12 luglio 2025

12 luglio 1944: la strage di Fossoli

Il 12 luglio 1944, presso il poligono di Cibeno, frazione posta a circa 3 km. di distanza da Carpi, le SS fucilarono 67 prigionieri politici del campo di transito di Fossoli, situato a poca distanza da lì.

Nonostante le autorità tedesche avessero cercato di presentare l'evento come un atto di rappresaglia per l'uccisione di sette soldati tedeschi avvenuta a Genova il 25 giungo precedente, la distanza sia geografica che temporale della strage rispetto alla data e dal luogo dell'evento rende del tutto improbabile tale lettura autoassolutoria. 

Condotti sul posto in tre gruppi, gli uomini selezionati, di età compresa tra i 16 e i 64 anni, furono fucilati sull’orlo di una fossa scavata il giorno prima da internati ebrei. Le SS si curarono di scegliere 70 condannati, per rendere più verosimile la tesi della rappresaglia, eliminando dalla lista uno dei selezionati, Bernardo Carenini; un altro prigioniero, il partigiano Teresio Olivelli, riuscì a nascondersi tra le baracche delle attrezzature, ove rimase per diverse settimane, assistito segretamente da altri prigionieri. Mario Fasoli ed Eugenio Jemina, appartenenti al secondo gruppo, riuscirono a fuggire dopo aver aggredito una delle SS, salvandosi e unendosi successivamente alle formazioni partigiane della zona.

La strage di Fossoli fu la più grave strage commessa dalle SS in un campo di concentramento su suolo italiano.

https://www.fondazionefossoli.org/centro-studi/i-nomi-di-fossoli/le-vittime-della-strage-di-cibeno/?fbclid=IwY2xjawLfVPZleHRuA2FlbQIxMQABHuaus053Jh3DV0dnsr-WVFEXTcbxaa6HOnNAjv1kYkQC1ha2DhTClRCnzahc_aem_4i71sze_afZvre7swPYsrA

08 luglio 2025

8 luglio 1978: Sandro Pertini è eletto Presidente della Repubblica

L'8 luglio del 1978, dopo nove giorni di votazioni in cui i principali partiti dell'arco costituzionale avevano proposto delle candidature di bandiera, i voti dei parlamentari convergettero sulla figura di Sandro Pertini, proposto dal segretario del PSI Bettino Craxi dietro proposta dell'opinione pubblica. Eletto al XVI scrutinio con 832 voti su 995, pari all'82,3% del totale, Pertini ottenne la più ampia maggioranza mai espressa nella storia repubblicana. Era la seconda volta, dopo Giuseppe Saragat, che un partigiano veniva eletto alla più alta carica dello Stato.

Nel corso del suo mandato, Pertini si trovò ad affrontare gli ultimi e più violenti anni della stagione dello stragismo e dell'eversione nera, culminati il 2 agosto 1980 con la strage della stazione di Bologna, così come altri avvenimenti tragici particolarmente vivi nella coscienza civile del nostro Paese: la strage di Ustica, il terremoto dell'Irpinia, la strage del Rapido 904.

Per tutti gli anni del proprio mandato Pertini non mancò mai di tener fede agli ideali dell'antifascismo che lo avevano animato durante il ventennio prima e con la Resistenza poi, guadagnandosi la stima, l'affetto e il ricordo dell'Italia antifascista. 

𝐿𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑡𝑎̀ 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑙𝑎 𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑖𝑧𝑖𝑎 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑞𝑢𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑓𝑟𝑎𝑔𝑖𝑙𝑒, 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑡𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑚𝑒.

Tina Costa - Una Vita Ribelle e Partigiana - presentazione progetto per la realizzazione di un documentario e di un fumetto per i 100 anni dalla nascita - 16 luglio alle 19 agli Orti Urbani di Garbatella



16 luglio alle 19 agli Orti Urbani di Garbatella per parlare di Tina, una donna Ribelle e Partigiana e della sua vita di lotta per i diritti, per la pace, per un mondo più giusto e più umano.

