uomini, eliminando i battaglioni libici e le bande irregolari, di cui non si fidava. Iniziò il disarmo totale della popolazione, punì con la morte il reato di connivenza con i ribelli. Istituii  “il  tribunale volante” un tribunale militare speciale che, in volo, si spostava da una località all’altra.

Nel mese di giugno diede avvio ad un vasto rastrellamento nel Fayed, ottenendo modestissimi risultati, come i suoi predecessori che, come suo costume, non aveva mancato di criticare!
Il motivo principale dell’insuccesso era dovuto alla presenza di Omar al-Mukhtàr,  (il vicario dell’emiro MohamedIdris es-Senussi) che da nove anni combatteva, con successo, contro i soldati italiani. Graziani, conscio di trovarsi di fronte ad un avversario notevole e per questo fornì un ritratto falso del “vecchio Partigiano” definendolo: “… un beduino come gli altri, senza nessuna cultura e nessuna idea del vivere civile. Fanatico quanto mai e ignorante, sapeva appena fare la sua firma”. In verità Omar al Mukhtàr, aveva una eccellente cultura, aveva insegnato per decenni in una scuola coranica, aveva uno straordinario ascendente sulle popolazioni della Cirenaica, aveva del talento nel condurre la guerriglia. Graziani, prima di lanciare l’offensiva di giugno, ordinò due gravi provvedimenti:
L’esproprio integrale dei beni mobili ed immobili delle zavie senussite.
Il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presìdi.

Con questi provvedimenti, Graziani, contava di togliere l’aiuto della popolazione ai ribelli. Comunque non era una misura definitiva. Badoglio e De Bono, avevano studiato un’operazione che portasse allo sgombero totale del Gebel Achdar e della Marmarica, deportando i nativi. Deportazione realizzata fra luglio e dicembre 1930. Badoglio, il 20 giugno 1930, irritato per l’insuccesso di Graziani nel Fayed, gli inviò una lettera nella quale lo criticava e gli impartì nuove, terrificanti, direttive:
“Creare un distacco tra popolazione sottomessa e formazioni ribelli” che avrebbe significato la rovina della popolazione. La via era tracciata e doveva essere perseguita fino in fondo, anche se avesse dovuto perire tutta la popolazione della Cirenaica”.

Cinque giorni dopo aver scritto la lettera, che avrebbe provocato la deportazione dal Gebel Achdar e dalla Marmarica di 100.000 libici, Badoglio s’incontrò con Graziani per concertare le modalità dell’operazione (senza precedenti nella storia dell’Africa moderna). E’ bene ricordare che i due non furono i soli responsabili di questa infamia, anche De Bono, ministro delle colonie,  sollecitò Mussolini più volte in merito alla misura estrema della deportazione e il duce non ebbe scrupolo ad approvarla. Lo sgombero totale dell’altipiano cirenaico iniziò il 27 giugno 1930, protraendosi per alcune settimane. I nativi percorsero una marcia di oltre mille Km, che durò alcuni mesi (Il materiale documentario sulla deportazione, scarso, si trova negli Archivi di Stato). La deportazione riguardò migliaia di persone, in maggioranza donne, bambini, vecchi. Quando i più deboli tendevano a staccarsi dalla colonna, o indugiavano, venivano uccisi, animali compresi. Giunti a destinazione, vennero avviati nei campi di concentramento, nella Sirtica e nel sud bengasino. I luoghi più torridi e malsani della Libia.
Da una relazione di Graziani (2 maggio 1931) il lager più vasto risultò quello di Marsa Brega, con 21.117 deportati; poi altri campi per un totale di 90.761 deportati.
Oltre il  conteggio  dei deportati, bisogna tenere conto delle persone abbattute durante le marce di trasferimento, dei morti nei lager per denutrizione, malattia e tentativi di fuga. La cifra sale a non meno di 100.000 deportati, cioè circa la metà degli abitanti della Cirenaica, considerato il censimento turco del 1911, che riportava una popolazione di 198.300 persone. Al censimento italiano, dell’aprile 1931, ne risultarono 142.000. In venti anni, la popolazione cirenaica era diminuita di 60.000 unità, 20.000 per l’esodo verso l’Egitto e 40.000 per la guerra, la deportazione e la prigionia nei lager. La repressione italiana, in Cirenaica, è da considerare, per le dimensioni, un vero genocidio. Il solo funzionario che cercò di contenere la furia devastatrice di Graziani, fu il commissario Giuseppe Daodiace, fatto rimpatriare da Graziani, perché non in linea con i nuovi metodi stabiliti dallo stesso Graziani! Il Diodace scrisse a Giuseppe Brusasca, il 7 gennaio 1951: “Che io non li approvassi risulta dalle tante e ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli, si fucilavano donne e bambini…”.

La deportazione delle popolazioni della Cirenaica, e l’internamento in campi di concentramento, privò Omar al-Mukhtàr del sostegno che aveva sempre avuto dalla popolazione, inoltre Graziani fece costruire un reticolato di 270 Km, da Porto Bardia a Giarabub, per non permettergli di ricevere aiuti dall’Egitto. Il reticolato costò 20 milioni di lire. Il vecchio “Leone del deserto”, privato di tutto, rimase con 700 fedeli.
L’11 settembre 1931, nell’uadi bu Taga, Omar in uno scontro a fuoco venne ferito ad un braccio e il cavallo ucciso, fu circondato, arrestato e inviato a Slonta, da qui trasferito al porto di Apollonia e imbarcato sul cacciatorpediniere” Orsini”.  Il 12 sera, il vecchio guerriero di 73 anni, finì in carcere a Bengasi; venne interrogato da Graziani, Omar, prima del “processo burla” (condanna già decisa da Mussolini) un generale arrogante e superbo da una parte e un vecchio in catene, con il barracano bianco, i piedi gottosi, quasi afono, dall’altra, Graziani, con il vecchio capo partigiano, prima tentò l’intimidazione poi la seduzione, per costringerlo a far cessare la guerriglia. Graziani sperava di piegare il vecchio capo, cadente e gottoso, ma si trovò al cospetto di un lucido, fiero, irremovibile e dignitoso capo che, ascoltata la sentenza tradotta da Nasri Hermes, disse: “Da Dio siamo venuti e a Dio dobbiamo tornare”!

Il 16 settembre 1931, davanti a notabili e più di  20.000 libici, fatti affluire al campo di concentramento di Soluch, dai vicini lager, verso le nove del mattino, Omar al-Mukhtàr , venne impiccato. La salma, trasportata a Bengasi, fu sepolta nel cimitero dei Sabri (in seguito diventato luogo di culto). In Italia, in tempi recenti, si è potuto vedere, in TV su Sky, il film “Il leone del deserto” del regista siro-americano Moustapha Akkad, vietato al pubblico italiano per molti anni. Un film che narra la storia del capo partigiano Omar al-Mukhtàr.
A partire dal 1932, ras Tafari Maconnen, diventato imperatore con il nome Hailè Selassiè I°, certo che l’Italia fascista, prima o poi, avrebbe aggredito l’Etiopia, aveva iniziato a comprare armi in Europa.

