Nato ad Ancona il 5 Dicembre 1924 Massimo Pradella, 96 anni, già direttore dell’orchestra RAI, violinista e pianista, arruolatosi Volontario della Libertà nel neonato Esercito di Liberazione. «Il mio 8 settembre era cominciato ben prima, con l’approvazione delle leggi razziali – ha detto il maestro –. Avevo 14 anni, vivevo ad Ancona, il mio parroco aveva organizzato un concerto e su “La Voce Adriatica” comparve un articolo violento, in cui venivo definito “mezzo sangue” per parte di madre, di cognome Senigaglia. Continuava con accenti provocatori rivolti non solo a me ma agli ebrei in generale. La mia famiglia, preoccupata, si trasferì a Roma. Amo questa città anche perché mi ha salvato. E oggi nonostante gli echi nostalgici, i rigurgiti di quella cupa stagione, temo soprattutto gli indifferenti».
Il maestro Massimo Pradela racconta “il mio 25 aprile”
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intervista di Carolina Zincone
La casa di Piazza Vittorio è piena di quadri e di libri, di ricordi e vecchie fotografie.
Massimo Pradella, noto direttore d’orchestra, si è svegliato tardi perché nella notte c’è stato il terremoto e ha dormito poco. Però si è preparato per il nostro incontro. Sa cosa dire e cosa mi voglio sentir dire. Ha anche preparato due vassoi diversi, uno nel caso io voglia un tè e uno nel caso preferisca il caffè. Optiamo per il caffè, co-protagonista dell’intervista.
Figlio d’arte, nato da madre pianista e padre pittore, Pradella un tempo si chiamava Padella, ma ad un certo punto gli è stato suggerito di cambiare cognome perché quello originale non era abbastanza artistico per la RAI ( per la RAI è stato direttore stabile dell’orchestra di Torino e dell’Alessandro Scarlatti di Napoli).
In un paio d’ore mi snocciola la sua vita, segnalandomi quali possono essere i punti più interessanti. Si vede che è abituato a dirigere. Ha 84 anni ma (suggerisce) ne dimostra di meno e fa subito una premessa: “Non voglio essere l’ultimo garibaldino”.
“L’ultimo garibaldino” è il titolo di uno dei racconti che andranno a comporre le sue memorie. Quello che mi vuol dire ricordando questo personaggio della sua infanzia ad Ancona è che se l’unità d’Italia ha congelato (osannandoli) i valori garibaldini, con il risultato di segnare per sempre la storia italiana, lo stesso non deve accadere con il 25 aprile, che ha bisogno di pensiero, non di celebrazioni.
Perché si celebra quello che non c’è più, mentre il 25 aprile deve restare vivo.
Ecco allora che il pensiero di Pradella ci riporta agli anni delle leggi razziali durante i quali lui, nato da una madre ebrea che caratterizza la famiglia, deve cercare di rendersi invisibile anche se non vuole e non sempre ci riesce. I giornali di Ancona descrivono il giovane musicista come un “bastardo” e una volta viene preso seriamente a bastonate.
Curato in un albergo vicino alla stazione da un amico poi morto a Mauthausen, non lo dice ai suoi per non impensierirli. La famiglia si salva trasferendosi tra il ’39 (il padre) e il ’41 (il resto della famiglia) da Ancona alla Garbatella, dove nessuno conosce i Padella né tanto meno il cognome sospetto della mamma, Senigaglia.
Massimo doveva partire in guerra con l’ultimo scaglione, ma grazie alla balbuzie (ora passata) e ad un amico dottore che vive nel suo stesso lotto finisce in “segregazione” con i cosiddetti malati di mente.
Esperienza, questa, a quanto pare non meno dura.
Vive in un grande appartamento in Piazza Oderico da Pordenone che si pente di non aver mai comprato e che lascerà nel ’57, quando si sposa.
Sono le case dell’INCIS (poi IACP e ora ATER), quelle con la grande finestra centrale da cui Mussolini le inaugurò e che videro sventolare la bandiera di Massimo il 25 luglio del ’43. E’ così che il ragazzo diventa un vero abitante del quartiere, un quartiere che lo protegge e per il quale combatte.
E’ molto emozionato nel ricordare tutto, ma menziona molto volentieri e con profonda riconoscenza i nomi di tutte quelle famiglie del lotto numero 1 che hanno aiutato la sua: la famiglia Jatosti, con il padre della scrittrice Maria, comunista perseguitato, che ha molto contribuito alla sua formazione politica e culturale (“tanto per fare un esempio mi ha dato da leggere Il tallone di ferro di Jack London, famoso libro di iniziazione”); il colonnello Pirro, che prestava servizio presso il tribunale militare fascista ma faceva parte della Resistenza e lo salva dalla soffiata di una signora fascista che viveva nello stesso lotto e al mercato l’aveva sentito parlar male dei tedeschi; Antonio Carcaterra, il professore di diritto romano che faceva la Resistenza con la Democrazia Cristiana. Così come ricorda i Floris, che lo tengono nascosto in Via Giustino De Jacobis quando smette di fare il finto attendente.
Chiedo a Pradella come reagisse la sua famiglia di fronte a tutte queste sue peripezie solitarie e mi risponde che “in una situazione di continua emergenza, la paura non esisteva, eravamo pronti a tutto”. E anche un po’ incoscienti, come lo zio Giorgio, che avrebbe fatto una brutta fine, incappato in un rastrellamento e portato a Regina Coeli se non fosse stato fatto uscire dal carcere da un vicino di casa, Giusto Amato (nomen omen), che Pradella chiama “Il Giusto”: un cancelliere del tribunale, cattolicissimo, che durante i bombardamenti faceva il rosario.
