17 marzo 2020

17 marzo 2020: 159 anni dell'Unità d'Italia: discorso del presidente emerito Carlo Smuraglia del 24 gennaio 2012 su “L’unità d’Italia alla prova di resistenza”

L'intervento di Carlo Smuraglia.

L’Anpi ha promosso questo incontro al termine di tante iniziative tenute in tutta Italia, come risulta dalla rassegna qui presentata, da cui si potrà rilevare l’interesse recato al tema, l’impegno delle Anpi periferiche e spesso la fantasia e la creatività di tante iniziative che hanno tutte in comune l’ostilità per la retorica e la volontà di compiere una riflessione seria e utile anche per il futuro; che è poi necessaria perché non tutto può finire con l’anno dell’anniversario.



Del quale possiamo intanto fare un primo bilancio, al quale – del resto – si è già accennato. Inizio in sordina, manifestazioni esplicite di contrarietà e di disinteresse, manifestazioni contro il tricolore e contro l’inno di Mameli e così via; ma il Presidente della Repubblica, proseguendo l’impegno che il Presidente Ciampi aveva dedicato nel suo settennato ad identificare la continuità tra Risorgimento, Resistenza e Costituente, insiste, va in tutti i luoghi in cui c’è stata qualche vicenda rilevante, pronuncia discorsi, fornisce dossier, lancia appelli, riporta insomma la questione sui binari giusti contro ogni forma di retorica, contro la detrazione ad ogni costo e a favore invece di una riflessione seria su un dato fondamentale, senza il quale, bisogna riconoscerlo, il nostro Paese sarebbe stato equivalente al nulla.

Alla fine, questa linea passa. Le città principali si riempiono di bandiere tricolori, il logo dell’anniversario compare perfino sui treni, non si perde occasione per suonare l’inno di Mameli che spesso molti cittadini cantano e quindi ridiventa popolare. Perfino un comico, Benigni, ricicla un inno spesso contestato e perfino le sue parole. Crescono le iniziative, si ragiona e si esaminano aspetti dimenticati. Si discute sulle figure principali del Risorgimento, sulla partecipazione delle donne, tentando di andare al di là dei soliti nomi della borghesia Italiana, e si riesce a rievocare episodi ormai quasi dimenticati.

Nel fiume di retorica che si poteva immaginare e temere, perché questo era il grande rischio, si è passati dunque alla riflessione, ad una memoria ricostruttiva e positiva, che peraltro non si nasconde i punti deboli, le fasi difficili, i nodi irrisolti, i problemi aperti.
In questo quadro si inserisce il nostro lavoro, con questa iniziativa, che vuole rappresentare la positività dell’Unità d’Italia e l’importanza che essa resti ormai come qualcosa che è definito storicamente e politicamente per sempre, ma valutandone nel contempo anche alcuni degli aspetti non risolti e soprattutto proiettando il discorso verso l’avvenire, affinchè non accada che, passata la festa, tutto torni come prima e ricominci daccapo il disinteresse, fino addirittura a far cadere l’oblio, perché questo è il problema di sempre per il nostro Paese: una vicenda importante, un fiammata magari di entusiasmo e poi tutto viene travolto dalle vicende che sopravvengono, mentre i problemi irrisolti, se c’erano, restano tali.

Questo è, insomma, il significato del titolo che abbiamo scelto per questo incontro, per significare che l’Unità d’Italia è stata sottoposta a molte e dure prove di resistenza e, alla fine, le ha superate. Ma restano ancora altre prove, in sostanza la crisi e infine proprio quel quadro di incompletezza a quelle aree di ambiguità che occorre definire per poter considerare finalmente e definitivamente acquisita l’Unità del nostro Paese.

In questa prospettiva e, tenuto conto del contributo rilevantissimo offerto dagli altri relatori, mi soffermerò solo su poche questioni, significativamente incidenti sul futuro.

1. Il contributo della Resistenza per l’unità d’Italia è rimasto un po’ in ombra, in questo anno. Molti non ne hanno proprio parlato, il Presidente vi ha dedicato ripetutamente alcuni riferimenti precisi; ma in molti casi è mancato un discorso approfondito che andasse al di là di alcune sintetiche affermazioni, secondo le quali la Resistenza sarebbe stata il completamento di una operazione (o rivoluzione) rimasta incompiuta.