In effetti l’Italia fascista, mandato in soffitta il Trattato ventennale di amicizia, s’apprestava ad attaccare il millenario impero abissino, Mussolini aspettava un pretesto, un banale incidente confinario, ed “Ual Ual” fu il pretesto per attaccare l’Etiopia. Il 24 dicembre 1934, Mussolini autorizzò Emilio De Bono ad andare in Eritrea e il 27 dicembre, ordinò la mobilitazione della Somalia e parte dell’Eritrea. Il 3 ottobre 1935, a preparazione militare conclusa, senza dichiarazione di guerra, diede inizio all’invasione dell’Etiopia. Mussolini, noncurante delle sanzioni della “Società delle Nazioni” voleva lavare l’onta di Adua, dare nuove e feconde terre agli italiani e possedere, come Francia e Gran Bretagna, un impero coloniale;  il 2 ottobre 1935, Mussolini tenne un lungo discorso a sostegno delle ragioni storiche e di espansione territoriale per le quali era necessario combattere in Etiopia. Inoltre, dopo 13 anni di regime fascista, voleva vedere come i nuovi italiani avrebbero affrontato una guerra vera, perché quelli contro somali e libici erano stati dei modesti conflitti, al punto di mandare in guerra anche i suoi due figli, Bruno e Vittorio, oltre al genero Galeazzo Ciano.
Se ripercorriamo la guerra italo-etiopica, si riconosce il peggior insegnamento fascista: disprezzo per l’avversario, assenza di pietà, inclinazione allo sterminio, l’esaltazione della “bella morte”. Era questo l’italiano nuovo di Mussolini? Una marionetta senza anima mossa da istinti assassini? Le responsabilità di Mussolini verso l’Africa sono, per alcuni versi, poco conosciute in Italia, ovunque i suoi ordini produssero violenze e stermini:  dal Gebel cirenaico alle “Montagne lunari”. In un processo di Norimberga per l’Africa, Mussolini non si sarebbe salvato.

Pensare che, nel 1911, quando Giolitti fece la guerra alla Libia, Mussolini si schierò con gli arabi, condannando l’impresa coloniale, come un atto di brigantaggio (Mussolini all’epoca era socialista!). Le campagne di Libia e Somalia, Mussolini, permise ai generali di condurle a loro piacimento, intervenendo solo per incitare o sanzionare le decisioni più gravi, mentre in Etiopia fu presente in prima persona, riconosciuto dal re Vittorio Emanuele III, con la massima decorazione militare: “Ministro delle Forze Armate, preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi”.
Fu lui che costruì la macchina bellica che, in sette mesi, distrusse le truppe etiopiche, raddoppiando e triplicando le richieste degli Alti comandi. Tra marzo e settembre al porto di Massaua, giunsero 498 navi, 177.431 soldati, 24.531 quadrupedi, 4.278 automezzi e materiale vario, per 548.658 tonnellate. Nel maggio 1936, i comandi italiani, dispongono di 17.959 ufficiali, 476.543 sottoufficiali e soldati, 102.582 quadrupedi, 18.932 automezzi, 1.542 cannoni, 492 carri armati, 350 aerei, 513.276 fucili e moschetti, 14.570 mitragliatrici, 850 milioni cartucce per armi leggere e 4.197.936 proiettili d’artiglieria.
Mussolini, invia con continuità telegrammi operativi a De Bono, poi a Badoglio, sul fronte Nord e a Graziani sul fronte Sud, con ordini indiscutibili e quando gli etiopici sfondarono sul fronte Nord, entrando in Eritrea, autorizzò l’uso dei gas tossici. Fece sbarcare, segretamente, in Eritrea 270 tonnellate per l’impiego ravvicinato, 1.000 tonnellate per bombe d’aeronautica , caricate ad Iprite, di 60.000 granate per l’artiglieria, caricate ad Arsine di cui, Mussolini, si riservò l’ordine di utilizzarle o revocarle, quale dispensatore di morte.  

Il primo autorizzato all’uso dei gas fu, nel 1935, il generale Graziani.
Il 27 ottobre 1935, mentre si apprestava ad attaccare la piazzaforte di Gorrahei, ricevete un telegramma da Mussolini: “Sta bene per azione giorno 29. Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco” ma non furono necessari. Il 15 dicembre, per fermare ras Destà Damteù, che si avvicinava alle fortificazioni italiane di Dolo, Graziani chiese a Mussolini libertà d’impiego di gas asfissianti, per rallentare l’avversario. Il 24 dicembre, Graziani, inviò tre Caproni 101 bis ad Areri, per attaccare il ras Destà, in sosta con i suoi uomini, usando i gas di Fosgene e Iprite. Altri attacchi aerei continuarono il 25, 28, 30, 31, per un lancio totale di 125-bombe. Il 10 gennaio 1936 Graziani, telegrafò al generale Bernasconi, comandante dell’aviazione in Somalia, per magnificare l’uso dei gas e ricordare il telegramma n. 333 che autorizzava da parte di Mussolini all’uso dei gas.

Sul fronte nord, a partire dal 22 dicembre 1935, dopo che le avanguardie di ras Immirù avevano massacrato il gruppo delle Bande del maggiore Criniti,  vennero usati i gas. Badoglio per fermare l’offensiva abissina nello Scirè, utilizzò tutta l’aviazione dell’Eritrea, sui guadi del Tacazzè e del Golimà e su Mai Timcher e Passo Agumbertà.
Per la prima volta, nella “campagna d’Etiopia” vennero gettate sulle masse abissine in movimento, le micidiali bombe c.500 T, contenenti 212 Kg d’Iprite con un meccanismo a tempo che si aprivano a 250 m. dal suolo, spargendo una pioggia mortale. Tra il 22 e il 27 dicembre 1935 ne vennero lanciate 74 e tra il 2 e il 7 gennaio 1936 altre 117 che quando toccavano terra o l’acqua dei fiumi si aprivano e spargevano intorno un liquido incolore che al contatto con la pelle, formava su questa delle vesciche, causando un grande dolore a uomini e bestiame, alcuni che bevvero l’acqua del fiume, morirono tra atroci dolori.   

Complessivamente, dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936, vennero sganciate sul fronte Nord 1020 bombe c.500T, per 300 tonnellate d’Iprite. Sul fronte Sud, dal 24 dicembre 1935 al 27 aprile 1936, furono sganciate 95 bombe c.500T, 186 bombe da 21 Kg all’Iprite e 325 bombe al Fosgene da 41 Kg, per un totale di 44 tonnellate. Il 5 gennaio 1936, Mussolini telegrafò a Badoglio di “sospendere l’impiego dei gas sino alla riunione ginevrina, a meno che non sia reso necessario da supreme necessità offesa o difesa, darò ulteriori istruzioni al riguardo”, ma Badoglio ignorò il telegramma e le utilizzò nei giorni 6 – 7 gennaio, irrorando d’Iprite la cittadina di Abbi Addi, i guadi dei torrenti Segalò e Rassi. Mussolini redarguì Badoglio per gli insuccessi, ma Badoglio che non sopportava rimproveri cercò aiuto dal Ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, mandandogli un telegramma: “Impiego Iprite si è dimostrato molto efficace specie verso zona Tacazzè. Circolano voci di terrore per l’impiego dei gas. Certamente la sospensione rappresenta grave svantaggio per noi”.
Senza attendere autorizzazione del duce, Badoglio, riprendeva i bombardamenti, fra il 12 e il 18 gennaio, 76 bombe C.500t e il 19 gennaio arrivò il via libera da Mussolini: “Autorizzo vostra eccelenza a impiegare tutti i mezzi di guerra, dico tutti,, sia dall’alto come da terra. Massima decisione”.  Dal 21 gennaio i bombardamenti all’Iprite, nella battaglia del Tembien, erano giornalieri. Dal 22 dicembre 1935 al 29 maggio 1936, sul fronte Norde, furono sganciate 1.020 bombe da C.500t per 300 tonnellate d’Iprite. Sul fronte Sud, dal 24 dicembre 1935 al 27 aprile 1936, 95 bombe C500t , 186 bombe da 21 Kg all’Iprite, 325 bombe a Fosgene da 41 Kg, per 44 tonnellate e durante la battaglia dell’Amba Aradam, autorizzò 1367 colpi d’artiglieria caricati ad Arsine, per un totale di 350 tonnellate di aggressivi chimici!

