L'ANPI Provinciale di Roma esprime il più profondo cordoglio per la scomparsa del partigiano Alfredo Reichlin.
una sua recente intervista:
Un brano tratto dal libro Valentino Gerratana “filosofo democroatico” A cura di Eleonora Forenza e Guido Liguori. Carocci
Nella Resistenza romana
di Alfredo Reichlin
Ricordo il giorno in cui incontrai Valentino Gerratana. Era
l’inverno del 1944 nella Roma occupata dai tedeschi. L’appuntamento era in
una piccola trattoria vicino Piazza Fiume. Mi è rimasto impresso il suo volto:
magrissimo, con la barba nera mal rasata che rendeva i suoi occhi più tristi
e severi. Poche parole e lunghi silenzi. Luigi Pintor e io eravamo ragazzi.
Avevamo preso la licenza liceale solo pochi mesi prima. Era lì che qualcuno ci
aveva detto che avremmo potuto incontrare l’uomo del “centro”, questa parola
pronunciata a bassa voce e con enorme circospezione che indicava il Comando
segreto dei comunisti.
Guardando quell’uomo che mi sembrava senza età pensai:
finalmente si fa sul serio. Valentino corrispondeva, infatti, perfettamente
all’immagine che mi ero fatta di un capo comunista: un uomo i cui ordini non
era- no discutibili. Di cui ci si poteva fidare. Che poteva dirci dove e come
cominciare a sparare. E così fu. Qualcuno – credo Lucio Lombardo Radice – aveva garantito per noi tre (Luigi Pintor, Arminio Savioli
e io) come nuovi e affidabili possibili “gappisti”. Così, formammo una cellula,
cioè quel- l’unità combattente di base che per le ragioni della sicurezza
clandestina poteva avere rapporti con l’insieme della rete solo attraverso una
persona. Quella persona era Valentino Gerratana, nome di battaglia “Santo”. Il
nostro compito era “rendere la vita impossibile all’occupante”: queste furono
le direttive generali che ricevemmo da “Santo” quel giorno.
In quei mesi febbrili e sconvolgenti (per me almeno) io lo
rividi – stando ai miei ricordi – forse solo un’altra volta. Poi in una
stupenda giornata di sole in una Roma chiassosa e volgare piena di prostitute e
di borsari neri, con le strade percorse da traballanti camioncini pieni di
gente e dalle camionette americane, lo rincontrai. Eravamo stati convocati dal
Partito (entità per me ancora misteriosa) in un grande caseggiato di ferrovieri
in viale Regina Margherita, dove abitava uno di noi. Per conoscerci e per
festeggiare. È lì che vidi per la prima volta le facce di quei venti giovani
sconosciuti che avevano colpito duramente la guarnigione tedesca di Roma, fino
all’attentato di via Rasella, e l’avevano
costretta sulla difensiva fino a fissare il coprifuoco alle cinque del
pomeriggio. Eravamo i componenti del famoso GAP centrale. Un pugno di giovani intellettuali, parecchi dei quali diventeranno poi famosi: Salinari,
Calamandrei, Gerratana, Trombadori, Bentivegna, Carla Capponi e altri e altre.
Tra costoro c’era anche Marisa Musu, che diventò la prima moglie di Gerratana.
Scarsissima la presenza di proletari.
Quei giovani non venivano da Mosca o dall’esilio, ma dalle
scuole e dalle università italiane, e ciò che li animava non erano tanto i
testi del comunismo (che avremmo letto dopo), ma uno strano impasto ideale e
culturale che non si riduceva al mito sovietico e che si era formato negli anni
Trenta. Era nato in quegli anni un sentimento nuovo, l’antifascismo, che
ripensava la grande tradizione democratica dello storicismo italiano e al tempo
stesso si mescolava con le esperienze più moderne del Novecento europeo. Dopo
il grande cinismo da straniero in patria alla Prezzolini e l’edonismo
dannunziano, nasceva una cultura che si chiamò dell’impegno e le cui tracce
erano visibili perfino nell’attualismo “gentiliano”. Il mito sovietico contava
naturalmente. Ma se quegli anni Trenta furono così importanti è perché vi
successe di tutto: l’avvento dei fascismi e gli spettacolari trionfi della
pianificazione sovietica, la guerra di Spagna e le prime esperienze
socialdemocratiche. Insomma, quell’insieme di cose che avevano alimentato la
cosiddetta “guerra civile europea”. È in quegli anni e in quella temperie che
le avanguardie giovanili scopri- rono il famoso impegno. Così fu anche per
Valentino.
