26 aprile 2017

25 aprile 2017 - Ora e sempre Resistenza! Articolo su Micromega di Angelo Orsi con intervista a Tina Costa

25 Aprile 2017 Ora e sempre Resistenza! Articolo su Micromega

25 Aprile 2017

Ora e sempre Resistenza!



“Oggi non è la festa di tutti. È la festa di chi ha combattuto dalla parte giusta”. Pubblichiamo un editoriale di Angelo d’Orsi in lode del 25 Aprile (e dell’ANPI). A seguire, le testimonianze di due protagonisti della lotta partigiana, Tina Costa (“Io, giovane staffetta partigiana, contro il fascismo rischiai anche la vita ma rifarei tutto”) e Massimo Ottolenghi (“La Carta costituzionale è stata la vera conquista della Resistenza. Ma è stata tradita”), che raccontano a MicroMega il loro impegno antifascista.

di Angelo d’Orsi

Vorrei cominciare con una pubblica lode all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. E al suo presidente, Carlo Smuraglia, una delle personalità che meglio incarnano i valori civici dell’Italia repubblicana nata dalla Resistenza. Vorrei dire grazie a lui, e alle migliaia di aderenti all’Associazione, che, in ogni plaga d’Italia (una sorta di corrispettivo laico e militante delle parrocchie cattoliche…), ogni giorno, barcamenandosi con la penuria di fondi, con la ristrettezza di mezzi, con la provvisorietà di strutture in cui le Sezioni vengono ospitate, lottano non soltanto per tener vivo lo spirito della lotta partigiana, ma per la tutela del supremo bene che da quella lotta è nato, la Carta costituzionale.

Nell’
Almanacco di Storia che MicroMega ha realizzato, nel 70° della Liberazione, nel 2015, abbiamo inserito alcune interviste a partigiani, un paio dei quali intanto ha cessato di vivere, in quel mestissimo stillicidio di morti, che, inevitabilmente, accompagna il regesto dei partigiani italiani. Ebbene, una delle domande che a tutti abbiamo rivolto era, semplicemente, e vorrei dire banalmente: “Che cosa è rimasto di quella vostra lotta? Che cosa avete ottenuto?”. Le risposte, al di là delle differenze di toni e accenti, erano tutte improntate a un senso di accorata delusione, se non addirittura di sconsolata disillusione. Un briciolo di orgoglio, però, affiorava quando gli intervistati rispondevano, alla domanda sui risultati raggiunti dalla lotta costata sangue, prigione, umiliazione, esclusione sociale: “La Costituzione!”.

Ebbene, l’ANPI è stata, assai più della nostra Suprema Corte, tante volte ingessata da condizionamenti politici del momento, la custode vigile di quel risultato, e insieme la sua prima animatrice, onde evitare che la stessa Carta divenisse un mero simulacro. Ne abbiamo avuto prova lampante nella straordinaria mobilitazione che, quasi totalitariamente, l’Associazione a livello centrale e periferico ha messo in atto nella campagna referendaria conclusasi con lo straordinario risultato del 4 dicembre 2016. Assai più convintamente delle forze politiche che pure erano contro le “riforme” renziane, molto meglio di gruppi sparsi di militanti, e più seriamente organizzata di tanti circoli e sodalizi, l’ANPI ha contribuito in modo determinante alla sconfitta del tentativo, irreversibile, di manomettere, con la Carta costituzionale, la stessa democrazia italiana, già sottoposta a pesanti forme di inquinamento, di riduzione, di snaturamento. E Carlo Smuraglia è stato in prima linea. Se il presidente della Repubblica volesse fare un gesto vero di riconoscimento, indirizzato non solo all’individuo Smuraglia, ma all’intero mondo del partigianato, dovrebbe, sia pur in ritardo, concedergli il laticlavio. Subito.

In questa breve evocazione del passato recente, andrebbe ricordata, poi, la infelicissima battuta della madrina della “riforma” costituzionale, Maria Elena Boschi, che, davanti alla presa di posizione dell’ANPI in difesa della Costituzione, con una bella faccia tosta, ebbe a sibilare: “I veri partigiani sono per la riforma”. Si trattò di un autogol micidiale che nel suo piccolo ha contribuito alla sconfitta dei guastatori. Oggi quella battuta è stata riproposta con altrettanta faccia tosta dalla rappresentante della Comunità Israelitica di Roma, Ruth Dureghello, che ha sentenziato che l’ANPI non rappresenta i “veri partigiani”. E che gli ebrei romani, dunque, faranno una propria manifestazione.

Gad Lerner, ebreo che si ostina a ragionare con la propria testa, e rifiuta il richiamo della appartenenze etniche o religiose, in occasione del XXV Aprile 2013, invitò la Comunità israelitica milanese a non fare abuso politico della Brigata Ebraica, in cerca di consensi che inevitabilmente giungevano dalla destra. Oggi alla dichiarazione sciagurata della Comunità romana, che si è “dissociata” dalla manifestazione, causa la presenza di bandiere ed esponenti palestinesi, ha subito fatto eco, il signor Matteo Orfini “commissario” del PD romano, che ha sparato a zero, maramaldescamente, contro l’ANPI. Sicché, per la prima volta, l’erede del PCI, il partito che ha dato il maggior contributo di forze e di caduti alla Resistenza, sarà assente alla manifestazione che celebra appunto l’esito di quel tributo di lotte e di sangue. Una definiva, irrimediabile conferma che quel partito è morto per la democrazia italiana. E che non merita neppure di essere preso in considerazione in vista di futuri rassemblements democratici per sconfigger la destra: la destra vera, la destra pericolosa oggi, in Italia è il sedicente “Partito democratico”.

Anche a Milano, una associazione vicina alla Comunità Israelitica, la quale pare non aver tenuto in alcun conto l’accorato invito di Lerner, ha provato a mettere i piedi nel piatto chiedendo al sindaco di non accettare alla manifestazione rappresentanti del movimento BDS, un movimento nonviolento diffuso ovunque in risposta alle politiche israeliane ai danni dei palestinesi. In questo caso è stato Moni Ovadia, ebreo e milanese, a replicare con finezza argomentativa e ricchezza di spunti, e non posso che rinviare alla sua nobile lettera al sindaco Beppe Sala.

Quello che irrita, al di là della pesante strumentalizzazione politica della Brigata Ebraica e sul suo ruolo effettivo nella guerra di Liberazione (sul tema ho già scritto in passato e non ritorno), e al di là della ovvia legittimità della partecipazione palestinese (e del BDS) ai cortei, è il fatto che delle agenzie religiose, o comunque parareligiose, si permettano di dettare la linea alle autorità civili del Paese. Aggiungo che è inaccettabile è, dietro la “contesa”, l’idea, da tante parti ventilata in questi giorni di vigilia, che il XXV Aprile debba essere ricorrenza “inclusiva”, una “festa di tutti”, una “giornata di riconciliazione”, all’insegna della grottesca “memoria condivisa”. A queste scempiaggini, va risposto in modo secco: come un partigiano potrebbe condividere la memoria di un repubblichino? Quale sarebbe il tessuto che unisce chi ha combattuto per darci la Costituzione repubblicana e chi ha combattuto dall’altra parte? Quale condivisione è possibile tra le vittime e i carnefici? Tra fascismo e antifascismo?

Sia lode dunque all’ANPI, che, anche a dispetto del PD, ci ricorda con la sua stessa esistenza, che quella condivisione è un inganno pericoloso, e che si può stare soltanto da una parte, se si vuole essere cittadini a pieno titolo della Repubblica: “nata dalla Resistenza” (mi si lasci ripetere lo slogan), e non dalla Repubblichetta di Mussolini, fantoccio di Adolf Hitler. Il XXV Aprile non è la festa di tutti. È la festa di chi ha combattuto dalla parte giusta.