Tina Costa - Una Vita Ribelle e Partigiana - presentazione progetto per la realizzazione di un documentario e di un fumetto per i 100 anni dalla nascita.
16 luglio 2025 ore 19:00 Orti Urbani di Garbatella - Via Rosa Raimondi Garibaldi, 14

Comitato provinciale ANPI Roma con le sezioni ANPI Renato Biagetti , ANPI Garbatella Ostiense San Paolo, ANPI Martiri delle Fosse Ardeatine, ANPI Trullo-Magliana Franco Bartolini

Tina Costa - Una vita ribelle e Partigiana

Tina Costa una vita ribelle e partigiana - il progetto su facebook

il sito per la raccolta fondi

07 luglio 2025

7 luglio 1960: la strage di Reggio Emilia



Nelle tumultuose giornate del luglio 1960 che seguirono alla straordinaria manifestazione antifascista di Genova del 30 giugno, esplose in tutta Italia la vigorosa protesta dell'Italia antifascista contro l'appoggio del Movimento Sociale Italiano al governo monocolore di Fernando Tambroni, il quale reagì con durezza ingiungendo alla forza pubblica di aprire il fuoco in "situazioni di emergenza". Il 5 luglio, a Licata, un bracciante fu ucciso dal fuoco della celere, mentre il giorno successivo, a Roma, un corteo guidato dall'ANPI e dalle associazioni della Resistenza fu caricato da un reparto di carabinieri a cavallo nel tentativo di raggiungere Porta San Paolo.

Quello stesso giorno, la Camera del Lavoro di Reggio Emilia indisse, dalle ore 12 alle ore 14 del giorno successivo, uno sciopero generale provinciale di protesta per i fatti di Licata e Roma, in concomitanza del quale si sarebbe dovuto tenere un comizio presso la Sala Verdi, nel centro della città. L'indomani, un nutrito corteo di protesta composto da più di 20.000 persone attraversò le strade del capoluogo, mentre un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane si radunò attorno al monumento ai caduti, in Piazza Cavour, intonando alcuni canti della Resistenza.

Nel pomeriggio, il pacifico presidio fu investito dalle violente cariche di polizia e carabinieri, a cui i manifestanti cercarono di scampare rifugiandosi dietro i tavolini e le sedie dei caffé della piazza: seguì un lancio di oggetti, cui le forze dell'ordine reagirono con inaudita violenza sparando ad altezza uomo. Al termine delle cariche, cinque furono le vittime tra i manifestanti:

Lauro Farioli, operaio di 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino;
Ovidio Franchi, operaio di 19 anni, il più giovane tra i caduti;
Marino Serri, operaio di 41 anni, già partigiano della 76ª SAP, sposato e padre di due bambini;
Afro Tondelli, operaio di 26 anni, già partigiano della 76ª SAP, quinto di otto fratelli;
Emilio Reverberi, operaio di 39 anni, già partigiano nella 144ª Brigata Garibaldi con il grado di commissario politico del distaccamento "Amendola", sposato, padre di due figli.

𝑆𝑎𝑛𝑔𝑢𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑠𝑎𝑛𝑔𝑢𝑒, 𝑛𝑒𝑟𝑣𝑖 𝑑𝑒𝑖 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖 𝑛𝑒𝑟𝑣𝑖.

#antifascismo #costituzione #morti direggioemilia #luglio 1960 

Comunicato dell'ANPI provinciale di Roma sulla delibera del comune di Tivoli per la titolazione di una via a Sergio Ramelli




Sono ormai anni, da quando qualcuno a "sinistra" decise di sdoganare i neo fascisti riconoscendo anche le ragioni dei "ragazzi si Salò", che coloro che si richiamano a quell'esperienza antipatriottica (di fatto divisero illegittimamente in due il Paese per formare uno stato fantoccio governato da una potenza straniera e collaborarono attivamente alla repressione dei patrioti che volevano liberarlo dal giogo dell'occupazione nazifascista) tentano di riscrivere la Storia per vittimizzarsi e demonizzare la Resistenza e l'esperienza della Repubblica democratica nata da questa e la sua Costituzione. Non interessa se si usino fatti totalmente inventati o si esagerino e distorcano fatti realmente accaduti o si usino fatti drammatici come quello di Ramelli, per legittimare tutta l'esperienza fascista, post fascista e futur fascista, che va dai primi vagiti degli anni venti fino alle future gesta da compiere, stendono un velo che tutto appiattisce e cela.