Il 7 febbraio 1996, il ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, in risposta ad interrogazioni parlamentari, ammise che in Etiopia furono usate bombe d’aereo e proiettili di artiglieria caricati ad Iprite e Arsine e di questo ne era al corrente Badoglio che firmò alcune relazioni e comunicazioni in merito.
Grazie alla censura, il regime fascista, riuscì a nascondere agli italiani l’utilizzo, in Etiopia dei gas, solo la stampa internazionale ne dava i resoconti. Questo silenzio dei crimini fascisti è durato per decenni anche nell’Italia democratica, tacciando di “anti Italiano” coloro che cercavano di forzare il blocco censorio per portare alla luce fatti e responsabilità.

Per Mussolini l’uso dei gas era insufficiente e per accelerare la sconfitta dei suoi avversari che definiva: “… abbissini tagliatori di teste; selvaggi razziatori” alla fine del 1936 pensò all’uso della “guerra batteriologica” (mai usata da nessuno al mondo) e se questo non avvenne, fu perché Badoglio espresse parere contrario, in quanto l’uso degli aggressivi chimici avrebbe alienato le simpatie delle popolazioni del Corno d’Africa, oltre le ripercussioni internazionali. Il 20 febbraio 1936, Mussolini, telegrafò a Badoglio: “Concordo con quanto osserva V.E. circa l’impiego della guerra batteriologica”.
A Mussolini interessava poco vincere, voleva sterminare gli avversari, accanendosi contro popolazioni inermi facendo ipritare gli esseri umani ed il loro bestiame, i raccolti, i fiumi, i laghi; non rispettando i contrassegni della “Croce Rossa”, anzi, distruggendo 17 istallazioni mediche, tra cui gli ospedali da campo di Melka Did, dell’Amba Aradam, di Quoram. Per questo scopo, Mussolini consentì che contro l’Etiopia si facesse uso dei libici musulmani della divisione Libia, comandata dal generale Guglielmo Nasi, queste truppe, inviate nel fronte Sud, per la totalità islamiche, combatterono contro gli etiopi (in gran parte cristiani) consentendogli di vendicarsi per le violenze subite per 20 anni ad opera dei battaglioni amhara eritrei. La divisione Libia entrò in azione il 15 aprile 1936; partecipò nell’Ogaden con Graziani, dimostrando tutto il suo valore guerriero. Gli scontri più sanguinosi si svolsero lungo il corso dell’Uadi Corràc, ricco di caverne e apprestamenti difensivi, inutilmente colpiti dall’aviazione, dalle artiglierie, dai lanciafiamme e da proiettili di Irsine. Le ultime resistenze etiopi, furono sconfitte dai libici del 1° e 7° battaglione, che fecero scempio degli avversari, 3.000 morti. Lo stesso Graziani disse “prigionieri pochi, secondo il costume delle truppe libiche”. Purtroppo, l’odio religioso, sul quale l’Italia fascista aveva puntato, continuò con la mattanza dei prigionieri ai pozzi di Bircùr, a Segàg, a Dagamedò, a Dagahbùr. I massacri di prigionieri continuarono anche a guerra finita.

Le colpe dei massacri, non possono essere addebitate solo agli ascari libici, le responsabilità italiane sono gravissime, perché sfruttarono gli odi etnici e religiosi delle popolazioni indigene: in Libia avvalendosi del contributo di battaglioni amhara eritrei di fede cristiana contro i mujaheddin musulmani e in Etiopia usando battaglioni libici musulmani contro etiopici cristiani.
Il 5 maggio 1936, in ritardo rispetto alla tabella di marcia, Badoglio entrò ad Addis Abeba, l’imperatore Hailè Selassiè, fu consigliato dai suoi dignitari di abbandonare l’Etiopia per portare la voce del suo popolo in Europa e prese la via dell’esilio. L’8 maggio Graziani occupò Harar ed il 9 Dire Daua. Mussolini con aria tronfia, dal balcone di Piazza Venezia, annunciò che l’Etiopia era italiana. Ma la guerra in Etiopia non era finita, c’erano ancora quasi i due terzi del Paese da conquistare e 100.000 soldati dell’esercito imperiale etiope in armi, sotto la guida di capi prestigiosi come i Ras Immirù, Desta Damteù, i fratelli Cassa, i degiac Bejenè-Merid, Ficrè Mariam, Balcia Abbà Nefsa, i fitauri Tedia Mellion e Abebè Aregai, futuro capo della resistenza etiopica.

La guerra ufficiale, finita il 5 maggio, era la “Guerra dei sette mesi” con i suoi 4.350 morti e 9.000 feriti e un costo di 40 miliardi di lire. Badoglio, intuendo il pericolo, si fece richiamare in Italia, lasciando le consegne all’ambizioso generale Graziani che il 20 maggio venne nominato Vice-re, Governatore generale e Comandante superiore delle truppe italiane in Africa.

Intanto i 10.000 soldati che presidiavano Addis Abeba, erano assediati dagli uomini dei fratelli Cassa, intrappolando di fatto il nuovo viceré.
Mussolini spazientito, il 21 maggio 1936, intimò a Graziani di marciare verso Gore, sede di un governo provvisorio abissino, questi cercò di dissuaderlo, ricordandogli che era la stagione delle piogge e che era impossibilitato a muoversi, ma Mussolini non volle sentire ragioni e telegrafò: “Tutti i ribelli fatti prigionieri, devono essere passati per le armi. Per finirla con i ribelli, come ad Ancober, impieghi i gas, autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma”.

Graziani, non ebbe remore ad usare il pugno di ferro, lo aveva dimostrato in Libia. Sotto il suo comando la controguerriglia venne condotta per venti mesi con metodi spietati, violando ogni  legge di guerra. Con scarsi risultati. Nonostante l’esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (552 bombe d’Iprite e Fosgene, per 60 tonnellate) l’incendio di migliaia di villaggi e chiese, la deportazione, la costruzione di nuovi campi di concentramento, l’Etiopia era indomabile e inospitale. L’Etiopia, secondo i desideri di Mussolini, avrebbe dovuto ospitare da un milione a dieci milioni di coloni italiani ma, nei cinque anni di occupazione fascista, furono solo 3.500 famiglie, in 114 ettari di terra, che s’insediarono in Etiopia. I più fuggendo alle prime cannonate della Seconda Guerra Mondiale.
La fine della stagione delle piogge e l’arrivo di rinforzi, permise a Graziani di passare all’offensiva.  Con una serie di azioni di “grande polizia coloniale” i suoi generali ottennero delle vittorie contro le residue forze dei ras Destà Damtèu e Immirù Haile Sellase e dei fratelli Cassa. Nel marzo 1937, l’occupazione dell’Impero poteva considerarsi conclusa, in poco più di dieci mesi (esclusi quattro per le piogge) le colonne partite da Addis Abeba, Neghelli e Harar occuparono più di 600.000 Km quadrati di territorio, requisirono 140.000 fucili, 450 mitragliatrici e 50 cannoni. L’operazione, nella quale furono impiegati 200.000 uomini, costò agli italiani e alleati: morti, 45 ufficiali, 207 soldati nazionali, 1.200 soldati tra libici, eritrei e arabo-somali. Contravvenendo ad ogni regola di guerra, Mussolini e Graziani decisero di non considerare capi e gregari, fatti prigionieri, soldati di un esercito regolare, bensì militari ribelli e in base a questo criminale criterio vennero fucilati, i tre fratelli Cassa, gli abuna Petros, Micael e il genero dell’imperatore Selassiè: il ras Destà Damtèu. Il 12 febbraio 1937, mentre le residue forze del ras venivano decimate, Graziani inviò al generale Geloso, comandante delle operazioni, questo telegramma: “Rammento a V.E. l’ordine tassativo del capo del governo che tutti i capi e gli armati catturati, qualunque grado essi abbiano, siano passati immediatamente per le armi”. Ras Destà, rifugiatosi nel suo villaggio, Maskan, venne catturato e consegnato al capitano Tucci che telegrafò a Graziani: “oggi 24, alle ore 6, la mia colonna ha fatto prigioniero ras Destà Damtèu. In ottemperanza agli ordini di sua eccellenza il capo del governo, alle ore 17.30 è stato passato per le armi”.

