26 settembre 2020

In ricordo di Lucia Ottobrini, scomparsa cinque anni fa

Cinque anni fa, il 26 settembre del 2015, moriva Lucia Ottobrini, Partigiana combattente, tra le figure più rappresentative della Resistenza romana. Decorata con medaglia d’argento al valore militare.


LA PARTIGIANA PIÙ ODIATA DA KAPPLER

Nata a Roma il 2 ottobre del 1924, seconda di nove figli, Lucia Ottobrini è vissuta a Mulhouse in Alsazia fino all’età di 15 anni, città dove i genitori si erano trasferiti quando lei aveva ancora cinque mesi.
I bisnonni materni si erano insediati nella industriale e ricca città alsaziana alla fine dell’Ottocento e lì avevano impiantato una solida attività commerciale. A Mulhouse Lucia è cresciuta a contatto con un ambiente socialmente povero, formato perlopiù da minatori e operai, che le ha consentito di conoscere lo sfruttamento, la miseria, le ingiustizie. Tuttavia, era un ambiente cosmopolita e multietnico, dove convivevano la cultura e la religione ebraica, protestante e cattolica. In un clima di tolleranza religiosa e di solidi legami affettivi, la cattolica Lucia si è fortemente legata all’ambiente ebraico: «La mia migliore compagna di scuola era polacca, e per qualche tempo frequentai un doposcuola ebraico. Un giorno il rabbino mi pose la mano sul capo e mi benedisse. Non ho mai dimenticato quel gesto, da allora ho sempre amato gli ebrei, la loro dolcezza e saggezza» (Partigiani a Roma). Il padre Francesco faceva il carpentiere e la madre, Domenica De Nicola, apparteneva a un’agiata e numerosa famiglia di commercianti, per cui la famiglia Ottobrini conduceva una vita più che dignitosa. Poi con l’occupazione dell’Alsazia da parte dell’esercito tedesco, nove persone della famiglia di origine ebraica vennero prelevate e deportate nei campi di sterminio dove hanno trovato la morte. Auschwitz entrò con violenza nella vita di Lucia lacerando il suo vissuto di adolescente: tutto un mondo di legami affettivi familiari, di amicizie, di studi, crollava improvvisamente e irreparabilmente e nella sua mente rimarrà scolpito il ricordo dei simboli delle SS naziste. La scelta antifascista di Lucia poteva ormai dirsi compiuta e definitiva. La guerra a caccia dell'ebreo oltre ad aver smembrato la famiglia la ridussero in povertà, e i coniugi Ottobrini, con al seguito ben nove figli, decisero nel ’40 di rientrare a Roma dove venne loro assegnata una casa popolare nella borgata di Primavalle, da poco costruita dal regime fascista per dare un alloggio a molti degli sfrattati in seguito agli sventramenti del centro storico. Nella remota borgata romana Lucia conosce la fame e la miseria vere e per aiutare la famiglia si impiega all’Ufficio Valori del Tesoro. Per la famiglia Ottobrini sono anni terribili: ora Lucia, che aveva già sperimentato la ferocia nazista, poteva toccare con mano i risultati delle leggi razziali e della guerra volute dal fascismo.

Improvvisamente uno spiraglio: nel gennaio del ’43 conosce Mario Fiorentini, «una fiammata che non si è mai spenta né attenuata», e finalmente Lucia può entrare in contatto con l’ambiente intellettuale e antifascista romano. Per lei, così giovane e sensibile alle ingiustizie, è l’inizio di un importante impegno politico e culturale. Insieme a Laura Lombardo Radice ottiene il suo primo incarico politico nella raccolta di materiale per i detenuti e, contemporaneamente, insieme a Mario, si dedica al teatro civile con i migliori attori e registi della nuova generazione. Lucia ricorda questi primi mesi del ’43 come un periodo felice: «Quello fu un periodo splendido, Mario e Plinio De Martiis avevano formato una compagnia teatrale che doveva far conoscere gli “autori classici del teatro di prosa al popolo, evitando le rappresentazioni degli autori cosiddetti borghesi”. Ciò doveva avvenire nei cinema di periferia, in modo da raggiungere un pubblico popolare fino ad allora escluso dal teatro. Iniziammo dal cinema Mazzini ma avemmo subito delle difficoltà finanziarie; né il proletariato né il ceto medio corse ai nostri spettacoli. Attori e registi si ridussero la paga e qualcuno rinunciò. Facemmo una sola rappresentazione al Teatro delle Arti. Avevamo progettato che Gassmann saltasse sopra un tavolo e cantasse l’Internazionale in francese. I registi della nostra compagnia erano Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Mario Landi, gli attori erano Gassman, (stupendo per la sua classe, il suo ardore, la sua cultura), Lea Padovani... e tanti altri. Ho dimenticato molti nomi, ma erano tutti giovani, entusiasti ed antifascisti» (Partigiani a Roma)