Così, ad esempio, anche a Tivoli, dove una targa posta dall'amministrazione comunale a memoria di Giacomo Matteotti dimentica di indicare che gli autori del suo assassinio furono sicari fascistissimi su mandato del criminale Benito Mussolini. E ancora, sempre nella medesima città, con l'appoggio di una componente autodefinitasi "socialista" viene approvata una delibera per la titolazione di una via a Ramelli, giovane fascista ferocemente ucciso negli anni '70. 

Ora, non si vuole negare il diritto di ricordare tutte le vittime di stagioni buie del passato, ma se lo si fa strumentalmente per vittimizzarsi e parificare tutte le esperienze politiche del '900, l'ANPI non può che opporsi: Matteotti, e con lui milioni di persone, morirono per la feroce criminosa ideologia fascista, in quanto oppositori politici o in quanto popolazioni che ebbero la ventura di essere nelle mire conquistatrici e razziste di tali ideologie, o anche vittime in patria della guerra scatenata e perduta. O ancora, vittime delle stragi fasciste del dopoguerra, da Portella della Ginestra, alla Stazione di Bologna, solo per citarne un paio. Tivoli e tutte le città d'Italia e d'Europa non avrebbero sufficienti vie, corsi, larghi e piazze da intitolare a tutte queste vittime.

Il comitato provinciale dell'ANPI di Roma, anche per la sezione di Tivoli, auspica che tutte le forze politiche e sociali del territorio di Tivoli sappiano unirsi per ottenere il ritiro della delibera.

06 luglio 2025

6 luglio 1960: l'antifascismo in piazza contro i fascisti e il governo Tambroni













 

Il 6 luglio 1960 a Roma, come in quei giorni in tutta Italia, le donne e gli uomini della Resistenza, attraverso una mobilitazione unitaria, chiamarono a raccolta le forze politiche e sindacali del paese per difendere le conquiste nate dalla lotta alla tirannia nazifascista, con una mobilitazione  che costrinse alle dimissioni il governo Tambroni tenuto in piedi dai voti del MSI, ovvero di chi proclamava l'eredità del fascismo a 15 anni dalla Liberazione.  La scintilla delle proteste fu la provocazione fascista che avrebbe voluto radunarsi a congresso a Genova, città Medaglia d’Oro per la Guerra di Liberazione. A sessant'anni da quella mobilitazione ricordiamo in tutta Italia e rivendichiamo quell'unità antifascista.  Quell'unità antifascista, oggi come ieri rappresenta il baluardo posto a difesa della Repubblica, della Costituzione e della sua attuazione. Come nella Resistenza uomini e donne di diverso orientamento politico e culturale si unirono contro i nazifascisti per riscattare il paese e la dignità del popolo italiano, oggi l’Italia democratica e antifascista ricorda quelle giornate come momento cruciale di sviluppo della Repubblica nata dall'antifascismo e dalla Resistenza. L'antifascismo è ancora valore portante e cemento della nostra convivenza civile ed oggi come allora non solo movimento morale ma teoria dello Stato improntato ai principi fondamentali della Costituzione di libertà, di uguaglianza, di democrazia e di giustizia sociale



6 luglio ’60 a Roma: io c’ero

Marisa Cinciari Rodano

La resistibile ascesa del governo Tambroni, il voto determinante del Msi, la manifestazione a Porta San Paolo, gli incidenti, Genova e Reggio Emilia, Palermo e Catania, ed infine la caduta del presidente del Consiglio. Una vicenda da non dimenticare