I giornali italiani, diedero grande risalto alla uccisione del genero dell’Imperatore e il vicesegretario dei Guf, Guido Pallotta, scrisse: “e nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle turbe sanzioniste. Schiaffone magistrale che il capitano Tucci menò alla maniera squadrista sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina”.
Graziani, nove mesi dopo la nomina a viceré d’Etiopia, creò in Addis-Abeba un clima particolarmente pesante. Migliaia di famiglie piangevano i loro morti per le operazioni di “grande polizia coloniale”, molte altre erano in ansia per la scomparsa dei loro cari, forse imprigionati in Italia. Venne data la caccia ai cadetti della Scuola militare di Olettà e ai giovani etiopi laureati all’estero contro cui, il 3 maggio 1936, Mussolini sentenziò: “Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi”.

Questa situazione aumentò la possibilità che lo stato delle cose scatenasse una protesta contro gli occupanti italiani. Due studenti di origine eritrea, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, con la complicità di un tassista hararino, Semeon Adefres, e del capo ribelle Ficrè Mariam, si erano addestrati al lancio di bombe a mano, sulle pendici del monte Zuqualà. Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia che si tenne nel recinto del “piccolo ghebì”, in onore della nascita del figlio di Umberto di Savoia, i due, elusero le guardie ed entrarono nel palazzo, salirono al primo piano fino alla balconata che dava sulla scalinata d’accesso al palazzo, dove si erano sistemate le autorità e verso mezzogiorno, i due, lanciarono  delle bombe a mano Breda contro Graziani e le autorità italiane ed etiopiche, causando sette morti e una cinquantina di feriti, fra cui Graziani, il vice-governatore generale Petretti, i generali Liotta, Gariboldi, Armando e i colonnelli Mazzi e Amantea, il governatore di addis-abeba Siniscalchi, l’ispettore fascista del lavoro per a.o.i. Fossa, il federale Cortese, l’abuna Cirillo, il degiac Hailè Selassiè Gucsa.
Nella confusione i due eritrei fuggirono dal palazzo dove, nei pressi dello stesso, c’era semeon adefres che, con una auto opel, li portò in salvo nella città conventuale di Debrà Libanòs. I due giovani attentatori eritrei si unirono ai partigiani di ras Abebè Aregai, poi decisero di andare in Sudan; furono uccisi, in circostanze oscure, durante il viaggio. Quanto a Semeon Adefres, fu arrestato e torturato a morte, il suo corpo, preso dalla sorella, riposa nella chiesa dei santi Pietro e Paolo.

Mussolini, telegrafò a Graziani, ricoverato in ospedale con 350 schegge nel corpo, invitandolo:     “ non attribuisco al fatto una importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che esso debba segnare l’inizio di quel radicale ripulisti assolutamente, a mio avviso, necessario nello scioa”  a dare agli etiopici “una lezione indimenticabile” non fu Graziani, impossibilitato a muoversi, si limitò ad avvallare la repressione contro gli etiopi, del federale fascista di Addis-Abeba, Guido Cortese.
La rappresaglia, si scatenò nel pomeriggio dello stesso 19 febbraio ed un giornalista italiano, Ciro Poggiali, presente in città, scrisse nel suo diario segreto: “ la reazione all’attentato è stata in perfetto squadrismo fascista, girano armati di manganelli e sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovavano ancora in strada … vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa, da parte a parte, con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente  ignara e innocente”.

Un altro giornalista, Antonio Dordoni: “ Nel tardo pomeriggio, avute disposizioni dalla casa del fascio, alcune centinaia di squadre composte da camicie nere,  autisti e ascari libici, entrarono nei quartieri indigeni e cominciarono la caccia “al moro” dando fuoco ai tucul con la benzina, colpendo chi sfuggiva al rogo con le bombe a mano. Molti “giustizieri” li conoscevo, erano: commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e rispettabile che non aveva mai sparato un colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava una carica di violenza insospettata. L’impunità era assoluta, l’unico rischio era quello di guadagnarsi una medaglia”. I carabinieri intervennero solo per impedire che bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally. Di quel tremendo massacro, tre fotografie di Alberto Imperiali che, con il padre, era in contatto con la resistenza etiopica, danno un quadro drammatico, sono immagini inequivocabili, terrificanti, riprese nella zona di Gullalè, tra la chiesa dei SS. Pietro e Paolo e il Ghebì di ras Hailù Tecla Haimanot, dove si vede il terreno ondulato coperto di cumuli di “stracci bianchi” che in realtà erano cadaveri avvolti in fute bianche, scaricati alla rinfusa probabilmente da camion, si vedono teste, braccia, uscire dai cumuli di “stracci bianchi” … impossibile quantificare il numero delle vittime!
Venne dato alle fiamme l’interno della chiesa di San Giorgio, costruita dall’Ing. Sebastiano Castagna, ai tempi di Menelik, su ordine del federale Cortese! E solo l’intervento di un colonnello dei granatieri impedì che una cinquantina di diaconi fossero gettati nel rogo. Mentre i civili organizzavano la rappresaglia contro la popolazione inerme, i militari operarono arresti in massa, rinchiudendo circa 4.000 etiopi in campi di concentramento improvvisati. La ritorsione assunse le dimensioni di genocidio, negli agglomerati di tucul, lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign che attraversano la città da nord a sud, presi d’assalto a tarda sera e dati alle fiamme, ardevano tutta la notte illuminando a giorno la città foresta.

Il vercellese Alfredo Golio, l’indomani, attraversò il quartiere e vide cumuli di cadaveri bruciacchiati tra le macerie e più tardi vide passare molti autocarri “634” con cataste di cadaveri di abissini uccisi. Da Piazza 5 maggio all’Ospedale Americano, ben pochi tucul si salvarono.
L’attore Dante Galeazzi, affermò che: “ Per ogni abissino in vista, in quei tre giorni, non ci fu via di scampo, in Addis-Abeba, città di africani, per un pezzo non si vide un africano”.

Il 21  febbraio, Graziani, preoccupato per i diplomatici stranieri armati di macchine fotografiche, autorizzò il colonnello Mazzi ad inviare al federale Cortese un fonogramma per la cessazione delle rappresaglie. Il federale  fece diffondere un volantino: “camerati! Ordino che dalle 12 di oggi cessino le rappresaglie e che dalle 21.30 i fascisti debbono ritirarsi nelle proprie abitazioni …”.
Il 21 febbraio 1937, Mussolini inviò a Graziani un telegramma: “Nessuno dei fermi effettuati e di quelli che si faranno, deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti, devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma”. Il 26 febbraio 1937 l’avvocato militare Bernardo Olivieri, relazionò Graziani sul complotto per l’attentato che, secondo lui, era stato pianificato dagli allievi della Scuola militare di Olettà.

Il 26 febbraio 1937, Graziani inviò un bilancio a Mussolini, dove affermava: “Questa mattina, sono stati passati per le armi quarantacinque fra notabili e gregari risultati colpevoli manifesti dell’attentato del 19. Sono ancora trattenuti al ghebì circa duecentocinquanta notabili e rappresentanti del clero, per i quali mi riservo farvi proposte”.