La casa dei Padella, d’altra parte, è divenuta un punto di raccolta, se non altro perché molti figli dei vicini vanno a studiare pianoforte dalla mamma, “grande pedagoga”. Da parte sua, il giovane Padella si impegna in numerose azioni, distribuendo tra l’altro i giornali clandestini in compagnia di giovani coraggiosi come Richi Possamai. Sono gli anni di una Resistenza molto nascosta: il piccolo gruppo della Garbatella è coordinato da un giovane anarchico che Pradella ricorda benissimo: voleva dare un’ultima mitragliata a dei carri di cavalli pieni di tedeschi feriti che ripiegavano verso San Paolo mentre loro osservavano acquattati sotto gli archi di Sant’ Eurosia. Massimo decise di scongiurare l’attacco impossessandosi dell’arma, ma è ancora arrabbiato con l’amico che poco dopo si rifiuta di partecipare alla Guerra di Liberazione al grido di “io non combatto al fianco dei badogliani!”.
In nessun modo condivide questo estremismo, lui che si definisce “un militante tranquillo” e che estremista non è mai stato.
La Guerra di Liberazione porta così allo spartiacque del 1944, “sì, perché c’è un prima e c’è un dopo: il 4 giugno viene liberata Roma e il 5 mi iscrivo al PCI”.
Il PCI, la Villetta, Garbatella. E’ questo il contesto in cui Pradella colloca il 25 aprile dell’anno successivo. Volontario, lui sì, nell’esercito di liberazione, viene ricoverato al Celio con una pleuropolmonite fino a pochi giorni prima della Liberazione, ma non ha diritto ad essere curato con la penicillina perché non viene dal fronte. Questo particolare poco eroico lo fa ancora sorridere, come lo fanno sorridere i ricordi dei compagni di sezione che gli allietano la convalescenza quando esce.
E’ qui che nasce l’amicizia con Cosmo Barbato – quel “bellissimo ragazzo dall’entusiasmo quasi esagerato” che diviene ben presto la sua guida politica – e con Alfredo Bartoli (operaio del gas ai forni e poi geometra dalle scuole serali) a cui ricorda di aver voluto un gran bene. Questo momento di stasi obbligatoria, richiesto dalla recente malattia, comporta un calo di tensione, dopo gli anni terribili da cui escono lui e la sua famiglia, e in questo stato di languore si lascia accogliere e indirizzare all’azione politica, ricambiando le attenzioni con la musica che studia al Conservatorio di Santa Cecilia. Ecco allora il concerto che si doveva tenere presso la scuola Cesare Battisti e che si svolge invece proprio alla Villetta, il 23 settembre del 1945.
In quegli anni la Villetta (“questo ci tengo a dirlo”) è stata per il giovane Pradella tutto quello che la sua vita di musicista gli aveva impedito di avere: le amicizie di scuola e dell’università con cui andare al bar la sera o fare il ragazzaccio. La Villetta come momento di riscatto, anche simbolico, dei rapporti sociali e di vita quotidiana.
Nel 1953, però, poco dopo la morte di Stalin scoppia il caso Beria. L’ex capo della polizia segreta viene “liquidato” durante una riunione del comitato centrale del PCUS e l’annuncio della sua morte viene dato alla fine dell’anno. E’ allora che Pradella comincia a mettere in discussione la natura del regime sovietico. In occasione di un congresso di sezione sostiene che “se Beria andava male anche Stalin va male”, e fa così quello che definisce “un mio XX Congresso tre anni prima”. In quel momento però certe cose non si potevano ancora dire, non si era preparati.
Per questo Pradella decide di non iscriversi più al PCI.
Cosa di cui si accorgono in pochi, “visto che ho fatto sempre il comunista, anche se da non iscritto e con un’anima critica, perché era difficile riaggrapparsi ad un’esperienza così negativamente…finita”. Tant’è che nel ’71 rientra nel partito, presentato da Giorgio Napolitano alla sezione di Monteverde, per non uscirne più e seguirne le varie trasformazioni fino al PD di oggi.
Adesso che sente di poter fare un bilancio della sua esperienza politica si dice convinto del fatto che la politica sia “l’arte del possibile” e non uno strumento per discettare sul sesso degli angeli. Per questo teme più di ogni altra cosa l’oltranzismo, soprattutto quello dettato dalla buona fede. Non a caso quando veniva rincorso dalle SS pregava che gli inseguitori fossero in cattiva fede e quindi facilmente “corrompibili”.
Il fascismo, poi, è “una filosofia pericolosa”. I suoi aspetti apparentemente innocui, il conformismo, il qualunquismo, il “me ne frego”, vanno monitorati e bloccati sul nascere, perché costituiscono il brodo di coltura di pericolose derive e sciagurate alleanze. Quando, nel ’54, per motivi di lavoro gli fu chiesto di cambiare cognome, Pradella considerò spontaneamente l’ipotesi di prendere il nome della madre. Fu lei, in ginocchio, a supplicarlo di non farlo, “perché tutto può tornare”.
E qualcosa sta già tornando, “qualcosa che per certi aspetti assomiglia più al nazismo che al fascismo, per l’odio razziale che alimenta contro gli “extracomunitari”. Sul come reagire, come difendersi e cosa proporre Pradella è scettico: “la globalizzazione che in qualche modo abbassa i cervelli, allo stesso tempo allarga la sfida, dovendo persuadere chi storicamente andava a rimorchio.
Ma il mondo borghese non è pronto. Tradizionalmente elitario, non è ancora in grado di pensare a tutti – e un nuovo ordine economico veramente socialista attende un nuovo Carlo Marx.
Vedi anche:
https://www.noipartigiani.it/massimo-pradella/