Schierati in un gruppo compatto, fianco a fianco, tenendosi sottobraccio, ben stretti, avanzavamo come una falange macedone: eravamo i parlamentari di sinistra, seguiti da un corteo di cittadini, che era abituale, allora, definire “democratici”. “Democratici di passaggio” spesso ironizzavamo tra noi. Quei cittadini infatti non erano certamente “di passaggio”, non vi si trovavano casualmente: erano convenuti grazie a una mobilitazione: compagni del Pci, militanti socialisti, iscritti all’Anpi, antifascisti romani erano accorsi in gran numero. In testa al corteo veniva recata una corona d’alloro rotonda con il nastro tricolore da deporre sulla lapide di Porta S. Paolo che ricordava i soldati e i civili italiani caduti nella resistenza alle truppe naziste dirette a occupare la capitale l’8 settembre 1943. Eravamo a piazza Albania. La decisione di andare in corteo a portare la corona alla lapide di Porta S. Paolo, malgrado la manifestazione contro il governo Tambroni, in precedenza autorizzata, fosse stata vietata dal Prefetto di Roma solo mezz’ora prima dell’appuntamento – un’autentica e voluta provocazione! – era stata adottata durante una concitata riunione improvvisata, convocata da Paolo Bufalini, allora segretario della Federazione romana del Pci, non ricordo bene dove, forse nella sede della sezione del Pci di S. Saba. Si era deciso, per “forzare il blocco” – l’idea era stata proprio di Bufalini –, di mettere tutti i parlamentari in testa al corteo.

Era il 6 luglio 1960. Ci si trovava in un momento climaterico, di acuta tensione politica. Come vi si era giunti? In febbraio il Partito liberale, diretto da Giovanni Malagodi, aveva tolto l’appoggio al governo di Antonio Segni, che, di conseguenza, si era dimesso. Si era aperta una crisi lunghissima e ricca di mutamenti di fronte: prima un “incarico esplorativo” al presidente della Camera Giovanni Leone, poi, dopo la rinuncia di Leone e il rifiuto di Attilio Piccioni, l’incarico era stato nuovamente affidato a Segni, il quale, vista l’impossibilità, per l’opposizione di una parte della Dc, di formare un governo che si reggesse sull’astensione dei socialisti, aveva rinunciato. Il 26 marzo Gronchi aveva affidato abbastanza inopinatamente l’incarico a un fanfaniano suo amico, Fernando Tambroni. Il Ministero presieduto da Tambroni aveva ottenuto in aprile la fiducia della Camera col voto determinante del Msi.

Tre ministri democristiani (Bo, Pastore e Sullo) e tre sottosegretari (Antonio Pecoraro, Nullo Biagi e Lorenzo Spallino) avevano immediatamente abbandonato il governo. La Direzione Dc aveva dovuto chiedere al Gabinetto Tambroni di dimettersi. Dopo un incarico a Fanfani perché tentasse di comporre un governo tripartito con l’appoggio del Psi, tentativo abortito ancora una volta per l’opposizione interna Dc, Gronchi aveva respinto le dimissioni di Tambroni, che a fine aprile aveva ottenuto anche la fiducia del Senato, sempre con i voti determinanti di monarchici e missini. La Dc aveva votato la fiducia “fino al 31 ottobre”, una fiducia “tecnica” per garantire l’approvazione del bilancio.

Situazione torbida, dunque, confusa e di tensione. Ma il casus belli era sorto con la decisione del Movimento sociale italiano di tenere il proprio Congresso nazionale a Genova. Ai cittadini del capoluogo ligure l’idea che si potessero riunire a congresso i neofascisti di Giorgio Almirante nella loro città, Medaglia d’oro della Resistenza, era parsa una intollerabile provocazione. Ed era chiaro che i missini se lo potevano permettere solo perché coperti dal governo, ben deciso a proteggerli perché determinanti della sua maggioranza.

Quasi spontaneamente erano cominciate fermate del lavoro nel porto e nelle fabbriche, poi erano scesi in corteo i docenti universitari; la protesta era estesa e capillare: si narrava che persino nei pitali dentro ai comodini delle camere da letto negli alberghi prenotati per il Congresso fosse stato scritto “via i fascisti da Genova”. E soprattutto erano scesi in piazza migliaia e migliaia di ragazzi giovanissimi, alla loro prima manifestazione: una nuova generazione in campo, che, dall’abbigliamento caratteristico, venne definita “la generazione delle magliette a strisce”. La repressione da parte della polizia era stata dura, scontri, feriti, arresti. Il 28 giugno Sandro Pertini aveva parlato in una grande manifestazione organizzata da Pci, Psi, Psdi, Pri, radicali e dalle associazioni partigiane. Il 30 giugno un grande corteo antifascista era stato violentemente bloccato dalla polizia: 38 i feriti.