Ancora è difficile, se non impossibile, conoscere il numero esatto delle vittime dei tre giorni di furia criminale fascista; secondo fonti etiopi furono 30.000. (Probabilmente cifra comprensiva delle successive uccisioni di patrioti, religiosi, indovini, cantastorie, eremiti, legati in qualche modo all’attentato a Graziani). I giornali, inglesi,francesi e americani, affermarono una cifra tra le 1.400 e 6.000 vittime. Quanto a Graziani, il 22 febbraio, tracciava per Mussolini un primo (riduttivo) bilancio: “In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati altrettanti tucul”.
L’attentato del 19 febbraio e l’affrettata e falsa relazione dell’avvocato Olivieri, servì a Graziani per portare a termine il “repulisti” ordinatogli da Mussolini, che lui stesso aveva suggerito; e dopo i 45 notabili, altri 26 notabili furono assassinati e con quest’esecuzioni,Graziani, “liquidava” parte dell’intellighenzia  etiope: alti funzionari governativi, giovani ufficiali, stretti collaboratori dell’imperatore e giovani laureati.  Mussolini, scartò la proposta di Graziani di radere al suolo la città vecchia indigena e mettere tutta la popolazione in un campo di concentramento. Invece accettò il suggerimento, sempre di Graziani, di deportare in Italia i notabili ancora prigionieri nei sotterranei del palazzo vicereale e il 7 marzo furono trasferiti ad Asmara e a Massaua imbarcati sul piroscafo “Toscana”per l’Italia (erano 187 notabili, 8 donne, 2 bambini). Nei mesi successivi altri 200 aristocratici furono deportati in Italia, mentre le persone di scarsa importanza furono internate nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea e di Danane, in Somalia, dove, circa la metà, morirono per malattia, scarsa e cattiva alimentazione.

Graziani, risolto con la deportazione il problema dei notabili, si dedicò alla eliminazione di ogni opposizione, anche presunta, come nel caso della strage degli “Indovini e cantastorie”, il 19 marzo, Graziani informava al ministro Lessona che la polizia gli avevano comunicato che tra i disturbatori dell’ordine pubblico  c’erano: cantastorie, indovini, stregoni, eremiti, che diffondevano, nel paese, notizie false e catastrofiche, come l’imminente fine della presenza italiana in Etiopia. Il viceré disse: “Convinto della necessità di estirpare radicalmente questa “Mala pianta” ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta”. Mussolini rispose: “Approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli, occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente tranquilla” Graziani, il 21 marzo riferì a Mussolini:

“Dal 19 febbraio ad oggi, sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie, senza comprendere in questa cifra le repressioni del 19-20 febbraio. Il 30 aprile i provvedimenti di rigore 710; il 5 luglio 1686; il 25 luglio 1878; il 3 agosto 1918”.  Poi Graziani cessò la contabilità, ma le esecuzioni continuarono senza sosta e compiute nella più totale illegalità, senza processi, spesso senza prove.
Il colonnello dei Carabinieri Azolino Hazon, in una relazione scrisse che i carabinieri, tra febbraio e maggio 1937, passarono per le  armi  2509 etiopici.

Dopo la nobiltà amhara e l’intellighenzia etiope, i cadetti della Scuola militare di Olettà, gli stregoni ed eremiti, le persone innocenti, Graziani prese come bersaglio il clero cristiano copto e particolarmente la città conventuale di Debrà Libanòs, incaricando il generale Pietro Maletti, un perfetto esecutore di ordini, a preparare un attacco. Partì il 6 maggio 1937 da Debrà Berhàn, traversò il Mens, dove la resistenza era guidata dal degiac Auraris Dullu, Nei rapporti redatti da Maletti, risulta: “In due settimane le truppe hanno incendiato 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael, dopo averne fucilato i monaci e sterminato 2.523 arbegnuoc, terrorizzando le popolazioni”.
Maletti, la sera del 19 maggio, giunse a Debrà Libanòs (Situato nello scioa del Nord, il grande monastero era stato fondato nel XIII secolo dal santo tigrino Tecle Haymanor e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi abissini, a guardia delle quali monaci e cascì ossia sacerdoti) e la cinse d’assedio utilizzando ascari libici e somali di fede musulmana (non gli eritrei perché cristiani) e i terribili “eviratori” galla, della banda Mohamed Sultan, 1500 uomini armati di pugnale, lance, vecchi fucili, agilissimi.

Mentre il generale Maletti occupava la città conventuale, Graziani gli inviò un telegramma, in cui affermava che l’avvocato militare, maggiore Franceschino, aveva trovato le prove della responsabilità dei monaci in merito l’attentato del 19 febbraio: “Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che ha raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debrà Libanòs con gli autori dell’attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi. Dia pubblicità at ragioni determinati provvedimenti”.
L’avvocato militare, Franceschino, aveva delle prove molto vaghe che potevano coinvolgere uno o più monaci, non la comunità conventuale, ma Graziani era convinto che il convento fosse “un covo di briganti assassini e di monaci contrari agli italiani”  quindi non aveva scrupoli per sterminarli!

Graziani comunicò al ministro Lessona: “Le esecuzioni disposte in conseguenza del citato attentato saranno effettuate in luoghi isolati e che nessuno può esserne testimone”. Maletti il 19 maggio, si attivò per trovare un luogo per il massacro che, trovò vicino Debrà Libanòs, a Laga Wolde, una piana chiusa ad Ovest da un anfiteatro di cinque colline e a Est dal fiume Finche Wenz, defluente nel burrone di Zega Wedem, luogo ideale perché disabitato.
Maletti, il 21 maggio 1937, separò i religiosi dai pellegrini e li condusse nella piana.

Due docenti universitari, Ian L. Campbell e Degife Gabre Tsadik, riferirono: “ Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra al testa di ognuno di loro”.

Alle 15.30 tutto era finito e Graziani comunicò a Roma:  “Oggi, alle ore 13.00 in punto,  il generale Maletti ha destinato al plotone d’esecuzione 297 monaci incluso il vice priore e 23 laici, sospetti di connivenza, sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che furono tradotti nelle chiese di Debrà Berhàn e il convento chiuso definitivamente”.
Tre giorni dopo, Graziani, su istigazione del collaborazionista spietato ras Hailù Tecla Haimanot, inviava a Maletti un nuovo ordine: “Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: Liquidazione completa“.

Il generale Maletti fece scavare due profonde fosse in località Engecha e il mattino del 26 maggio uccise 129 diaconi a colpi di mitragliatrice. Per un totale di 449 giustiziati.
Tra il 1991 e il 1994, i due docenti universitari citati, eseguirono nel territorio un’ampia ricerca tra la gente e i monaci e dalle loro testimonianze risulterebbe che i fucilati a Laga Wolde, non furono 320 ma tra i 1.000 e i 1.600. Successivamente, tra il 1993 e il 1998, il Campbell, prosegui da solo e ad Engecha trovò le due fosse dei 129 diaconi, raccogliendo le deposizioni di due testimoni oculari, che avevano assistito alla strage. Graziani aveva ordinato anche l’uccisione di 276 etiopi, insegnanti, studenti di teologia, sacerdoti appartenenti ad altri monasteri e che non avevano a che fare con Dabrà Libanòs, per cui la strage di Engecha ammontava a 400 vittime e il complessivo della rappresaglia contro la città conventuale, si aggirava tra 1.423 e 2.033 vittime e Graziani se ne assunse l’intera responsabilità facendosene titolo di merito, come scrisse: “Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debrà Libanòs, che da tutti era ritenuto invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle risultanze emerse a loro carico. Ma è semmai titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”.

Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni.- Se Graziani pensava d’impartire, agli etiopici, una lezione durissima, sbagliò, perché le repressioni di febbraio-maggio 1937, portarono nuova linfa alla resistenza etiope e con l’ingresso di nuovi capi e di nuovi gregari, avvennero cambiamenti di lotta radicali. La più vasta e indomabile rivolta si sviluppò nel Lasta, nella seconda metà agosto 1937, l’ex-governatore dell’Uag, degiac Hailù Chebbedè invitava la regione alla “Guerra  Santa” contro gli italiani e in pochi giorni annientava il presidio di Amba Uorc, e altri capisaldi vicini. Il colonnello Tosti ebbe l’incarico di braccare il degiac e il generale Pirzio Biroli, dette severi ordini: “ Pertanto catturi il capo ribelle Hailù Chebbedè, vivo o morto, impiccandolo poscia nella piazza do Socotà; passi per le armi i capi secondari importanti; rada al suolo i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli”.
Mussolini furente, il 15 settembre, scrisse a Graziani “ Io sono disposto a mandare battaglioni e aeroplani ma la rivolta deve essere stroncata con la più grande energia e nel più breve tempo possibile. Non si perda altro tempo”.