Egli era nato a Scicli in Sicilia nel 1919 ed ebbe i primi
contatti con l’organizzazione comunista clandestina nel 1939, a Salerno, dove
frequentava il corso allievi ufficiali. Suo compagno di corso era Giaime
Pintor, ed è lì che i due si conobbero e diventarono amici. Giaime, qualche
anno dopo, lo presentò a Carlo Salinari, fine letterato, critico d’arte,
allievo di Sapegno, capo partigiano, uomo di una freddezza e lucidità
impressionanti. Credo che lì cominciò l’impegno politico di Gerratana: perciò
nella mia mente quei due giovani (Giaime e Valentino) vivono insieme. Pur molto
diversi tra loro soprattutto per il temperamento e il rapporto col mondo, gli
amici, il gusto della vita, io credo che valga per tutti e due quel brano
dell’ultima lettera di Giaime al fratello Luigi, che riletta oggi mi sembra di
una drammatica attualità: «la corsa verso la politica – notava Giaime – è un
fenomeno che ho constatato in molti dei migliori, simile a quello che avvenne
in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica». E continuava
osservando che fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la
politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze
di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo
pericolo. Una società moderna si basa su una grande varietà di specificazioni,
ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo
momento per sacrificare tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria. È questo il
senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si rende
“disponibile”, che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa.
A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro
esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il
suo posto in una organizzazione di combattimento. [...] Questo – aggiungeva
Giaime con parole molto pesanti – vale soprattutto per l’Italia. Parlo
dell’Italia non perché mi stia più a cuore della Germania o dell’America, ma
perché gli italiani sono la parte del genere umano con cui mi trovo naturalmente
a contatto e su cui posso agire più facilmente. Gli italiani sono un popolo
fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di
cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze
rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia
d’Europa. L’Italia è nata dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento,
unico episodio della nostra storia politica è stato lo sforzo di altre
minoranze per restituire all’Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi
in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione
attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare
lo stato di emergenza .
La lettera continua, ma io qui mi fermo. Ho citato queste
parole perché balzano agli occhi le somiglianze con il nostro tempo, ma anche
le differenze da allora.
Se mi è consentita una nota personale, vorrei dire soltanto
che Giaime era stato il nostro fratello maggiore, un grande amico alla Alain
Fournier. Perciò non posso dimenticare quella sera, tristissima, dell’inverno
1943 quando Luigi, il fratello, mio compagno di scuola e di banco, venne a dir-
mi che era giunta notizia della morte di Giaime, lacerato da una mina in un
campo dell’Alto Volturno mentre tentava di passare le linee e unirsi ai par-
tigiani. Fu allora che noi decidemmo di prendere le armi che erano cadute dalle
sue mani. Entrammo nei GAP. E lì, come ho detto, incontrammo il nostro nuovo
capo, Valentino Gerratana. Quasi un segno del destino.
Sulle cronache di quella lotta non vorrei dire nulla. Ci
sono cose che non ricordo bene, altre che preferisco dimenticare. Io non sono
un eroe e ho vissuto quei mesi come un incubo, ben consapevole del rischio (che
a me ragazzo sembrava insopportabile) di finire nelle mani delle SS, a via
Tasso, in una camera di tortura. Sulla Resistenza romana c’è prima di tutto da
dire che le condizioni in cui si svolse erano particolarmente difficili. Roma
non era Torino e nemmeno Bologna. Non aveva in città le gran di fabbriche né
nei dintorni la campagna emiliana. Roma dopo l’8 settembre era rimasta isolata.
Ferme le costruzioni edilizie e i lavori pubblici, una parte degli impiegati
statali sospinta al Nord, la vita economica paralizzata, cominciò a pesare di
mese in mese il problema della fame. Molte famiglie romane cercavano rifugio
nelle campagne mentre in città affluivano tutti coloro che, nella prospettiva
di una liberazione considerata imminente, speravano di ricongiungersi con le
regioni meridionali.