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IO, GIOVANE STAFFETTA PARTIGIANA
“Fin da piccola mi avevano abituato a non chinare la testa e a 7 anni feci la mia prima azione di rivolta contro il fascismo quando mi rifiutai di indossare la divisa da ‘figlie della Lupa’. A neanche 18 diventai una staffetta partigiana: con la mia bicicletta dovevo attraversare la Linea Gotica e consegnare delle borse ai combattenti che si trovavano nel territorio occupato dai nazisti. Rischiai anche la vita ma rifarei tutto”.


di Tina Costa, da MicroMega 3/2015 - "Ora e sempre Resistenza" - Almanacco di storia

Sono nata in una famiglia antifascista a Gemmano, un comune dell’entroterra di Rimini che è stata, insieme a quella di Cassino, la zona che ha subìto le distruzioni più pesanti a causa dei bombardamenti della guerra. Ero la maggiore di quattro figli, due femmine e due maschi; mio padre era socialista e mia madre, a cui devo la mia «educazione politica», era iscritta al Partito comunista, clandestino, fin dal 1935, mentre i suoi tre fratelli avevano partecipato alla fondazione del Pci a Livorno nel 1921. Papà non si era mai iscritto al Partito fascista e noi bambini lo vedevamo che ogni tanto tornava a casa pieno di lividi, mamma diceva che era caduto; solo in seguito avremmo capito che invece erano i fascisti che lo avevano aggredito, e più d’una volta. Sarebbe morto nel 1939, per le conseguenze delle ferite che aveva riportato già nella prima guerra mondiale. Per vivere faceva l’artigiano del gesso: lo scavava, poi lo cuoceva e lo portava, dentro dei grandi sacchi, con i suoi muli, dove stavano costruendo qualche casa. Mia madre faceva diversi lavori, a un certo punto, dopo l’8 settembre, avrebbe lavorato perfino come cuoca nella caserma in cui si erano sistemati i tedeschi a Rimini. Non era una vita facile, da nessun punto di vista, ma in famiglia ci avevano abituato a non chinare la testa. Questo, insieme all’esempio di mia madre, mi avrebbe portato in seguito a partecipare alla Resistenza.

Credo di poter dire che però la mia prima «azione» di rivolta contro il fascismo l’ho compiuta quando avevo solo sette anni e frequentavo la seconda elementare. All’epoca, a scuola, avevo una maestra che veniva da Predappio – si chiamava, me lo ricordo ancora, e come potrei scordarlo per come mi trattava, Anita Fusaroli. La mia era quella che veniva chiamata «pluriclasse», nel senso che venivano messi insieme bambini di prima e di seconda, come avveniva nelle scuole di tanti piccoli centri di campagna. Una mattina la nostra maestra che veniva a scuola in divisa fascista, con la bandoliera a tracolla e il fez in testa, ci annunciò che di lì a qualche giorno avremmo dovuto presentarci vestite da «piccole italiane» o da «figlie della lupa». Tornata a casa, i miei mi chiesero cosa avessi fatto a scuola e io raccontai la richiesta della maestra spiegando che l’idea di vestirmi da «figlia della lupa» non mi dispiaceva, per strada ci avevo già pensato e l’altra ipotesi, quella della «piccola italiana» non mi attraeva invece per niente. In realtà, non avevo idea di cosa si trattasse, ma questo fatto dei lupi doveva aver colpito la mia fantasia di bambina.

Mia madre era molto attenta, mentre mio padre parlava poco. Però, in questo caso, fu lui a parlare e mi disse, in dialetto: «Allora ti tocca andare a cercare la lupa se vuoi mangiare stasera, perché qui c’è poco da mangiare». Detto questo, mi prese per mano e mi accompagnò fuori dalla porta di casa: la nostra era una di quelle case di campagna con il pianerottolo e la scala davanti. Era buio. Ho riflettuto qualche minuto e poi ho bussato. Mio padre ha aperto la porta e io gli ho detto: «Ma io mica sono la figlia della lupa, sono figlia vostra». Lui ha sorriso e ha risposto: «Allora vieni qui a mangiare con noi».
Il giorno famoso, a presentarci a scuola senza divisa siamo stati solo in tre: io, mia sorella che faceva la prima e mio cugino che stava in seconda come me. La maestra venne però proprio da me per chiedere spiegazioni di quel comportamento. «Perché non sei in divisa?», mi chiese. «Ma perché io non sono la figlia della lupa, sono figlia di Costa Matteo e Zeppa Tullia», le risposi. Non potete immaginare le angherie che da quel momento ci ha fatto subire quella maestra. La mattina dava a tutti noi bambini un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, perché, diceva, dovevamo farci i muscoli. Poi, per pulirci la bocca, avevamo diritto a uno spicchio d’arancio. Quella mattina, però, tutti ebbero il loro arancio, tranne noi tre. Il giorno successivo, dopo che le avevo raccontato l’accaduto, mia madre, che per procurarsele avrà fatto qualche debito, comprò delle arance e ne diede una ciascuno a me e a mia sorella; quando la maestra passò con l’olio di merluzzo, noi tirammo fuori le nostre arance: non ci aveva piegato! È cominciato tutto così, ma era solo l’inizio.

In seguito, mi sarebbe capitato tante volte di ascoltare quello che dicevano i miei con i loro amici quando si riunivano di nascosto nelle stalle, in mezzo agli animali, per non essere visti e sentiti: io ero curiosa e andavo ad ascoltare i loro discorsi, anche se magari non ne capivo granché. Avrò avuto sì e no dieci anni, ma qualcosa stava già maturando, dentro di me cominciava a cresceva la ribellione.

Ai tempi della guerra d’Etiopia, i comunisti aiutavano i giovani che non volevano andare a combattere e perciò anche mia madre si era attivata. All’epoca noi bambini fungevamo da messaggeri: ci davano dei bigliettini da portare a questo o a quel tale, per avvertirlo dove poteva nascondersi per evitare di essere mandato in Africa; potrebbe sembrare una cosa semplice, ma noi la prendevamo molto seriamente. Una mattina ero partita presto per andare a consegnare uno di questi messaggi alla famiglia di un giovane che viveva in un casolare in mezzo alla campagna e che aspettava di sapere dove si sarebbe dovuto nascondere per sfuggire alla coscrizione obbligatoria. Solo che mentre stavo arrivando, mi venne incontro suo padre che mi disse: «Docl’è il bigliett? (Dov’è il biglietto?)». Era un contadino che io ero abituata a vedere con i pantaloni rattoppati e la camicia da lavoro e invece quel giorno era tutto elegante, in giacca e cravatta. Perciò non mi fidai e gli risposi: «Me, a go nessun bigliett (Io non ho nessun biglietto)». Naturalmente il giorno dopo dovetti tornare lì a consegnare il messaggio. Decenni più tardi, mio figlio avrebbe riso ancora di tutta questa storia, chiedendo a mia madre: «Ma quanti bigliettini le hai fatto mangiare?»; perché ci dicevano che una volta che il destinatario l’aveva letto, dovevamo ingoiarlo per non lasciare tracce. In seguito, però, le cose si sarebbero fatte più serie.

Dopo l’8 settembre, Gemmano si trovò proprio lungo la Linea Gotica che avevano costituito i tedeschi e così l’intera zona si riempì di soldati. Allo stesso modo, però, l’area diventò anche uno snodo importante delle attività della Resistenza. Uno dei fratelli di mia madre, Germano Zeppa, era comandante partigiano in quella zona e tramite mamma anch’io fui coinvolta fin dall’inizio. All’epoca non avevo ancora diciott’anni e diventai una staffetta partigiana quasi senza accorgermene: ero molto orgogliosa degli incarichi che mi venivano affidati. Con la mia bicicletta dovevo attraversare la Linea Gotica e consegnare delle borse ai partigiani che si trovavano nel territorio occupato dai nazisti. Fu tutto così naturale, senza grandi discorsi. I partigiani erano spesso persone che avevo già visto a casa mia, amici dei miei genitori o dei miei zii, per lo più volti familiari.