Braccati dalle SS e dalla banda fascista del tenente Pietro Koch, sono rimasti sempre insieme, mano nella mano. Giovani generosi e pieni di prospettive, innamorati ma costantemente in bilico tra la vita e la morte, hanno accettato la terribile idea di poter morire in uno scontro armato. Roma, dominata da un sentimento di paura che effondeva un cupo grigiore, custodiva come un bene prezioso per l’avvenire e il loro amore e il loro sguardo sorridente e fiducioso. Lucia Ottobrini nel maggio del ’44 operava come partigiana, insieme a Mario Fiorentini, sulla via Tiburtina, nella zona di Tivoli.
La guerriglia dei GAP Centrali, dopo la battaglia di via Rasella, la successiva delazione di Guglielmo Blasi, che fece arrestare quasi al completo la rete dei gappisti di Carlo Salinari e Franco Calamandrei, e la pressione anglo-americana sul fronte di Anzio, era ormai terminata. Così alcuni gappisti vennero inviati dal comando regionale sulle principali vie consolari con l’ordine di attaccare l’esercito tedesco in ritirata verso Nord. Lo scopo di questa diversa dislocazione dei gappisti sul campo di battaglia era quello di formare e guidare nuove formazioni partigiane per cooperare all’avanzata dell’esercito Alleato in direzione di Roma. Abituati a combattere la guerriglia urbana in una città a loro familiare con azioni fulminee e immediata ritirata nei nascondigli situati nei palazzi del centro storico, ora i gappisti combattevano in un territorio a loro sconosciuto in una guerra di montagna a cui non erano stati addestrati.
Costretti a ripararsi in rifugi improvvisati come grotte o casolari abbandonati dai contadini dopo i bombardamenti, con scarsi rifornimenti alimentari, dotati di un armamento leggero non adeguato per attaccare intere colonne di militari tedeschi che si aprivano la strada con i carri armati, i gappisti continuavano comunque la guerra contro i nazifascisti.
Da Castel Madama a Tivoli, spesso Lucia costeggiando la Via Empolitana si recava a piedi a Roma per mantenere i contatti con il comando regionale, o per trasportare delle armi. Chilometri e chilometri attraverso la campagna romana percorsi da sola con pesanti carichi, spesso mitragliata dagli aerei alleati e costretta a ripararsi tra i solchi naturali del terreno o a dover sfuggire terrorizzata ai bombardamenti. Erano per lei momenti di disperante abbandono che superava aggrappandosi all’idea che presto tutto sarebbe finito.
Paure e e fatiche che con il passare degli anni si trasformeranno in incubi: «Ancora oggi durante le sere di maggio, quando il cielo è sereno mi sembra di risentire il rombo dei bombardieri» (Cesare De Simone). Quando partiva in missione, il momento del distacco da Mario era sempre penoso, aggiungeva apprensione alla stanchezza fisica accumulata nei mesi di guerra. Poi l’ansiosa attesa del ritorno, la speranza di riabbracciarsi ancora una volta per continuare una storia d’amore che caparbiamente si opponeva ai simboli di morte delle divise dei nazifascisti, alle distruzioni della guerra, al dolore per il sangue versato da tanti giovani compagni di lotta, a cui si aggiungeva il dolore non meno intenso per la morte procurata ad altri giovani anche se nemici. In una di quelle missioni un giorno Lucia incrociò a distanza una colonna di tedeschi che cantavano «Una volta scoppiai in lacrime quando sentii dei giovanissimi soldati che cantavano un nostalgico “Andiamo a casa, dove staremo bene” nella loro lingua, che io parlavo e capivo. Era un inno che avevo sentito cantare in Alsazia» (Partigiani a Roma). Quel canto in tedesco le risvegliò improvvisamente un’antica nostalgia per la Francia solo momentaneamente assopita dalla tensione e dalla stanchezza.