La lotta dei patrioti romani si svolse quindi in condizioni
molto difficili, in una città che si trovò nelle retrovie immediate di un
grande campo di battaglia nel quale, soprattutto dopo lo sbarco di Anzio, era
concentrato un alto numero di agguerrite divisioni tedesche. Le quali, di
fatto, avevano trasformato la cosiddetta “città aperta” nella base principale
delle loro operazioni e nel centro dei comandi, dei rifornimenti, dei
collegamenti. Anche politicamente la Resistenza romana si svolse in condizioni
particolarmente difficili, essendo ancora vivi i contrasti politici in seno
allo stesso Comitato di liberazione nazionale e fuori di esso. Il grande merito
del PCI fu di capire che contro le manovre, gli intrighi, le discussioni
bizantine, l’arma più efficace era l’azione coraggiosa dei patrioti,
l’ardimento dei GAP, la lotta del popolo romano. E questa azione progredì in
città, dai primi, timidi atti, dalle grandi scritte murali e dai comizi volanti
del 7 novembre fino agli attacchi contro i centri del nemico (l’hotel Flora e
il cinema riservato alle truppe tedesche in Piazza Barberini), fino alla grande
settimana di attacco generale subito dopo lo sbarco di Anzio, quando si arrivò
al limite estremo della preparazione dell’insurrezione. Questa fu fermata
all’ultimo momento, per il capovolgimento della situazione militare e il
contrattacco tedesco sul fronte di Anzio. Il movimento patriottico pagò
duramente, con gravi e dolorose perdite, il fatto d’essersi scoperto
nell’intensificazione degli attacchi e nella preparazione dell’insurrezione. Le
nostre forze furono duramente colpite a causa di un tradimento che portò
all’arresto di Calamandrei, di Pintor e altri da parte della banda Kock che
aveva fatto della pensione Jaccarino, allora in via Romagna, un luogo di
torture. Agli scampati come me fu ordinato di reagire a qualunque prezzo. E lo
facemmo. Per fortuna si allargò la partecipazione popolare alla lotta contro la
fame e le deportazioni (manifestazioni di donne in viale delle Milizie, manifestazioni
per il pane ecc.). E la lotta continuò più aspra e decisa nei mesi successivi,
prima e dopo l’attacco dei GAP in via Due Macelli e in via Rasella. Lo sciopero
del 3 maggio rivelò in numerosi episodi il coraggio dei patrioti e il largo
consenso popolare; dimostrò anche le insufficienze di un movimento nel quale
un’avanguardia audace e ristretta, duramente provata dalle vicende della lotta,
non si appoggiava sopra un largo movimento di massa, e aveva bisogno di un
continuo ali- mento di nuove energie. I capi – come ho già detto – furono
Valentino Gerratana e Carlo Salinari. Non fummo soli. Devo ricordare che alle
Fosse Ardeatine caddero 335 martiri della Resistenza romana. C’erano tutti,
generali e soldati, operai e intellettuali, comunisti e monarchici, cattolici
ed ebrei, dirigenti di partito e semplici cittadini. Quel sangue generoso ha
bagnato l’antica, secolare città e le ha dato una nuova linfa vitale. Se oggi
Roma è una grande e vivente città democratica, è perché col sacrificio e con la
lotta nei dieci mesi della sua resistenza Roma ha saputo prendere il suo posto
nella grande battaglia per la libertà e l’indipendenza d’Italia.
Del Gerratana filosofo non spetta a me dire. Era molto
rigoroso ma aveva un sentimento laico del comunismo. E credo che questo spieghi
come si è accostato a Gramsci e come lo ha letto. Un comunismo che non
afferma principi definitivi né mete ultime, che non inventa istituzioni valide una volta per tutte. Un comunismo che non pensa se stesso come la fine
della storia. Un movimento storico di grande portata che – come tale – è
fallito, ma lascia dietro di sé il bisogno di un orizzonte mentale capace di
illuminare la lotta delle classi e delle egemonie a livello planetario.
Condivido il giudizio di Fabio Frosini: Gerratana era un
uomo tutto impegnato dentro la difficile impresa di quadrare il cerchio della
storia (dell’esperienza) e della teoria. E ciò per mezzo di quell’atto
creativo che si chiama “politica”, cioè per mezzo di quell’atto che è e resta
veramente “creativo” (cioè trasformatore, rivoluzionario) che è la Grande
politica. A condizione che essa riesca a evitare sia di ridursi a mera “conferma” della teoria, sia di distaccarsi dalle cose e dai movimenti reali. Insomma Lenin e Gramsci, le figure su cui più riflette Gerratana, gli uomini che
sono riusciti a tenersi all’altezza di questo compito, insieme a pochi altri,
come Labriola.
Era davvero un “filosofo democratico”. Quel filosofo la cui
personalità – dice lui stesso di Gramsci – non si limita alla propria
individualità fisica, ma è piuttosto «un rapporto sociale attivo di
modificazione dell’ambiente culturale». È un rapporto che per essere valido,
dice Valentino sempre citando Gramsci, deve rimanere aperto, come il rapporto
attivo di scienza e vita, mai concluso nella compiuta perfezione di un processo
che non ha più bisogno di essere rinnovato. Perché se è vero che «ogni maestro
è sempre scolaro e ogni scolaro maestro», ciò vale non solo e non tanto per i comuni
rapporti didattici quanto per quella grande scuola che è la vita nel suo
svolgimento storico. In questa luce la teoria gramsciana dell’egemonia non solo
acquista un connotato essenziale, ma raggiunge anche la sua maggiore
espressione.