Ricordo ancora la prima volta che mi chiamarono, mi spiegarono cosa dovevo fare e mi diedero la bicicletta e due borse, o canestri, non sono sicura, che dovevo trasportare oltre le linee tedesche. Ero emozionata ma anche felice, perché sentivo che stavo dando il mio contributo a qualcosa di importante. Cosa c’era dentro quelle borse? Contenevano viveri, medicinali, vestiti, insomma cose che servivano a chi viveva nascosto sulle colline, spesso all’addiaccio. Ma a volte erano molto più pesanti: dentro le borse c’era anche qualcos’altro… L’itinerario cambiava sempre, come anche la parola d’ordine e la consegna era che se avessi visto in giro qualche pattuglia di tedeschi o fascisti sarei dovuta tornare immediatamente indietro, anche se non ce l’avevano con me. In quel caso, non dovevo però tornare a casa mia, perché c’era il rischio che qualcuno mi seguisse, ma in un’altra, di amici o conoscenti. E i tedeschi nella zona erano dappertutto; addirittura c’era un soldato molto giovane che mi faceva il filo quando mi incontrava. In ogni caso, eravamo sempre all’erta, anche quando non eravamo impegnati in un’azione. Ricordo che i compagni più grandi ci dicevano di guardarci le spalle, anche quando camminavamo per strada, per timore che qualcuno ci stesse seguendo. Perciò, mi ero abituata a guardarmi attorno, per cercare di capire dalla faccia o dal comportamento di chi incontravo se potevo fidarmi o meno. Ci si affidava all’intuito, ma non era facile, anche perché a volte, perfino di persone che conoscevi da tempo, addirittura di molti amici, non potevi fidarti fino in fondo.

La paura mi accompagnava sempre – e devo dire che anche in seguito ho sempre avuto paura a ogni manifestazione a cui ho partecipato, e sono state davvero moltissime, fino a oggi. All’epoca, per vincere la paura, pensavo ai compagni che si battevano insieme a me, pensavo al fatto che più eravamo e più avevamo la possibilità di vincere, anche se, certo, le occasioni per essere spaventati c’erano eccome. Mi rincuorava il pensiero che quell’incarico me l’aveva dato mia madre o qualcuno che mi voleva bene e si fidava di me: questo mi dava forza e coraggio. Anche se erano ovviamente momenti molto difficili. Molti anni dopo me la sarei presa con Luciano Violante che quand’era presidente della Camera, nel 1996, affermò, a proposito dei partigiani e dei repubblichini che «i morti sono tutti uguali». «Giusto», gli dissi personalmente, dato che lo conosco bene, «ma io voglio sapere che cosa hanno fatto da vivi. Perché è vero che i morti sono tutti uguali, ma quando loro hanno scelto la Repubblica di Salò, io e tanti altri a Rimini abbiamo scelto un’altra cosa». E non era facile, da nessun punto di vista. Non c’erano solo i rischi legati all’attività partigiana. Facevamo la fame, ma la fame nera. Ricordo che andavo davanti a una caserma a raccogliere le bucce delle fave, dei piselli e delle patate che buttavano via quando preparavano il rancio e noi invece ci facevamo la minestra: e devo confessare che soprattutto quelle dei piselli erano davvero difficili da mandare giù. Ma a casa era comunque festa, perché c’era qualcosa da mangiare. È quello era niente rispetto ai rischi che correvamo ogni giorno.

Il 14 agosto 1944 dovevo raggiungere dei compagni che si trovavano in un comando nel centro di Rimini, la zona era quella che all’epoca era nota coma Barafonda, per consegnare loro alcune cose. I compagni erano quelli che sarebbero poi passati tragicamente alla storia come i tre martiri: Mario Capelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani – i primi due avevano poco più di vent’anni, Pagliarani solo 19 – che furono catturati, torturati e impiccati due giorni più tardi nella piazza principale della città. Mentre passavo con la mia bicicletta per via Cavalieri, lo stradone principale che mi avrebbe condotto all’edificio dove si trovavano i compagni, le donne che stavano sedute davanti alla porta di casa a fare l’uncinetto – era estate e avevano messo le sedie per strada per sfuggire alla calura delle case – saltarono in piedi e mi corsero incontro facendomi segno di andare via subito: «Torna indietro, torna indietro». Nessuno doveva sapere ciò che facevamo, ma quello era un quartiere popolare e la gente stava dalla nostra parte e, appena poteva, dava il suo contributo, così, spontaneamente. Appena tornata indietro ho saputo dal nostro comandante che avevano appena preso i nostri compagni: se quelle donne non mi avessero avvertito e un altro della mia squadra, che doveva essere lì anche lui, non fosse andato in missione, probabilmente quel giorno gli uccisi sarebbero stati cinque e non tre. Quelle donne mi avevano salvato, avevano partecipato all’azione anche solo avvertendomi che dovevo tornare indietro. Altre volte erano stati i frati di San Bernardino che ci avevano aperto le porte del loro convento quando stavamo scappando dai fascisti e dai tedeschi. In quegli anni io non ho trovato mai ostilità nelle persone, intorno alla Resistenza c’era la solidarietà e la compartecipazione di tante gente.

Certo, non tutti erano così. C’era anche chi se la faceva con i fascisti e i tedeschi. Come la persona che denunciò me e mia madre alla Gestapo; ed era qualcuno che conoscevamo bene. Una mattina nazisti e repubblichini arrivarono a casa – eravamo sfollati da Gemmano a Rimini – e arrestarono me, mio fratello, che aveva solo 14 anni e per altro non era stato coinvolto in nessuna azione partigiana, e mia madre. Ci dissero che alla stazione erano già pronti i vagoni piombati con cui ci avrebbero portato al campo di Fossoli di Carpi, e da lì in qualche lager tedesco. Ma, arrivati al ponte della ferrovia che separava la strada dai binari, cominciarono a cadere le bombe dal cielo; Rimini subì centinaia di bombardamenti sul finire della guerra. Nel fuggi fuggi che seguì scappammo tutti per cercare di metterci al riparo: i fascisti, i tedeschi e anche noi, insieme ad altre persone che erano state rastrellate quel giorno. Solo così, nel parapiglia generale, riuscimmo a metterci in salvo e a raggiungere un luogo sicuro. Ci rifugiammo sulle colline, a Onferno, una frazione di Gemmano, per nasconderci in quelle grotte che ora sono diventate patrimonio dell’umanità, ma che all’epoca per noi erano soltanto le cave da cui si estraeva il gesso con cui lavorava papà. E lì siamo rimasti per qualche tempo, protetti da altri partigiani, finché i nazisti non si sono ritirati verso nord e, qualche giorno dopo, sono arrivati gli alleati. Era il 21 settembre del 1944: il nostro 25 aprile.
Quando siamo usciti di nuovo alla luce del sole, in giro non c’era neppure un solo tedesco, e anche i fascisti sembravano spariti, anche se in realtà si erano solo rintanati in casa o nascosti da qualche parte. In quei giorni, girare per le strade di Rimini dava una sensazione entusiasmante. Eravamo liberi, per la prima volta da così tanti anni. A casa mia non avevamo creduto fino in fondo che tutto fosse finito già il 25 luglio, con la caduta di Mussolini: e infatti, avevamo avuto ragione. È invece ora era finita davvero. Stentavamo a crederci, ma eravamo felici. Ricordo come fosse oggi che la mia prima reazione fu un pianto di gioia. Era la prima volta che mi sentivo libera davvero. Ero nata che il fascismo c’era già. Ero abituata a vedere sul volto di mio padre i segni delle botte dei fascisti: noi liberi non eravamo mai stati. Sentivamo che potevamo finalmente fare qualunque cosa. A piazza Cavour, nel cuore di Rimini, abbiamo fatto una festa enorme, abbiamo ballato tutti insieme. Lì c’era il mercato e i banchi del pesce, e anche chi ci lavorava ha lasciato tutto per venire a ballare. Era pieno di gente, c’erano i partigiani ma anche tante persone comuni che finalmente ritrovavano il sorriso e la speranza.