In Alsazia aveva lasciato i suoi gioiosi ricordi di bambina e adolescente, gli amici, gli ebrei che l’avevano educata alla tolleranza, i minatori piegati dalla stanchezza che morivano per un salario di fame quando non si suicidavano per la disperazione. Quel canto le risvegliò la pietas che aveva dovuto allontanare da sé con violenza durante i mesi di guerra. Una parentesi, ma pur sempre lunga per una ragazza animata da un forte cristianesimo, in cui le era stato impossibile portare con sé il Vangelo mentre impugnava la pistola. Una sorta di sdoppiamento della personalità doloroso quanto necessario, vissuto al tempo stesso come una violenta costrizione e come una liberazione, che turberà non poco i pensieri di Lucia negli anni a venire. Di quei drammatici momenti in cui doveva dimenticare il suo Gesù rimane la lapidaria riflessione di Lucia stessa: «Durante la resistenza pensavo: è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso. Se ci ripenso dico, ma che stranezza, ma ero proprio io questa?» (Alessandro Portelli). E ancora ricorda lo sdoppiamento vissuto in una intervista rilasciata a Cesare De Simone: «Una volta, insieme a Mario, Sasà e Carla andiamo a fare un’azione in via Veneto. Era inverno. Verso le sette di sera. Pioveva. Il nostro obiettivo era un ufficiale nazista. Camminava per la strada da solo scendendo verso piazza Barberini. Era bello, elegante nella sua divisa di pelle nera. Avanzava felice e baldanzoso con una borsa in mano. Forse era appena arrivato a Roma ed era contento. Ci avviciniamo armati di pistola. Tutti e quattro. Per primi premiamo il grilletto io e Mario. Le nostre armi, succedeva spesso, non funzionano. Intervengono Sasà e Carla. Sparano. Il nazista, ferito a morte, si mette a urlare. Tutte le finestre si aprono. Poi i battenti si richiudono in fretta mentre noi ci mischiavamo tra la gente. Se ci ripenso risento ancora le parole di quell’uomo che chiedeva aiuto, disperato. Una cosa tremenda. Signore benedetto! Con gli anni me lo sono chiesta tante volte. Ma ero io quella che sparava a sangue freddo? Che lasciava che un uomo, anche se un nemico, un tedesco, morisse per la strada sotto la pioggia? Spesso mi sento come se la Lucia di quegli anni fosse stata un’altra. E invece no, quella ero io. E il coraggio per fare certe cose si doveva avere per forza». In uno di quei viaggi, Lucia arrivò a Roma più provata del solito e con i piedi sanguinanti. Antonello Trombadori, fondatore e comandante dei GAP, prese un catino d’acqua, si inginocchiò, le lavò i piedi e le medicò le ferite.
Come in un dipinto del Caravaggio, quei corpi segnati dalla sofferenza trovarono un momento di sollievo in un silenzio spirituale che ricomponeva lo strazio dei nove tragici mesi dell’occupazione nazista. Il dolore per le morti subite e provocate veniva lavato e curato mentre su Roma sorgeva nuovamente il sole.
Il 5 giugno ’44 l’esercito tedesco lasciava Roma e al suo seguito se ne andavano verso Nord anche le bande di fascisti che avevano insanguinato la città.
Di nuovo Mario poteva aprire su Roma il suo sorriso e Lucia con i suoi dolci occhi neri riabbracciare la vita.

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