Poco dopo che l'oratore ha cominciato il suo discorso, dal vicino monte Pelavet vengono esplose numerose raffiche di mitra, fucili e mitragliatrici che colpiscono la folla mietendo undici vittime, tra cui quattro bambini, mentre altre ventisette rimangono ferite. A sparare sulla folla inerme sono gli uomini di Salvatore Giuliano, i quali avevano tenuto in ostaggio quattro cacciatori incontrati per caso nella zona della strage al fine di evitare che potessero dare l'allarme, per poi uccidere sulla via del ritorno il campiere Emanuele Busellini, noto per essere un informatore delle forze dell'ordine. Inoltre, elle settimane successive, altre sei persone moriranno a causa delle ferite riportate.
Sebbene i vari processi susseguitisi negli anni immediatamente successivi non siano riusciti a far luce sui mandanti, appare evidente la matrice reazionaria e anticomunista della strage, cui seguirono attacchi contro le sedi delle Camere del Lavoro e del PCI in varie località delle province di Trapani e Palermo: le istanze della mafia e degli agrari si scontrano con le rivendicazioni di contadini e braccianti, che con la vittoria della coalizione social-comunista avevano cominciato a sperare in un moto di rinnovamento politico e sociale. In questo contesto la figura del bandito Giuliano, già militante del Movimento Indipendentista Siciliano e fervente anticomunista, divenne il braccio armato di chi voleva difendere ad ogni costo il mantenimento dello status quo.
La strage di Portella della Ginestra fu la prima delle molte stragi di matrice politica che insanguinarono l'Italia nel secondo dopoguerra.