Eravamo tutti felici, ma devo dire che a casa mia all’epoca non demmo troppa importanza a quanto avevamo fatto, alla nostra esperienza nella Resistenza. Non andammo nemmeno a iscriverci all’Anpi e a raccontare cosa avevamo vissuto, che infatti non compare in nessun libro di storia. Ci sembrava che non fosse accaduto niente di straordinario. Mia madre ci pensò su e poi disse: «Abbiamo fatto solo quello che era giusto fare, tutto qui». E non se ne parlò più. E anche in seguito, anche negli ambienti del Pci locale non si tornò più sugli avvenimenti di cui eravamo stati protagonisti tra Gemmano e Rimini. Forse perché per molti di noi, la Liberazione avrebbe rappresentato soltanto l’inizio di un percorso: io mi ero iscritta al Partito comunista il 4 maggio del 1944, quando era ancora clandestino, e quella scelta avrebbe accompagnato il resto della mia vita. Dopo la Liberazione fui eletta segretaria della sezione del Pci del centro di Rimini che si chiamava «Tre martiri» e che all’epoca contava più di 2 mila iscritti. Poi mi trasferii a Roma, ma la lotta non era finita. Ricordo ancora le mie mani ferite nello sforzo di staccare dalla strada i sampietrini a Porta San Paolo, per poterli usare per difenderci dalle cariche dei carabinieri a cavallo guidati da Raimondo D’Inzeo: era il 6 luglio del 1960 e manifestavamo contro il governo Tambroni e contro i neofascisti dell’Msi. In quell’occasione non fui arrestata perché, grazie al mio accento romagnolo, mi finsi una turista: eppure, se solo mi avessero guardato le mani avrebbero capito tutto. E questo è soltanto uno dei tanti episodi delle lotte di tutti questi anni che per me hanno rappresentato una prosecuzione di ciò che avevo fatto da ragazza con la mia bicicletta, lungo la Linea Gotica.

In ogni caso, oggi, quando si parla della lotta partigiana, spesso si pensa soltanto a chi combatté, e giustamente, con le armi in pugno contro fascisti e nazisti. Ma la Resistenza è stata qualcosa di molto più grande: ha coinvolto i cittadini, i lavoratori, gli operai e moltissime donne. Talvolta, quando si racconta di quelle vicende, sembra quasi che le donne abbiano dato un contributo minore, pressoché inesistente, ma non è affatto così. Se non ci fossero state le donne, temo che avremmo ancora i tedeschi in casa settant’anni dopo la guerra. Non è solo per il fatto di aver combattuto, perché molte donne hanno anche imbracciato i fucili – a me, che sono profondamente pacifista e sulla porta di casa tengo ancora oggi la bandiera della pace, all’epoca non capitò di farlo, ma non sono così sicura che non avrei usato un’arma, se me ne fosse capitata l’occasione. Comunque, in quei momenti, le donne hanno fatto di tutto: hanno nascosto i partigiani, li hanno vestiti, curati, protetti. Quando c’è stato lo sbandamento del 1943, hanno accolto tanti soldati che altrimenti sarebbero stati arrestati o uccisi dai tedeschi. Hanno fatto le staffette, organizzato la Resistenza nei quartieri, nelle città, casa per casa. E molto altro ancora; come le donne di Rimini che mi avvertirono che dovevo tornare indietro e con questo gesto mi salvarono la vita: chissà con quante altre persone l’hanno fatto, chissà quanta altra gente hanno salvato in questo modo. Perciò, in quel momento, ciascuno ha fatto la propria parte, chi in montagna, chi restando a casa, ma dando il proprio contribuito quando ce ne fu bisogno. Per quello che ho vissuto io, posso dire che la Resistenza è stata una guerra di popolo. Ed è ancora questa l’eredità più importante di ciò che accadde allora.

All’epoca si ragionava in termini di «noi», mentre oggi, e da diversi decenni ormai, sembra ci si sia rassegnati a pensare solo come un «io», ciascuno per proprio conto, chiuso nella sua dimensione individuale, come se insieme non si potesse più fare niente. Eppure, se in quegli anni avessimo ragionato così, non avremmo potuto fare nulla, non avremmo potuto cambiare in alcun modo il corso delle cose. «Io», da sola, non potevo fare niente, ma «noi», insieme, abbiamo fatto tanto e non credo sia superfluo ricordarlo a settant’anni dal 25 aprile. Personalmente credo di aver fatto anche tanti errori durante la mia vita, ma rifarei tutto quello che ho fatto, passo dopo passo. Forse, anzi, senza forse, compresi gli errori.

(a cura di Guido Caldiron)

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RICORDI DI UN ‘GAGNO’ DI ‘GIUSTIZIA E LIBERTÀ’

L’antifascismo di Massimo Ottolenghi, nato nel 1915, comincia in realtà ben prima della guerra. Dalla distribuzione dei volantini fatti pervenire a casa della nonna come involucri per il miele, passando per la diffusione della stampa proibita fra i professori universitari torinesi sul tram numero 1 di Torino, fino alla lotta partigiana vera e propria condotta nella Valle di Lanzo, un unico filo lega diverse avventure ed esperienze: il filo dell’impegno per la giustizia e la libertà. Raccontando qui quella esperienza, Ottolenghi considera la mancata epurazione incubatrice dell’evoluzione che ancora perdura.
di Massimo Ottolenghi, da MicroMega 3/2015 - "Ora e sempre Resistenza" - Almanacco di storia

Sono sempre stato un resistente, sin da quando ero tra i comunisti «dle braje cürte» del liceo D’Azeglio, come li definì il professor Augusto Monti. Ero compagno di scuola di Oreste Pajetta, che era mio amico caro, e anche di Emanuele Artom, mio vicino di banco. Quando ero al ginnasio ho visto diversi grandi: Leone Ginzburg, Franco Antonicelli, Vittorio Foa… Tutti personaggi che poi ritroverò e che saranno grandi figure della Resistenza. Va detto che già prima avevo avuto dei contatti con l’antifascismo perché ero nipote dell’avvocato Innocente Porrone, che era un socialista e che insieme ad Alberico Molinari aveva formato a Cavoretto il primo gruppo, il primo nucleo che anticipa quello che sarà poi il Cln, o se vogliamo l’ultimo gruppo rispetto al parlamento caduto con il colpo di Stato di Mussolini. Era un gruppo misto di socialisti e democristiani, tutti avvocati e magistrati. C’era un certo Negri, Zuffi di Bologna, pure magistrato, c’era l’avvocato Libuà, che rappresentava i democristiani, l’avvocato Rittà, l’avvocato Mario Passoni, che rappresentava i socialisti. Molti di loro furono arrestati. Facevano parte di questo gruppo anche Domenico Peretti Griva, il suocero di Alessandro Galante Garrone, che però non fu arrestato, Carlo Angela, il padre di Piero Angela, che non fu arrestato neanche lui, mentre dopo una spiata furono arrestati, processati ad Alba e spediti al confino Porrone, Passoni, Rittà, Libuà. Su di loro sto scrivendo un libro con un collega, un libro su questi avvocati al quale pensavamo di dare come titolo Le arnie della Giovane Italia, o anche Giustizia e Libertà tra le toghe.