A Genova si reagì proclamando lo sciopero generale, mentre la protesta si estendeva ad altre città italiane. In questo contesto si collocava la manifestazione indetta a Roma.

Così ci muovemmo, preceduti dalla corona, lungo viale Aventino. Fatti pochi passi, prima ancora di raggiungere Porta S. Paolo, cominciò il finimondo: la cavalleria, guidata da Raimondo d’Inzeo, caricò la testa del corteo, su cui si rovesciava il getto di acqua colorata degli idranti, e intervenivano le camionette della celere. La folla si disperse per i giardinetti dietro l’ufficio postale Ostiense, per le scale che salivano tra le case verso S. Saba e per le vie del vicino quartiere Testaccio. Si scatenò una vera e propria guerriglia urbana: i manifestanti si difendevano dalle cariche gettando sulla polizia tutti gli oggetti che riuscivano a trovare. Franco Rodano, Ugo Bartesaghi ed io non so come ci ritrovammo illesi e asciutti in mezzo alla confusione. Pietro Ingrao però, e un parlamentare socialista di Bologna, l’on. Gian Guido Borghese, vennero feriti dalle manganellate e furono subito portati alla Camera: entrarono sanguinanti in aula, dove avvenne un vero putiferio.

Quella decisione di portare la corona a Porta S. Paolo avrebbe avuto conseguenze di non poco conto: gli eventi di Roma – l’attacco ai parlamentari che guidavano il corteo, il ferimento di alcuni di loro – scatenarono scioperi generali e manifestazioni in tutta Italia, innescando una serie di drammatici scontri: 5 uccisi dalla polizia il 7 luglio a Reggio Emilia, 4 a Palermo e a Catania l’8 luglio. Il 9 ai funerali dei morti di Reggio Emilia parteciparono 80.000 persone. Il 19 luglio il governo Tambroni fu costretto a dimettersi. L’incarico tornò a Fanfani; si costituì un governo monocolore democristiano, che ottenne la fiducia del Senato il 3 agosto e alla Camera il 5 agosto, grazie al voto favorevole di Dc, Psdi, Pri e Pli e all’astensione di socialisti e monarchici. Votarono contro comunisti e Msi: Aldo Moro lo definì – definizione tanto contraddittoria quanto destinata a restare famosa – il “governo delle convergenze parallele”. Dopo mesi di manovre, di scontri di piazza, di morti e feriti vedeva la luce una nuova fase della politica italiana: l’astensione socialista apriva la strada al centro-sinistra, una strada, però, ancora lunga e tortuosa.

Marisa Rodano, partigiana, già deputata, senatrice e parlamentare europea

https://www.patriaindipendente.it/ultime-news/6-luglio-60-a-roma-io-cero/

vedi anche:

https://www.anpi.it/patria-indipendente/media/uploads/patria/2011/14-16_BIGI.pdf

Festa Resistente del Quadrante ANPI dei Castelli Romani - Albano Laziale, Villa Doria (Piazzale dei Leoni) 10-13 luglio

Dal 10 al 13 luglio: la 4^ edizione della Festa Resistente del Quadrante ANPI Castelli Romani! 

Ad Albano Laziale, nella splendida location di Villa Doria, grazie al patrocinio dell'amministrazione.  Quest'anno la festa sarà dedicata agli 80 anni della Liberazione dell'Italia dal nazifascismo e al popolo palestinese.

Il programma è fitto di dibattiti, musica, cibo e socialità. Per stare insieme e capire come resistere alla barbarie che stiamo vivendo.


