L’80° anniversario della morte di Antonio Gramsci è alle nostre spalle. Ma può essere alle nostre spalle il pensiero di un uomo che vanta più di 20.000 saggi sulla propria opera pubblicati in ogni parte del mondo e traduzioni dei propri scritti in molte lingue? Oppure, ci si può ricordare di lui soltanto in occasione delle commemorazioni e degli anniversari (in verità più della morte che della nascita secondo un “modus operandi” consolidato per cui sembra che i grandi da ricordare siano soltanto morti senza aver mai visto la luce)? Non basta la cerimonia che, ormai da tre anni, si tiene ogni 27 aprile (giorno e mese del 1937 in cui Gramsci spirò in una clinica romana) presso l’urna che contiene le sue ceneri nel Cimitero della Piramide Cestia, a Roma. Se dopo il 2017, anno in cui si sono susseguiti convegni in ogni parte d’Italia e del mondo, seminari, presentazioni di volumi, ci si accomodasse nella ripetitività di attività già viste, magari dirette soltanto al solito gruppetto di studiose/i, l’eredità gramsciana perderebbe il suo senso culturale, politico, pedagogico e ne verrebbe sminuita anche la classicità da più parti rivendicata. Credo che si debba tenere viva la presenza gramsciana soprattutto in quei luoghi in cui o non c’è mai stata o è necessario che cominci ad esserci, perché sono i luoghi a cui Gramsci stesso pensava come fondamentali per la conquista dell’egemonia e del consenso da parte dei gruppi subalterni. Per chiarire il senso del ragionamento, si propone il passaggio dei Quaderni del carcere in cui Gramsci sottolinea la diversità fra la società russa conquistata con la Rivoluzione di Ottobre e quella italiana o, in genere, occidentale:
In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale [1].