Il 19 settembre, Graziani investì il territorio di Socotà con 13 battaglioni di soldati nazionali ed eritrei, appoggiati da oltre 10.000 irregolari. Attaccato da più di 20.000 uomini, bombardato da terra dal cielo, Hailù Chebbedè, fu catturato e decapitato e la sua testa infilzata su di una picca, venne esposta nella piazza del mercato e poi in quella di Quoram. Con questo barbaro spettacolo, si concluse il vicereame di Graziani, l’11 novembre 1937. Venne sostituito da Amedeo di Savoia, un soldato decisamente l’opposto di Graziani. Mussolini inviò  un telegramma: “Caro Graziani, con la liquidazione ormai sicura e prossima dei conati di rivolta nell’Amhara e nello Scioa, ritengo che il suo compito sia finito”. Graziani, prima di lasciare Addis Abeba, inviò al duce il suo ultimo rapporto, nel quale si poteva vedere l’alto costo di uomini e mezzi: “L’asprezza della lotta sostenuta in questi diciotto mesi dalla occupazione della capitale … è sintetizzata nei 13.000 uomini perduti, tra nazionali e coloniali e 250 ufficiali. Tre volte le perdite avutesi nella grossa guerra”.
L’imperatore Hailè Selassiè, il 20 gennaio 1941, ritornò in Etiopia, poco prima che i generali Platt e Cunningham lanciassero la loro offensiva e il 5 maggio 1941   (cinque anni esatti dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba) il Negus rientrò nella sua Capitale. Gli italiani presenti in Etiopia, circa 200.000, abbandonati s’aspettavano vendetta da parte etiope ma il Negus si oppose ad ogni vendetta contro gli italiani, in un discorso nel pomeriggio del 5 maggio ad Addis Abeba “ … non ripagate il male con il male, non vi macchiate di atti di crudeltà, come fatto fino all’ultimo istante dal nostro avversario. Attenti a non guastare il buon nome dell’Etiopia…”.

Davanti alla generosità di Hailè Selassiè, l’Italia ha risposto con la rimozione dei crimini e delle atrocità commessi in Etiopia e nelle colonie africane, addirittura con l’erezione di un sacrario dedicato a Rodolfo Graziani ad Affile (Rm) inaugurato il giorno 11 agosto 2012.
In merito alle responsabilità dei crimini italiani in Africa, non è stato istruito alcun processo a carico di:  Mussolini, Badoglio, Graziani, Lessona, De Bono e altri, responsabili dei genocidi africani, rimasti impuniti. Inutilmente il Governo etiope a chiesto di processare Badoglio, Graziani e altri criminali di guerra.

Rodolfo Graziani è stato processato e condannato a 19 anni di reclusione, per collaborazione con l’occupante tedesco e non per i crimini in Africa, scontando soltanto meno di due anni di prigione.
Da parte etiope non ci furono rappresaglie, né quando tornò in patria il Negus, né in seguito. Il Negus, divenne il protettore delle migliaia di italiani, lasciati nel più totale abbandono, un merito mai disconosciuto. Anche se dovette aspettare circa trent’anni per il riconoscimento ufficiale dell’Italia, con un invito a Roma dal Presidente Saragat. Il 6 novembre 1970, con “La grande riconciliazione” si chiuse il capitolo dell’inimicizia fra Italia ed Etiopia, aperto cento anni prima con lo sbarco a Massaua del colonnello Tancredi Saletta.

Il nobile comportamento del Negus, Hailé Selassié, non ha trovato eguale corrispondenza da parte italiana che, in seguito, ha cancellato i crimini commessi in Etiopia e nelle altre colonie africane, non istruendo alcun processo contro: Mussolini, Badoglio, Graziani, De Bono, Lessona, Pirzio Biroli, Maletti e tanti altri, tutti responsabili di massacri e genocidi, rimasti impuniti.
Mussolini, al quale vanno attribuite le maggiori responsabilità, è stato giustiziato nel 1945. E Graziani, nel 1945, anziché condividere il destino del duce, si staccò dal gruppo dei fascisti fuggiaschi e si consegnò a Cernobbio al capitano Emilio Daddario, dello Stato Maggiore Americano, salvando la vita. Venne processato e condannato, non per le stragi in Etiopia e Libia ma per la collaborazione con i tedeschi occupanti dell’Italia.

Inutilmente l’Etiopia ha tentato di far sottoporre a processi Graziani, Badoglio e centinaia di altri colpevoli d’eccidi. Americani ed inglesi hanno esercitato sul Negus ogni sorta di pressione per non fargli fare una “Norimberga africana”, chiudendo nel silenzio una delle più grandi tragedie della storia.


Una triste considerazione finale:
Dopo oltre settantanni dai crimini africani, il nostro Paese deve subire l’offesa di un mausoleo dedicato al “soldato” Graziani eretto in un piccolo paese, Affile, per volontà del sindaco e della sua giunta, sordi a tutte le proteste contro il mausoleo, venute anche dall’estero. L’ANPI, in testa, con la Comunità etiope, l’Associazione dei martiri delle Pratarelle, il Comitato antifascista dei giovani di Affile, sono impegnati da mesi per fare abbattere questo simbolo della crudeltà del colonialismo fascista, chiedendo di erigere, al suo posto, un monumento o un mausoleo dedicato a tutte le vittime del colonialismo italiano e alle vittime del nazifascismo della Valle dell’Aniene e del Sacco.   

Ernesto Nassi - Vice presidente vicario ANPI Roma


Cariche e funzioni della Chiesa copta etiopica.

Abba: Sacerdote
Abuna: Vescovo
Ecceghiè: Capo disciplinare dei monaci


Cariche e titoli militari e civili di origine feudale in uso in Etiopia sino alla rivoluzione del 1974.

Blatta o Blattenghetà: Consigliere privato del sovrano
Balambaras: Comandante del forte, grado di tenente colonnello
Bituodded: Consigliere di Stato
Cagnasmac: Comandante ala destra dell’esercito
Cantiba: Prefetto di una provincia
Degiac o Degiasmac: Generale, Governatore di una provincia
Fitaurari: Comandante dell’avanguardia
Grasmac: Comandante ala sinistra dell’eseRcito
Ligg: Titolo di principe
Negus: Re
Negus Neghesti: Re dei re, imperatore
Ras: Capo di esercito, massima autorità, sottoposta solo all’Imperatore
Tucul: abitazione di paglia e terra.

Le falsità di Baudo su via Rasella: la rettifica del Tg3

La sera di martedì 30 luglio, nel corso del Tg3 delle 19 (edizione nazionale) è stato letto il comunicato di rettifica delle falsità sui fatti di via Rasella pronunciate durante la puntata dell'8 luglio de "Il viaggio".

Vedi il servizio, time code 00:56:25. Titolo: "Le Fosse Ardeatine, impossibile dimenticare"

Il caso era stato sollevato dall'ANPI di Roma con un Comunicato Stampa, e poi ripreso dall'ANPI Nazionale con un suo Comunicato con il quale chiedeva ai vertici RAI di avere un adeguato spazio per la rettifica.