È una storia curiosa. Molinari era un grande apicultore e un medico socialista che aveva lavorato nelle miniere canadesi, aveva creato i sindacati in Canada e negli Stati Uniti ed era poi rientrato in Italia proprio per organizzare un movimento insurrezionale o clandestino. S’era sistemato a Cavoretto dove aveva messo su delle arnie con delle api e aveva nascosto nelle arnie gli stampati e quello che serviva all’attività clandestina. Io all’epoca ero ragazzo. Nel ’29, l’anno del plebiscito, l’anno in cui i fascisti cercano di legittimarsi, avevo 14 anni e stavo a Cavoretto con mia nonna quando venivo a trovarla. Lì c’era la vigna di mio nonno, e ogni tanto arrivava del miele avvolto nei foglietti che venivano pubblicati e io vedevo che mia nonna li metteva da parte, questi involucri, e che mio padre poi li raccoglieva e li portava all’università. Era la propaganda contro il plebiscito, fatta proprio da Molinari. È curioso che si legge, dal comando carabinieri della prefettura, che era a Cavoretto quindi non a Torino e che quindi gli era scomodo fare il controllo… Ad ogni modo, io nel ’29 comincio a portare questi foglietti nei boschi e cominciamo a diffonderli. Li infilavamo anche nei cantieri aperti in città perché lì c’erano gli operai. Quindi in realtà io non ho aderito, mi sono trovato dentro…

Tornando agli anni del liceo, ricordo ancora di quando è arrivata l’indagine sul liceo D’Azeglio scatenata dal disegno che Giancarlo Pajetta aveva fatto nel numero speciale della rivista della scuola, in cui era rappresentato il girone dei tiranni dantesco e uno dei dannati aveva il volto di Mussolini e veniva inforcato dal diavolo nel posteriore. La vignetta scatenò un’inchiesta e le squadracce fasciste che stavano alla Caserma Cernaia fecero irruzione nel liceo, sconquassandolo. È l’anno in cui hanno poi arrestato Pajetta, Giancarlo, mentre Giuliano venne arrestato dopo. Poi c’era Oreste, che era il cugino dei due e che in quei giorni era venuto a dormire a casa nostra. Ad ogni modo, al ginnasio io non ero uno studente brillante, anche perché avevo dovuto fare le elementari da privatista perché ero stato malato e avevo avuto come insegnante la nonna di Massimo Mila, che era la Carena, una delle fondatrici dell’Avanti!. Poi ho avuto la mamma di Massimo Mila che mi ha dato lezioni in casa e sono andato alle elementari molto tardi. Non ero abituato a stare a scuola e non sopportavo la disciplina… Quindi sono arrivato al ginnasio, e mio padre voleva che facessi presto perché aveva paura di morir giovane, e che mi capitasse quello che era successo a lui che a 18 anni si era trovato capofamiglia con 5-6 fratelli minori.

Io frequentavo all’epoca la quarta ginnasio e la nostra classe venne praticamente sparpagliata. Venni bocciato in ginnastica, cioè in educazione fisica, che allora non era riparabile ad ottobre. Questo avvenne per due ragioni: la prima è che non mettevo la divisa, e la seconda è che non sopportavo che le lezioni di ginnastica si trasformassero in una pagliacciata a carico del povero Emanuele Artom, il quale non riusciva ad arrampicarsi perché non aveva le braccia sufficientemente muscolose e allora diventava sempre lo zimbello, una cosa disgustosa. E allora, bocciato in ginnastica, raccomandato negativamente da mio padre, che pensava che così avrei studiato durante l’estate, al professore di inglese, che era un suo allievo, mi sono preso la bocciata e rischiavo di perdere l’anno. Mio padre quindi mi disse: «Ma insomma, non devi perdere l’anno!», e mi mandò a Cuneo a prepararmi privatamente per dare la licenza dell’esame. Lì mi sono trovato con le mie cugine, di cui una era professoressa di latino e greco a Rossana, e un’altra professoressa di chimica. Di cognome facevano Segre, lo racconto nel libro Ribellarsi è giusto. È stato lì che ho conosciuto tutto il gruppo: Livio Bianco, Marcello Soleri, Duccio Galimberti eccetera. Andavamo in bicicletta con le mie cugine, loro erano compagne di università e io il «gagno» [«bambino» in piemontese], che correva dietro alle cugine fanciulle. Nel 1934-35, poi, quando ci sono stati gli arresti di Ginzburg e Levi e del gruppo torinese di Giustizia e libertà, ne rimasi fortemente scioccato, perché riguardavano persone a me vicine, che conoscevo e con le quali mi ero collegato e affiatato. Cioè, io non ero operativo ma conoscevo bene il gruppo degli operativi, e ad esempio l’arresto di mio zio, zio Segre, mi sconvolse quando ne ebbi notizia. Personalmente non ebbi noie da parte della polizia, ma va anche detto che sono sempre stato di una fortuna sfacciata, da questo punto di vista. Ad esempio, più tardi, durante la Resistenza vera e propria, riuscii in una sola giornata a scampare a quattro catture…

Venendo quindi alla Resistenza propriamente detta, vorrei innanzitutto chiarire qual è stato il percorso che, dagli anni dell’università, mi ha portato ad aderire alla lotta. Mi sono iscritto alla facoltà di legge non avendo alcuna intenzione di fare l’avvocato. In realtà avrei voluto fare architettura, ma poi sono andato lì per altre ragioni, direi per amore della filosofia e poi perché ero appassionato agli studi di diritto internazionale che erano quelli di mio padre. Ero interessato alla politica, insomma, e appena arrivato entrai nel gruppo degli allievi di Gioele Solari. Sono stato molto legato a Solari e anche a Marcello Soleri. Conservo ancora un libro regalatomi dal primo, i Discorsi politici di Kant. Solari mi assegnò da fare uno studio sul tema «La guerra nella politica di Kant e di Hegel», e in seguito un altro su Machiavelli. Con lui mi trovavo molto bene, ma la tesi la feci poi in diritto civile con Mario Allara, che sarebbe diventato il rettore dell’università. Ebbi anche una borsa di studio ma poi dovetti partire militare nella 52a fanteria a Spoleto.

Le vicende di quel periodo sono curiose. Appena fatta e depositata la tesi di laurea, quando dovevo solo andarla a discutere, con due amici decidemmo di andare a fare un viaggio all’estero, una volta tanto, perché allora uscire dall’Italia era un problema ed erano vietati tutti i permessi. L’unico paese in cui si poteva andare in quel momento era l’Austria. Siamo nel 1938. Anzi no, nel ’37, nell’estate del ’37, perché il ’38 fu l’anno che ho passato da militare a Spoleto e sono partito il 17 dicembre del 1937… Andammo su con l’automobile, una vecchia Ford. In quel momento Mussolini proteggeva l’Austria dalla Germania, e ricordo che al Brennero c’erano tutte le truppe italiane concentrate, mentre subito di là, oltre il confine, vicino a Klagenfurt, ci siamo finalmente trovati di fronte a un reparto di truppe austriache, i primi militari austriaci che vedevamo. Peccato che parlavano tutti napoletano, perché erano in realtà italiani con divise austriache che accolsero la nostra macchina a un passaggio a livello dove ci eravamo fermati gridandoci «Juventus, Torino!». A Vienna, dopo aver dormito lì la prima notte, trovammo appiccicati sulla nostra auto degli adesivi con la croce cattolica sopra e la falce e martello sotto. Era il partito cattolico comunista. Abbiamo pulito la macchina e la notte successiva ce l’hanno ricoperta di adesivi, stavolta con la croce uncinata. Bianchi, non rossi. Nello stesso giorno siamo stati coinvolti in una sparatoria e ci siamo riparati sotto degli scalini, sparavano da una parte e dall’altra e abbiamo visto bruciare dei negozi e una libreria ebraici. Lì ho cominciato a rendermi conto…