FESTA RESISTENTE – 4° EDIZIONE – ANPI QUADRANTE CASTELLI ROMANI


giovedi 10 luglio
18.00: 
“Ultimo atto: genocidio”
 FABRIZIO DE SANCTIS, Segreteria Nazionale ANPI 
 DAWUD AHMAD, Unione Democratica 
 Arabo-Palestinese
 MARTINA ARGADA, BDS Italia

 modera
 MARIA ROSARIA CAPUOZZO, Sez. ANPI ALBANO LAZIALE

 21.30:
 YAKAMOZ Live Rock Pop italiano
 22.30:
 EX TEMPORA Live Indie

venerdi 11 luglio
18.00:
“80 anni di Liberazione:l’ANPI tra passato e futuro”
 MARINA PIERLORENZI, Presidente  ANPI PROVINCIALE ROMA
 DAVIDE CONTI, Storico, Presidenza ANPI PROVINCIALE ROMA
 AGNESE PALMA, Presidenza ANPI PROVINCIALE ROMA

 modera
 DAVID DERNA,  Sez. ANPI ALBANO LAZIALE

 21.30:
 CONTROVENTO Live Musica Resistente


sabato 12 luglio
18.00:
“Giustizia sociale, giustizia ambientale e territori:
 una relazione inseparabile”
 STEFANO VALENTINI, Presidenza ANPI PROVINCIALE ROMA
 GIUSEPPE DE MARZO, Direttore Scientifico GEA
 MIRKO LAURENTI, Presidente Circolo Legambiente
 Appia Sud “il Riccio” 
 ROBERTO SALUSTRI, Presidente RESEDA ONLUS
 ALESSANDRA ZEPPIERI, Consigliera regionale 
 ELENA MAZZONI, Coportavoce Rete Tutela Roma Sud

 modera
 TALIA LAURENTI, Presidente Sez. ANPI MARINO

 21.30:
 Spettacolo teatrale “PENSO, DUNQUE SONO” 
 del Laboratorio Teatrale di Eleonora Napolitano


domenica 13 luglio
13.00: Pastasciutta antifascista 
(su prenotazione)
 18.00:
“DL SICUREZZA: Decreto PAURA e fascismi internazionali”

 MARTA BONAFONI, Coordinatrice nazionale PD
 ELENA MAZZONI, Segreteria Nazionale PRC Sinistra Europea
 FILIBERTO ZARATTI, Parlamentare Europa Verde AVS 
 FRANCESCO SILVESTRI, Deputato M5S
 GIANLUCA PECIOLA, Attivista e cofondatore
 Rete A PIENO REGIME
 BEATRICE FIORI, Esecutivo Rete Studenti Medi 
 Roma e Provincia

 modera
 SIMONA BIFFIGNANDI, Presidente Sez. ANPI Albano Laziale

 21.30:
 Spettacolo Live ERRANZE SONORE
“ODIO GLI INDIFFERENTI E PER QUESTO CANTO”

MOSTRA: “Donne Medaglia d’oro al Valor Militare”  
AREA RISTORO APERTA DALLE 20.00

Saluti istituzionali del Comune di Albano Laziale
saranno presenti il Sindaco MASSIMILIANO BORELLI 
e le/i rappresentanti dell’Amministrazione Comunale

Piazzale dei Leoni,  VILLA DORIA - ALBANO LAZIALE, (RM)





