Il direttore Bianca Berlinguer ha letto la seguente, circonstanziata, precisazione:

(rettifica, time code 00:34:25, del TG3 edizione ore 19)
"Nella puntata di lunedì 8 luglio de “Il viaggio”, su RAI 3, condotto da Pippo Baudo, sono state fatte delle affermazioni imprecise e non corrispondenti a verità sull'eccidio delle Fosse Ardeatine e sui fatti di Via Rasella. Non fu offerta, infatti, alcuna possibilità ai partigiani dei Gap (gruppi di azione patriottica e non di azione proletaria come si è detto nella trasmissione) di offrirsi per salvare le vittime destinate alla fucilazione nelle Fosse Ardeatine: il Comando tedesco rese pubblica la notizia dell’eccidio solo dopo il suo compimento come riconosciuto dallo stesso maresciallo Kesserling nel corso di un processo. Ben due sentenze, poi, della Corte di Cassazione hanno qualificato l’azione diVia Rasella come “legittimo atto di guerra”. Il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, cui va sempre il nostro commosso pensiero, deve essere sempre improntato alla verità storica e mai strumentalizzato. La direzione RAI 3 prende doverosamente atto del comunicato dell’ANPI nazionale, rammaricandosi di quanto accaduto".

30 luglio 2013

Comunicato Stampa. Priebke: l'ANPI insieme alle altre associazioni al sit in davanti casa dell'ex SS

In relazione alle manifestazioni che ieri si sono tenute davanti l'abitazione di Erich Priebke, l'Anpi di Roma precisa che anche in questa occasione non ha fatto mancare la sua solidale presenza partecipando, assieme all'associazione degli ex deportati, Aned e ad alcuni rappresentanti delle famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria, Anfim, al sit in del tardo pomeriggio. I rappresentanti dell'Anpi provinciale, con alcune sezioni, hanno partecipato alla staffetta di letture dei nomi delle 335 persone assassinate alle Fosse Ardeatine.

23 luglio 2013

Comunicato Stampa: no a festeggiamenti per i 100 anni del criminale nazista Priebke


Comunicato Stampa

ANPI Roma: no a festeggiamenti per i 100 anni del criminale nazista Priebke.

“Un criminale di guerra non può essere festeggiato, alla memoria delle vittime del nazifascismo non si può mai derogare”. E’ quanto afferma il Comitato Provinciale dell’ANPI di Roma nell’apprendere che il 29 luglio saranno festeggiati i 100 anni di Erich Priebke, il capitano delle SS che sta scontando l’ergastolo ai domiciliari per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

“La migliore risposta a chi vuole festeggiare il carnefice delle Fosse Ardeatine è l’adesione alla petizione on line ‘Vogliamo giustizia e verità sulle stragi nazifasciste’ tramite il sito www.anpi.it.

Ci auguriamo che non si ripetano i festeggiamenti pubblici che Priebke ebbe per i suoi 90 anni. Le ragioni della giustizia e della verità storica non posso essere oscurate, dando la possibilità a personaggi noti di strumentalizzare politicamente il compleanno con l’intento di assolvere la barbarie nazifascista e screditare il ruolo e il significato che i partigiani ebbero nella Resistenza e nella nascita della Repubblica e della democrazia. Priebke rappresenta la responsabilità di tutte le stragi compiute in Italia, che hanno causato la morte di circa 15.000 persone. Nel 70° anniversario dell’inizio della Resistenza l’ANPI di Roma ricorda tutte le vittime del nazifascismo, ed esprime solidarietà alle famiglie dei Martiri, molte delle quali non hanno avuto giustizia. “

Roma, 23 luglio 2013

ANPI Roma - via S. Francesco di Sales 5 - 00165 ROMA – www.anpiroma.org

19 luglio 2013

Considerazioni sul bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 - di V. F. Polcaro, Presidente del Comitato Provinciale ANPI di Roma

19 luglio 1945 – 19 luglio 2013
IL BOMBARDAMENTO DEL 1943 DEL QUARTIERE SAN LORENZO COLPISCE ANCHE L’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ
Istituto Superiore di Sanità
18 luglio 2013
Convegno svolto nell’ambito della “tre giorni commemorativa” organizzata dalle Sezioni ANPI: San Lorenzo, ISS “Ugo Forno”, Università Sapienza “Walter Rossi”, Italia II Municipio

Considerazioni sul bombardamento di Roma del 19 luglio 1943
V. F. Polcaro
Presidente del Comitato Provinciale ANPI di Roma