In quel viaggio ci sono stati infatti anche altri episodi. Volevamo andare al lago Balaton e abbiamo raccolto per strada una ragazza che è salita sulla nostra macchina. Allora all’estero si faceva l’autostop, da noi in Italia no. Questa ragazza, che era figlia di un professore di lettere, ci ha parlato in latino, visto che noi non sapevamo il tedesco. Uno degli amici che viaggiavano con me si chiamava Montalcini ed era come me figlio di un matrimonio misto: sua madre era protestante, valdese, tant’è che lui venne poi subito dichiarato ebreo perché la madre non era cattolica. Questo amico aveva la stella di David nel portachiavi della macchina e quando la ragazza la vide gli disse: «Per l’amor di Dio nascondetele perché qui vi succedono dei guai, e non andate in Ungheria perché sennò avete difficoltà a rientrare in Austria». E aggiunse: «Ma perché venite qui? Tornate in Italia il più presto possibile!». Decidemmo quindi di tornare in Italia, a Venezia.

All’epoca avevo già conosciuto mia moglie, eravamo ragazzi e anche lei era di famiglia ebraica, ma aveva vissuto in Francia e aveva fatto gli studi a Parigi, dove doveva dare ancora il baccalauréat. La incontrai a Venezia, dove lei era di passaggio, tornando da quel viaggio in Austria. Ero costernato e spaventato per tutto quello che avevo visto. Era il luglio del ’37. Arrivai con i miei amici e raccontammo tutto quello che avevamo visto. Dicevamo: «Cosa sta succedendo? Succederà anche in Italia?». Naturalmente ci hanno riso tutti dietro, dicendo che eravamo dei cretini, degli emotivi che si erano lasciati impressionare. Dicevano che Mussolini era amico degli ebrei e che in Italia non sarebbe successo niente. Erano degli ebrei a dire queste cose. Mio suocero era un ebreo casalese che aveva fatto fortuna a Parigi, dove aveva un’azienda, ed era un fascista.

L’anno 1938, quando io sono militare a Spoleto, è l’anno in cui succedono tutti i disastri: l’assassinio dei fratelli Rosselli, le leggi razziali… [l’uccisione dei fratelli Rosselli è in realtà del giugno del 1937]. L’assassinio dei Rosselli venne organizzato dal nostro colonnello, Paolo Angioy, che figurava come comandante della nostra scuola ufficiali ma era in realtà comandante del Sim, il Servizio informazioni militare [il servizio di intelligence militare d’epoca fascista, operativo fra il 1925 e il 1945]. Come generale avevamo invece Carboni, che fu poi nella Resistenza di Roma, e per maggiore avevamo Sammarzano di Torino, che aveva la moglie inglese ed era un uomo con tutti i requisiti. Questo per dire la situazione in quell’estate lì, in quel periodo lì. Noi eravamo l’unica scuola di ufficiali del corpo di armata di Roma. Quando Hitler è venuto a Roma siamo stati mandati anche noi nella capitale ed eravamo il reggimento che gli faceva da guardia. Io quindi li ho visti tutti da vicino: Goering, Goebbels, Hitler, e poi eravamo tutti sotto il Colosseo quando c’è stata la parata. Ed eravamo schierati sotto il Vaticano quando Hitler è passato in quella via laterale al Vaticano che è molto significativa… C’è un film che la rappresenta, quella strada, con tutte le bandiere con le croci uncinate a coprire le facciate da un lato mentre dall’altro lato, quello della Città del Vaticano, c’erano tutte le finestre chiuse. I tedeschi sono passati lì in mezzo… A Spoleto ho incontrato anche personaggi importanti, perché avevano fatto un concorso per titoli tra gli allievi ufficiali e io quando ero lì avevo già una laurea e stavo per prenderne un’altra in scienze politiche. All’epoca scienze politiche a Torino non c’era e quindi mi ero iscritto all’Istituto di Firenze, anche per aver delle licenze per Firenze.

Le leggi razziali vengono emanate quando io sono ancora militare, tant’è che un giorno, dopo che era stato appena raggiunto l’accordo fra Mussolini e Hitler, vengo chiamato in fureria e mi chiedono di che religione fossi. Io ho detto: «Non appartengo a nessuna religione, sono figlio di matrimonio misto e non ho confessione». Allora è successa una cosa piuttosto divertente, perché sia il sergente che lo scrivano non sapevano cosa fare e hanno scritto «ateo», anzi «adeo», parola che è stata poi riportata nei miei documenti militari venendo considerata un nome proprio, tant’è che io ho dei documenti in cui risulto «Massimo Ottolenghi Adeo». Ad ogni modo, io poi, sempre nel ’38, vengo a Torino come ufficiale addetto alla preparazione di piani PR10, che erano la sistemazione di magazzini e sussistenze del fronte francese. Mentre ero ufficiale, mi iscrivo presso un collega per la pratica da avvocato e faccio la domanda al sindacato fascista. Sempre con l’idea di non fare l’avvocato ma per permettere a mio padre di continuare a farlo, perché intanto erano uscite le leggi razziali. Queste arrivano ad agosto, io ero in divisa e vedo in giro per la città i manifesti col nome di mio padre, che era uno dei professori espulsi dall’università. Con tutte quelle ingiurie e le porcherie che avevano scritto, mi preoccupo di andarlo a prendere allo studio e accompagnarlo perché sotto quel manifesto c’era scritto: «Chiunque li aggredisca e li ammazzi è un benemerito della Patria», quindi era linciaggio, additato al linciaggio. E mi ricordo che mio padre aveva uno studio in via Vittorio Amedeo vicino alla Caserma Cernaia, al numero 15, quindi io ho cercato di portarlo verso piazza d’Armi, per venire a casa, noi stavamo in corso Sommeiller, e mio padre invece è voluto passare per via Cernaia. E tutti i pilastri delle case, o quasi, perlomeno tutti quelli dell’isolato di piazza Solferino, avevano il manifesto. Io ho cercato di portarlo dall’altro lato del marciapiede, ma lui è arrivato lì, si è fermato e l’ha letto. Poi mi si è rivolto e mi ha detto: «Come sono stupidi!». Dopo siamo venuti a piedi fino a casa.

Dunque, io ero nello studio Porrone a far pratica e ci sono rimasto finché Porrone non ebbe un ictus e dovette curarsi. Poi ci fu anche una bomba che colpì lo studio. Lì avevo conosciuto l’avvocato Parella, associato a Modesto Soleri, che aveva creato a Torino una sede per il suo studio basato a Cuneo. Così mi sono trovato con Soleri, Parella, Vinca, che intanto era già stato condannato al confino, coi liberali insomma. E lì la storia diventa lunga perché io sto con loro ma mi preoccupo soprattutto di creare in Valle di Lanzo, dove andavamo in villeggiatura, una rete di locali in affitto… La famiglia di mia moglie già aveva una villetta ad Ala di Stura, io poi ho affittato un grosso alloggio a Ceres, due stanze a Lanzo, perché sentivo l’aria che tirava e volevo avere delle possibilità di rifugio. E ho organizzato una rete, che era intanto anche di amicizie, con il professor Angela che aveva la clinica a San Maurizio, con il professor Musso che dirigeva l’ospedale di Ciriè.