30 giugno 2025

30 giugno 1960: la rivolta di Genova contro il congresso del MSI




    
Nella primavera del 1960, l'appoggio del MSI al governo monocolore guidato dal democristiano Fernando Tambroni aveva definitivamente sancito l'ingresso dei reduci di Salò nell'area di governo, ad appena quindici anni dal termine della guerra. L'ulteriore decisione di convocare la sesta assise congressuale del partito neofascista presso il teatro Margherita di Genova, citta decorata di Medaglia d'Oro al Valor Militare per la Resistenza, fu interpretata dal movimento antifascista genovese come una vera e propria provocazione.
    Nel mese di giugno, vari appelli e manifestazioni di protesta promosse dai principali partiti antifascisti (comunista, socialista, socialdemocratico, radicale, repubblicano) dalle organizzazioni delle lavoratrici e dei lavoratori registrarono una partecipazione via via crescente. Circolava la notizia che ai lavori congressuali avrebbe preso parte Carlo Emanuele Basile, prefetto della città ai tempi della Repubblica Sociale e diretto responsabile della deportazione in Germania di centinaia di operai e antifascisti.
    Il 29 giugno la CGIL indisse per il giorno successivo uno sciopero di sei ore, in concomitanza con un vasto corteo di protesta che avrebbe attraversato la città nel primo pomeriggio. La grande manifestazione, partita da Piazza dell'Annunziata, raggiunse senza difficoltà Piazza della Vittoria, ove il segretario della Camera del Lavoro tenne un applaudito comizio. Frattanto, alcuni manifestanti che avevano cercato di raggiungere il Teatro Margherita e si erano radunati in Piazza De Ferrari furono colpiti da alcune violente cariche da parte della polizia, che aveva cercato di disperderli con gli idranti. Si scatenò allora una vera e propria guerriglia, attivamente supportata dagli abitanti dei vicini quartieri popolari e proseguita poi negli stretti caruggi del centro storico, che giunse al termine verso sera anche grazie alla mediazione dell'ANPI locale.
    Dopo aver tentato invano di spostare la sede del congresso, di fronte alla combattività del fronte antifascista genovese, il 2 luglio il segretario del MSI Arturo Michelini si vide costretto ad annullare il previsto congresso del partito. Il sentimento antifascista della popolazione di Genova aveva definitivamente trionfato.

Il 28 giugno 1960, in vista del Congresso del neofascista Movimento Sociale Italiano, programmato e autorizzato per il 30 giugno, viene indetta una manifestazione di protesta nel corso della quale il partigiano Sandro Pertini, deputato del PSI, afferma la netta opposizione al verificarsi di quel congresso e ad un governo appoggiato dai fascisti. Alla manifestazione parteciperanno circa 30.000 persone e davanti a questa platea immensa di uomini e di donne, Pertini scandisce parole come fossero pietre


“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa. Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologia di reato. Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza. Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà. Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza. Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà; l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui. La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria, purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani. Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune. Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta? Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima. Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti. E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti. Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile. Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni. Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo. Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza, il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia. Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre. Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista. A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza? Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi. Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi”.

27 giugno 2025

27 giugno 1980: la strage del volo Itavia IH870 colpito nei cieli di Ustica


    

Mancano pochi minuti alle ore 21 del 27 giugno 1980 quando il volo Itavia IH870, decollato con quasi due ore di ritardo dall'aeroporto di Bologna e diretto a Palermo, perde contatto con la torre di controllo di Roma. Come si scoprirà solo con l'avvio delle ricerche la mattina successiva, l'aereo è precipitato nel profondo braccio di mare compreso tra le isole di Ponza e Ustica, senza lasciare scampo ad alcuno dei passeggeri o dei membri dell'equipaggio. Sullo sfondo, un inquietante scenario di guerra aerea che avrebbe coinvolto velivoli francesi, libici e statunitensi nel quale il DC-9 dell'Itavia si sarebbe trovato inavvertitamente coinvolto.
    Quarantacinque anni sono passati da quel 27 giugno, quarantacinque anni nei quali ai familiari delle vittime è stata sistematicamente negata la possibilità di conoscere la verità sulla sorte dei propri cari, come è stato ripetutamente denunciato da inchieste giornalistiche, indagini, procedimenti giudiziari e commissioni parlamentari d'inchiesta che hanno accertato la responsabilità di importanti settori delle Istituzioni e delle Forze Armate nel porre in atto operazioni di depistaggio. Ogni tentativo di rompere il "muro di gomma", come lo definiva il giornalista Andrea Purgatori che ad Ustica dedicò gran parte della propria attività di giornalista, non si è ad oggi rivelato del tutto riuscito.
    Vogliamo ricordare le vittime della strage di Ustica manifestando la vicinanza dellə antifascistə ai familiari delle vittime, alle loro associazioni e a tuttə lə cittadinə che si battono perché i loro cari abbiano finalmente giustizia dopo più di quarant'anni.






26 giugno 2025

Il 26 giugno 1967 moriva, a soli 44 anni, don Lorenzo Milani




“I care, ne ho cura, me ne occupo, mi sta a cuore, lo prendo come impegno…”. Contrario al motto fascista “Me ne frego”. No, lui non se ne fregava… A Barbiana era tutto “I care”.