Il primo bombardamento di Roma avvenne il 19 luglio del 1943, ad opera di 662 bombardieri statunitensi B17 scortati da 268 caccia.
San Lorenzo fu il quartiere più colpito da questo bombardamento, ma furono danneggiate anche zone dei quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Labicano, Tuscolano e Nomentano. Furono sganciate sulla città 4.000 bombe, per un totale di 1.060 tonnellate di esplosivo, che provocarono circa 3.000 morti ed 11.000 feriti, di cui 1.500 morti e 4.000 feriti nel solo quartiere di San Lorenzo (vedi ad es. De Simone, 1993; Portelli, 2007).
Pochi giorni dopo, nella notte tra il 24 ed il 25 luglio, il Gran Consiglio fascista approvò l’”Ordine del Giorno Grandi”, che imponeva a Mussolini il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitava il duce a restituire il comando delle Forze armate al re. Il giorno dopo, Mussolini venne deposto ed arrestato per ordine del re ed il governo passò nella mani del Generale Badoglio. Il 14 agosto 1943, dopo il secondo bombardamento di Roma, il Governo Badoglio dichiarò Roma “città aperta” e attraverso il canale diplomatico di paesi neutrali, Svizzera e Portogallo, venne comunicata ai governi di Londra e Washington la relativa nota ufficiale, contenente tale dichiarazione. Il Comando Supremo italiano, in seguito a tale nota, ordinò immediatamente alle batterie antiaeree della zona di Roma di non reagire in nessun modo in caso di passaggio aereo nemico sulla città; comandò poi lo spostamento di sede dei comandi italiani e tedeschi e delle rispettive truppe; si impegnò a trasferire gli stabilimenti militari e le fabbriche di armi e munizioni e a non utilizzare il nodo ferroviario romano per scopi militari, né di smistamento, né di carico o scarico, né di deposito.
Ma lo stato di “Roma città aperta” fu immediatamente violato dai nazisti, quando occuparono la città nel settembre 1943. Di conseguenza, Roma venne bombardata dagli Alleati altre 50 volte, l’ultima il 3 giugno 1944, il giorno prima della sua liberazione.
Roma non fu la prima città colpita dai bombardamenti alleati: i bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, e continuò su molte città italiane fino alla loro liberazione. La gestazione del bombardamento di Roma fu però lunga e travagliata. Gli alleati furono indotti a usare prudenza e a ripetuti rinvii da un lato per la presenza del Vaticano e per il valore culturale attribuito alla città dalle loro stesse popolazioni, dall’altro anche per ragioni militari e di politica interna, specie da parte statunitense, preoccupata per le possibili reazioni dei propri cittadini cattolici.
Alla fine però, queste esitazioni furono superate, non ostante i tentativi della diplomazia vaticana di impedire che la guerra coinvolgesse la città, con lo Stato del Vaticano a ridosso del suo centro storico.
Due furono i motivi che portarono gli alleati a questa decisione: in primo luogo, lo sbarco in Sicilia del 10 luglio preludeva alla successiva avanzata ed agli ulteriori sbarchi nell’Italia Meridionale e questo rendeva militarmente indispensabile la distruzione del nodo ferroviario di Roma, allora come ancora oggi un punto chiave della rete ferroviaria italiana: metterlo, almeno temporaneamente, fuori uso avrebbe impedito un rapido rinforzo tedesco alla propria scarsa presenza nel Sud Italia, cosa indispensabile per il successo delle operazioni alleate; d’altra parte per entrambi i contendenti della Seconda Guerra Mondiale era data per scontata l'impossibilità di garantire "santuari" (cioè luoghi non attaccabili per qualsiasi motivo) nelle aree di combattimento (Mancini, 2011).
Ma il secondo motivo era altrettanto importante: fino dall’inizio della guerra, la RAF fece bombardamenti a tappeto (in inglese “area bombing”) sul Nord Italia, per attaccare al tempo stesso le zone industriali e quello che veniva definito “il morale” delle popolazioni civili. Gli inglesi erano infatti convinti che questi bombardamenti avrebbero avuto un effetto enorme sul morale di una popolazione trascinata in guerra contro voglia dal proprio regime ed erano per altro consci che la scarsa precisione dei sistemi di puntamento dei loro bombardieri non consentiva in ogni caso di evitare quelli che oggi si chiamano “danni collaterali”. Per contrasto, gli americani, che possedevano sistemi di puntamento migliori, sostenevano che i bombardamenti di “precisione” durante il giorno (i britannici bombardavano di notte, per rendere meno efficace l’azione della contraerea, data la minore quota di tangenza dei propri bombardieri pesanti) fossero più efficaci militarmente, oltre che più accettati dall’opinione pubblica del proprio paese. L’offensiva aerea sull’Italia (come sulla Francia), almeno ufficialmente e tranne alcune eccezioni non venne quindi mai definita come area bombing, né furono effettuati attacchi alle città italiane con bombe incendiarie (come quelli devastanti su Amburgo, su Tokyo e soprattutto su Dresda).
Tuttavia, nella realtà gli effetti dei bombardamenti americani non furono molto diversi da quelli degli inglesi e il morale della popolazione civile italiana fu oggetto di continua discussione tra i vertici politici e militari alleati e spesso divenne obiettivo collaterale dei bombardamenti (Baldoli, 2010). Che questo fosse uno dei motivi dei bombardamenti è provato dal fatto che le bombe erano spesso precedute o seguite da lanci di volantini: in questi gli Alleati si proclamavano amici del popolo italiano, attribuivano la responsabilità degli attacchi a Mussolini ed alla sua alleanza con la Germania, confermavano cose già sospettate dagli italiani, soprattutto dall’inverno del 1941-42 (le sconfitte militari, il controllo dei tedeschi sulla politica fascista) e davano consigli su come uscire prima dall’incubo delle bombe, protestando contro la guerra e contro le autorità fasciste. Secondo Frasca (2004), anche il bombardamento di San Lorenzo fu preannunciato dal lancio di volantini su Roma, che invitavano i cittadini ad allontanarsi dagli obiettivi militari, ma la notizia non è confermata da altre fonti.
Anche gli americani si convinsero dell’utilità di questa strategia. L’OSS (Office of Strategic Services), la struttura di intelligence statunitense, affermò ad esempio che il bombardamento a tappeto su Torino del 12 luglio 1943 (che provocò 792 morti, più di qualsiasi altro attacco su una città italiana fino ad allora) aveva “creato una situazione critica che le autorità facevano fatica a controllare”; di conseguenza, “un simile trattamento” venne raccomandato per Milano. Un rapporto del 310° Gruppo Bombardieri americano, riferendosi agli attacchi su Napoli del 17 luglio, forse l’azione più distruttiva tra i bombardamenti del ’43, sosteneva lo stesso principio, affermando, su dati di intelligence, che i bombardamenti avevano provocato nella città italiana manifestazioni per la pace e attività di sabotaggio (Baldoli, 2010).
Questi rapporti furono determinanti nella decisione alleata di colpire Roma che era la capitale del fascismo ed aveva un ruolo chiave nell’immaginario collettivo del regime: colpire Roma significava colpire il fascismo al cuore.
L’operazione fu concepita come un “bombardamento di precisione” dello scalo ferroviario di San Lorenzo e perciò affidata ai B17 statunitensi, che, partiti dalla basi in Tunisia, entrarono su Roma seguendo il corso del Tevere, fino a raggiungere l’obiettivo. Il bombardamento condotto dalla prima ondata fu effettivamente abbastanza preciso e le bombe caddero quasi esclusivamente sull’obiettivo, mentre altre furono lanciate sugli aeroporti di Centocelle e Ciampino, per ostacolare la reazione dei caccia italiani (solo 38 aerei!). Tuttavia, il fumo degli incendi e delle esplosioni coprì rapidamente l’area, rendendo inutilizzabili i sistemi di puntamento, sicché le cinque ondate successive scaricarono le proprie bombe in modo molto approssimativo, causando le vittime civili delle quali si è detto e colpendo anche il Policlinico, la Città universitaria, l’Istituto Superiore di Sanità, la Cattedrale di San Lorenzo, il Cimitero del Verano e l’Acquedotto Claudio.
Molti commentatori, soprattutto anglo-americani, hanno descritto il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 e gli altri bombardamenti alleati sulle città italiane come uno dei motivi della caduta di Mussolini. Secondo questa interpretazione, la guerra psicologica, insieme alle bombe, riuscì a convincere gli italiani ad allontanarsi da Mussolini, e soprattutto a rifiutare la collaborazione con i tedeschi.
Sicuramente, questa guerra psicologica ha in parte funzionato: ad esempio, in attesa dell’arrivo dei “liberatori” appena sbarcati ad Anzio, la giornalista Anna Garofalo (citata in Baldoli, 2010) scrisse a Roma nel suo diario:
Un nemico che ha dovuto farci molto male e a cui non sappiamo volerne per il male che ci ha fatto. Sul nostro povero corpo inerme egli ha dovuto colpire il cancro che ci divorava, tagliando la carne come fa il chirurgo col bisturi
Bisogna però chiedersi se la vittoria anglo-americana e l’interpretazione della Seconda Guerra Mondiale come conflitto fra fascismo e democrazia abbiano fatto dare per scontata l’idea che i bombardamenti, le cui conseguenze sui civili sono state messe in ombra dalle stragi naziste nel Paese, siano stati effettivamente parte integrante della guerra di liberazione.
È infatti complesso comprendere l’impatto della propaganda su coloro che subirono i bombardamenti durante la guerra e fino a che punto bombe e propaganda possano davvero annoverarsi tra le cause della caduta del regime e dell’armistizio.
Questo non è solo un problema storico, dato che l’esperimento dei bombardamenti sull’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, accompagnato dall’affermazione ideologica della loro efficacia, ha avuto un seguito in guerre successive, fino a quelle recenti contro l’Iraq, l’Afghanistan, l’ex Yugoslavia e la Libia. Resta però da dimostrare se tale efficacia sia stata effettiva e, se sì, in quale misura e con quali significati.
Non dimentichiamo che in altre circostanze, quali ad esempio i bombardamenti a tappeto italo-tedeschi durante la “Battaglia d’Inghilterra” del 1940 o quelli americani sul Vietnam, la stessa strategia ha sortito sulla popolazione colpita un effetto totalmente opposto a quello conclamato nel caso italiano.
Personalmente, sono quindi propenso a credere che, se effettivamente i bombardamenti alleati hanno avuto un ruolo importante nell’accelerare la disgregazione della struttura del partito nazionale fascista, le decisioni del re e quindi la caduta di Mussolini, tuttavia su quel grande moto di riscossa nazionale e democratica che è stata la Resistenza, in tutte le sue forme, i bombardamenti possono essere stati, al massimo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Bibliografia

C. Baldoli, 2010, I bombardamenti sull’Italia nella Seconda guerra mondiale. Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile, DEP, n.13-14 / 2010 , pp. 34-49
http://www.unive.it/media/allegato/dep/n13-14-2010/Dep_13_14_2010_c.pdf
C. De Simone, 1993, Venti angeli sopra Roma. I bombardamenti aerei sulla città eterna (il 19 luglio e il 13 agosto 1943), Milano, Mursia
S. Frasca, 2004, Centocelle, http://grwavsf.roma1.infn.it/vb/frasca/Centocelle.pdf (consultato il 17/7/2013)
U. Mancini, 2011, La guerra nelle terre del papa. I bombardamenti alleati tra Roma e Montecassino attraversando i Castelli Romani, Milano, FrancoAngeli

A. Portelli, 2007, Il bombardamento di San Lorenzo, Bari, Podcast Laterza

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