Ad Ala di Stura nella casa di fronte alla nostra villetta avevo visto il colonnello Scognamiglio che comandava la legione dei carabinieri di Torino e avevo visto che andava a pranzare con un avvocato ebreo, Lombroso di Trieste. Per cui ho capito che era una persona affidabile. A un certo momento vedo che lui prepara le valigie per andarsene da Ala, allora l’ho avvicinato e gli ho detto: «Lei se ne va e io purtroppo rimango. I carabinieri qui della zona come sono?». Lui mi rispose: «Guardi, il maresciallo dei carabinieri di Ceres faceva il panettiere ed è stato richiamato, è una brava persona, con bambini». Il che per me è stato uno spiraglio perché io a un certo momento, quando ho avuto notizie che stavano per arrestarmi, ho mandato via la famiglia e ho aspettato i carabinieri: son venuti di notte in bicicletta, perché ci sono 8 km. È venuto un brigadiere e io gli ho detto: «Guardi che io sono ufficiale, sono badogliano. Lei è venuto fin qui, ma le do la mia parola d’onore di ufficiale che io a mezzanotte vengo alla caserma di Ceres a presentarmi. Se il maresciallo mi arresta, cosa ho fatto?». Sono quindi andato alla caserma di Ceres e ho parlato con questo maresciallo. Nel frattempo avevo già preso contatti con Rigola, che era il comandante del primo gruppetto di partigiani in formazione e con lui avevo già avuto a Balme un incontro durante il quale c’era stato un confronto sulla situazione e gli avevo detto: «Senta, non toccate i carabinieri, perché rappresentano la legge e la popolazione la prenderebbe male…». Avevo quindi una mezza intesa con Rigola, per cui al maresciallo dissi: «Senta maresciallo, lei può arrestarmi subito, ma faccia attenzione a quello che fa: voi siete tre, a disarmarvi qualcuno vi disarma, non io ma qualcun altro… Io invece le propongo un’intesa: lei sarà avvisato quando ci sarà qualche situazione difficile, in modo che giri da un’altra parte, però mi deve far avere notizie di tutte le catture che deve fare…». E così abbiamo fatto un accordo che ha funzionato. Lui mandava a mia madre, che stava in un alloggio immediatamente dietro la casermetta, un foglietto; mia madre lo riceveva tramite la donna di servizio e lo faceva poi avere al vicario. Il vicario mandava quindi le suore ad avvisare gli ebrei o le persone che dovevano essere arrestate: «Domani alle 14 sarete arrestati, quindi…». Allora questi si allontanavano e il maresciallo faceva il verbale: «Partiti per Ancona», e trasmetteva a Torino. Si cambiava una famiglia di ebrei da un paese all’altro e a un certo punto siamo arrivati che la situazione era totalmente tranquilla, tant’è che io ho avvisato parenti e familiari a Milano e nella zona siamo arrivati ad essere circa 150 ebrei. Pensi che solo a Martassina, che è una frazione con 50 abitanti, c’erano 60 ebrei. A Coassolo c’era un segretario popolare: io andavo dal sarto, che si chiamava Casassa e stava dietro la piazzetta sotto di Lanzo, gli portavo le foto, lui le dava al nipote, preparava la carta e le registrava regolarmente. Tornavo poi là, lui mi misurava delle giacche e intanto mi dava tutti i documenti nuovi e io li portavo su a Ceres. Documenti falsi… Ad Ala di Stura, poi, abbiamo addirittura fatto un accordo con un legionario fiumano, un conserviero che aveva l’agente in Spagna, in modo che diventasse commissario del prefetto col nostro consenso, in modo da fare il doppio gioco. Il sindaco del posto aveva infatti dato le dimissioni, era scappato, e bisognava nominare qualcuno al suo posto, per cui tra gli sfollati si è riusciti a far passare questo personaggio, che è stato un gran personaggio…

Insomma, anche se mi sono trovato pure coinvolto in azioni militari, non mi qualifico come combattente. Svolgevo più che altro un ruolo politico, logistico eccetera. Anche perché questo succedeva lassù, ma intanto io continuavo a venire a Torino.
A Torino in realtà avevo fatto l’antifascista già da ragazzino. Questo riguarda un periodo precedente quello della Resistenza, ma vale la pena raccontarlo. Dunque, erano stati proibiti dal regime tutti i giornali stranieri, compreso L’Osservatore Romano, ma per evitare che si dicesse che in Italia erano vietati, a Porta Nuova l’edicola centrale aveva esposti questi quotidiani in numero limitatissimo. Allora io in un certo periodo andavo a Porta Nuova, ritiravo un Osservatore Romano e una Revue des Jeunes e le portavo a casa. Prendevo il tram numero 1, su cui adesso stanno preparando un film, che era quello che faceva la circolare e collegava tutte le università. Quindi su quella linea, fra le 8 e un quarto e le 8 e mezza del mattino si incontravano 5 o 6 professori universitari: in corso Umberto saliva Einaudi, poi saliva Levi, il papà di Natalia, salivano mio padre, Leone Ginzburg, che stava in corso Sommeiller, Fano, Piperno, De Benedetti e andavano al Politecnico. Insomma, in pratica c’era il senato accademico. Quindi mio padre prendeva le copie dell’Osservatore Romano e della Revue des Jeunes e le portava all’università, le passava a qualche collega su nella «Stampa» e alla sera le riprendeva e io le riportavo a Porta Nuova, pagando l’affitto della copia.