Lettera ai cappellani militari toscani

Nella Lettera ai cappellani militari, don Milani chiede agli stessi di approvare soltanto le «armi» dello sciopero e del voto, invitandoli a rispettare le idee altrui, soprattutto se si tratta di uomini che per le loro idee pagano di persona. Per don Milani, è la coscienza, e non l’obbedienza cieca e assoluta, che deve guidare i cappellani, se vogliono essere guide morali dei soldati italiani. Ma l’accusa più dura di cui il priore di Barbiana dovette rispondere in Tribunale era che negli ultimi 100 anni la storia dell’esercito italiano era tutta intessuta di offese alle patrie altrui. L’unica guerra di difesa dell’Italia era stata quella partigiana.

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.

    Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.

    Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi(*), e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

    PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

    SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi.

    Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

    Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.

    Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

    Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

    Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.

    Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.

    Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.

    Articolo 11 «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...».

    Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

    Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.

    Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche ,la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

    Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri «superiori» sfidando la prigione o la morte? se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.

    Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l'anno)l'esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all'obiezione che all'obbedienza.

    L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l'han conosciuta anche troppo.

    Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

    1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d'Italia un monumento come eroe della Patria.

    A 100 anni di distanza la storia si ripete: l'Europa è alle porte.

    La Costituzione è pronta a riceverla: «L'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie...». I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

    La guerra seguente 1866 fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.

    Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant'è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: «L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia».

    Nel 1898 il Re «Buono» onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.

    Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare «Savoia» anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

    Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?

    Idem per la guerra di Libia.

    Poi siamo al '14. L'Italia aggredì l'Austria con cui questa volta era alleata.

    Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti?

    Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una «inutile strage»? (l'espressione non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).

    Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra «Patria», quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).

    Nel '36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar «volontari» a aggredire l'infelice popolo spagnolo.

    Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa.

    Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l'obbedienza dei «volontari» italiani tutto questo non sarebbe successo.

    Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.

    Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

    Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).

    Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l'umanità si sia data.

    L'uno rappresenta il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri.

    L'altro il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

    Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d'ogni giustizia e d'ogni religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei(la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).

    Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?

    Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.

    Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall'altra soldati che avevano obiettato.

    Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i«ribelli», quali i «regolari»?

    È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i «ribelli»?

    Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.

    Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un «distinguo»che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

    In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri,non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.

    Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. È proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.

    In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l'eroismo patrimonio dei più?

    Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

    Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?

    Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è «estraneo al comandamento cristiano dell'amore» allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!

    Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.

    Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.

    Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.


(*) Nell'anniversario della Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l'Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana. Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno: «I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell'associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d'Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». L'assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per tutti i caduti. (Comunicato pubblicato sulla Nazione di Firenze del 12 febbraio 1965)

https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/don-milani-maestro-oggi/

https://sites.units.it/cusrp/presentazioni/milani_cappellani.html

https://www.laciviltacattolica.it/recensione/lettera-ai-cappellani-militari-lettera-ai-giudici/

25 giugno 2025

27 e 30 giugno 2025: Iniziative dell'ANPI provinciale di Roma alla Casa della Memoria e della Storia: "Fake Art - L'inganno del fascismo" e "Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza"

 

venerdì 27 giugno ore 17.30

Incontro/dibattito Fake Art - L'inganno del fascismo

Ne discutono Fabrizio De Sanctis (ANPI Nazionale), Giuseppe Pedroni (ANPI Valle Aurelia), Tito Giliberto (regista del docu-film "Fake Art - L'inganno del fascismo") e Adachiara Zevi (presidente Fondazione Bruno Zevi)

Modera Marco Noccioli (ANPI Provinciale di Roma)


*   *   *



lunedì 30 giugno ore 17.30


Presentazione del libro Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, a cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti (Fazi editore 2025)

Dialogano insieme ai curatori Marina Pierlorenzi (presidente ANPI Provinciale di Roma) e Giovanni Angeloni (volontario Emergency)
In collegamento con un operatore di Emergency a Gaza

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