Tornando ora al ’43-45, a Torino io nello studio di Parella non risultavo. Scendevo alla stazione in corso Giulio Cesare e poi andavo a piedi fino a via Corte d’Appello, dove posavo il mio sacco da montagna o quello che avevo nello studio di Parella, che era diventato un po’ la mia base. Lì avevo il mio angolo, il tavolo, un pezzo di sapone, un rasoio, una coperta… Ci ho anche dormito. E lì ho conosciuto tutto il Partito liberale… Lì erano stati organizzati dei gruppi di ufficiali in congedo, pensando alla Resistenza in appoggio alle caserme. L’8 settembre, però, ci siamo trovati invece con le caserme allo sfascio e i nostri gruppi sono stati impossibilitati a fare alcunché, e per di più alcune liste coi nostri nomi sono arrivate ai distretti militari. Nei distretti erano stati infatti richiamati dei fascisti, dei federali eccetera. Badoglio si era preoccupato che non facessero loro del male, quindi li aveva richiamati nell’esercito mettendoli però nei distretti per non inquinare ancora di più l’esercito. Quindi, quando le nostre liste sono andate a finire nei distretti, questi qui le hanno consegnate ai tedeschi…
È difficile spiegare quello che ho fatto nella Resistenza: ho ram-mendato tanti pezzi, legato delle persone, legato dei gruppi… Ho organizzato nelle valli di Lanzo dei gruppi molto disparati che si formavano. C’erano infatti gruppi di militari, ad esempio quelli della IV Armata che si disperdono e non possono fare ritorno nell’Italia meridionale, ma c’erano anche gruppi di teppisti scappati dalle Nuove [carceri di Torino] durante i bombardamenti, gruppi di operai delle varie fabbriche e nuclei comunisti, gruppi di studenti universitari che non volevano aderire al Pci e che magari erano cattolici, come quelli che si erano riuniti intorno all’industriale democristiano di Ciriè che in epoca clandestina si chiamava Ilio, Ilio Pistoi. Insomma, era tutta una costellazione di gruppi che erano anche in contrasto fra di loro, e contrasti mica da poco… Io cercavo di muovermi, di calmare le acque e realizzare una Resistenza che fosse compatta. Ho fatto le cose più strane. Collegavo persone, gruppi, cercavo di fare il pacificatore. Ho cercato di organizzare i tribunali, un servizio giuridico, perché a un certo punto c’era il caos totale, c’erano bande… Arrivavano bande composte da prigionieri di guerra liberati nel periodo dei 45 giorni e lì c’erano russi, ucraini, mongoli, inglesi, australiani… È una costellazione… In bassa valle, ad esempio, Primo Levi, Franco Momigliano e l’architetto Gentile Salmoni, ebreo anche lui, avevano cercato di formare un nucleo ebraico che non erano riusciti a formare e che si è trasferito poi nella Val Pellice, con tutto quello che poi ne segue… E nello stesso tempo un nucleo ebraico si è formato in Alta Val di Lanzo. A un certo momento nelle Valli di Lanzo una certa zona alta era quasi diventata un territorio autonomo, quasi una Repubblica partigiana, tanto che ci si era preoccupati di pagare le imposte, gli stipendi ai maestri nelle scuole, agli impiegati comunali eccetera. Abbiamo anche emesso dei francobolli con la dicitura «Cln». Erano in realtà francobolli monarchici con la sovrastampa della Repubblica di Salò e la sovrastampa del Cln. Li avevamo distribuiti negli uffici postali di Ceres, di Ala, e ne sono partiti alcuni. Naturalmente è scoppiata un’inchiesta perché li mandavamo a dei gerarchi per farli incazzare, mettendo come mittente «Benedetto Cerutti, Verona». A Torino, negli ambienti popolari, «Cerutti» era il nome di Mussolini. Gli operai quando parlavano di Mussolini lo chiamavano «Cerutti», «quel maiale di Cerutti». A Verona la polizia ferroviaria si mise quindi a cercare da tutte le parti questo Benedetto Cerutti, e ci sono ancora i verbali in cui c’è scritto: «Non si trova, non è noto dove sia questo Benedetto Cerutti». Alla fine della guerra il materiale che c’era l’ha ritirato Giorgio Agosti, lo si è consegnato agli americani ed è stato bruciato… Anche lì, una storia…
Ero collegato anche con Giulio Bolaffi, di cui ero un amico fraterno. La formazione di Bolaffi è nata in Val di Lanzo, ad Ala. Era una formazione che diventò poi del Partito d’Azione grazie a me. Bolaffi aveva affittato insieme ad Artom di Milano una villa a Mondrone. Tra gli uomini di Artom e quelli di Bolaffi erano in 13-14 e sono io che li ho avvisati che andavano ad arrestarli. Ho avvisato il loro autista e allora si sono spostati nella casa di fronte, che era l’albergo Regina, assistendo alla perquisizione che i carabinieri facevano nella casa che avevano appena abbandonato. Andati via i carabinieri decisero di spostarsi da Mondrone. Bolaffi a un certo momento si creò una specie di guardia personale, un gruppo composto da 6-7 uomini con autista, cameriere eccetera. La sua è stata una guerra personale, per difendersi, perché tra l’altro volevano portargli via i figli, sapevano che lì c’erano soldi… Alla fine si spostò in Val di Susa e diventò il comandante «Boni», arrivando a comandare una formazione di 700 uomini e facendo ben 150 prigionieri tedeschi, mica uno scherzo… Disobbedendo in parte agli ordini del generale Trabucchi, portò i suoi uomini a tutelare la centrale del Moncenisio e il confine, mettendo la bandiera italiana sul confine. Quando sono arrivati i francesi hanno trovato lui, che li ha ricevuti a Bardonecchia invitandoli a pranzo, facendogli un mucchio di cerimonie. Naturalmente tutto questo ha ritardato la discesa della sua formazione su Torino e io ero presente quando lui si è incontrato con il generale Trabucchi, che gli disse: «Lei è la persona più indisciplinata di tutte le formazioni. Finalmente le posso parlare, ma lei…». E Bolaffi gli rispose: «Ma io ho fatto la guerra per interesse». Non accettava la disciplina di nessuno, ha fatto una guerra personale. Tendenzialmente e sostanzialmente era ancora un monarchico romano e non voleva sottomettersi a nessuno né collegarsi con nessuno. Era più vecchio di me ma ero io che dovevo impazzire a spiegargli che tutto questo era folle, perché solo in un coordinamento generale lui poteva fare qualche cosa. Si è poi convinto ma ha sempre continuato a litigare con tutti, anche con Duccio Galimberti, con il maggiore Valle, e anche qui ci sarebbero tante storie strane…

Questa è la mia esperienza. In conclusione vorrei però fare qualche considerazione generale sull’eredità della Resistenza. Pensavo proprio in questi giorni, leggendo anche i libri di Pansa, che la Resistenza è riuscita come guerra di liberazione ma è fallita come guerra sociale. Gli italiani sono rimasti quelli che erano, se non peggiorati. È mancata l’epurazione, è mancato l’esame di coscienza. Noi non eravamo tra le nazioni vincitrici della guerra, questo è chiaro. Ma sotto certi aspetti non eravamo purtroppo neanche tra i vinti e non abbiamo avuto nessuno che ci abbia imposto l’esame di coscienza. Gli ultimi anni, mesi, giorni, settimane, era tutto un mercato. La caserma di Asti era un suq, da luogo delle torture era diventato un mercato. Ne sto scrivendo in questi giorni. Le contiguità tra Resistenza e feccia fascista c’erano. In una stessa famiglia c’era magari un fratello fascista e uno partigiano… Nell’ultimo periodo, negli ultimi sei mesi prima della Liberazione, le polizie fasciste erano tutte per conto proprio ed erano spesso in mano ad avventurieri… Il principe Borghese, i marò… Ciascuno operava in proprio senza informare l’altro e, se da un lato questa era la nostra fortuna, comportava anche che tutti negoziavano, tutti volevano assicurarsi l’«ebreo tascabile», questo io lo scrivo nel mio libro. Gli ebrei in Italia erano solo 30 mila e 7 mila sono stati ammazzati, ma a prestar fede a tutti i fascisti che dicevano di a-verne salvati alcuni avrebbero dovuto essere 150 mila… Disgraziatamente, però, non c’erano solo fascisti che cercavano di passare da questa parte o di avere dei certificati, c’erano anche fra i nostri alcuni disgraziati rastrellati che chiedevano di passare di là per salvarsi. Io stesso una volta, mentre stavo andando a piedi ad Ala, incontrai la truppa dei marò che veniva giù con due dei miei giovani che erano stati catturati e che sarebbero stati incarcerati e fucilati. Ricordo che erano proprio gli ultimi mesi. Uno riuscii ad avvicinarlo e mi disse: «Mi hanno detto che se mi arruolo con loro mi salvo», e io gli risposi: «Arruolati e appena hai un fucile scappa». Ecco, insomma, c’erano dei disgraziati che chiedevano di passare di là per salvarsi, gente di là che chiedeva di passare di qua o tentava di passare di qua scappando con le armi e venendo ad arruolarsi nelle formazioni…
La Resistenza ha dato un grande risultato, la Carta costituzionale. Questo è stato l’unico vero risultato, quello di aver raccolto intorno a quel documento uomini eccezionali in una convergenza eccezionale per stabilire dei princìpi fondamentali. E questa è stata la vera conquista della Resistenza. Quanto a tutto il resto, la Resistenza non ha conquistato niente, purtroppo. E, mi spiace dirlo, ma ho l’impressione che anche quella Carta stia camolando. Non è mai stata tradotta in pratica e viene tradita prima ancora di essere tradotta in pratica. Tradita di nuovo da quello spirito che rovina gli italiani che è l’embrassons nous. Gli italiani non sopportano la libertà. La libertà comporta responsabilità, e rendere ciascuno responsabile, chiedergli di essere responsabile, significa dirgli: «Tu hai dei diritti, ma hai anche dei doveri». E gli italiani, l’ho visto nella mia pratica di avvocato e anche in quella di magistrato, gli italiani vengono a dirti: «Io ho diritto a questo, questo e questo», ma quando gli dici «Sì, però lei deve…», allora dicono: «Eh…».

(a cura di Angelo d’Orsi)

(25 aprile 2017)

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