E’ stato ancora il Presidente Napolitano ad esprimere il suo convincimento, con una frase che merita di essere integralmente richiamata (“Una e indivisibile” 2011 – p. 32) “L’Italia potè nel 1945 ricongiungersi come Paese libero e indipendente nei confini stabiliti dal Trattato di pace grazie a tre fattori decisivi: quel moto di riscossa partigiana e popolare che fu la Resistenza, di cui nessuna ricostruzione storica attenta a coglierne limiti e zone d’ombra può giungere a negare l’inestimabile valore e merito nazionale; il senso dell’onore e la fedeltà all’Italia delle nostre unità militari che seppero reagire ai soprusi tedeschi e impegnarsi nella guerra di Liberazione fino alla vittoria sul nazismo; la sapienza delle forze politiche antifasciste, che trovarono la strada di un impegno comune per gettare le basi di una nuova Italia democratica”. Una frase di quelle che restano, per sempre.

In effetti, va detto – prima di tutto – che il contributo della Resistenza è stato determinante sotto vari profili che non sono quelli del semplice “completamento”: l’unità d’Italia era stata sottoposta a durissime prove, dal brigantaggio alle questioni di cui ha parlato Ganapini, fino allo stesso fascismo, il quale certo non ha messo in discussione l’unità d’Italia ed anzi più volte ha cercato addirittura di ampliare i confini del Paese, ma sempre aderendo ad una concezione fortemente centralizzata, a suo modo unitaria, sempre a sfondo nazionalistico; ma facendolo da par suo, svilendo il concetto di Patria, affogandolo nella retorica, togliendogli ogni patrimonio ideale. Tant’è che parole come “Patria” e “Nazione” erano divenute pressoché impronunciabili, tanto sapevano di bolsa retorica e tanto erano collegate ad una concezione autoritaria in cui la patria non poteva essere senza aggettivi, ma doveva essere la patria fascista; mentre il concetto di appartenenza, che è alla base della nozione di “Nazione”, veniva frantumato dalle leggi razziali, dalle persecuzioni e dalle guerre perdute.

Ma poi, proprio al concetto di “patria” fu recato un attentato con l’illegittima costituzione della Repubblica di Salò, contrapposta alla parte d’Italia che aveva già un Governo, legittimato anche giuridicamente. In nome di quale Patria morirono i caduti Repubblichini e i Partigiani? Chiaramente non della stessa. E la divisione rispecchiava quello che avveniva a livello territoriale (l’Italia divisa in due). La Resistenza riuscì a superare questi scogli, rappresentando non un completamento ma una continuità con gli ideali del Risorgimento (indipendenza, libertà, unità), ai quali dette nuovamente un senso ed un valore. Quello dell’identità di un popolo, che il Risorgimento aveva posto come obbiettivo fondamentale, rinverdito e rivissuto dalla Resistenza con un spirito che lì affondava le radici, ma le proiettava anche in un futuro, in cui l’unità d’Italia avrebbe dovuto rappresentare una identità accompagnata anche dal concetto di libertà, indipendenza e democrazia.
Ha detto il Presidente emerito Ciampi “per quasi due anni (dal '43 al '45) l’Italia fu divisa a metà, nord e sud; due governi distinti e diversi. Ma nessuno invocò la separazione dal nord o dal sud e viceversa. Tutti, proprio tutti abbiamo mirato alla unificazione del Paese indipendentemente da dove si fosse schierati in politica o collocati sul territorio (pag. 32)”.

La Resistenza ha dato un contributo fondamentale all’intuizione di Mazzini che la Patria è prima di tutto la “coscienza della Patria” e dunque richiede il senso dell’appartenenza, di una comunanza di origini e di fonti, anche linguistiche e letterarie, di una sorta di fratellanza, sulla base della ricerca di un bene comune, quale quello della libertà, della indipendenza, della democrazia.
E questo era il senso con cui si combatteva e ci si impegnava nelle file della Resistenza; quella era la ragione per cui ci arruolammo, molti di noi, nel Corpo italiano di liberazione in seno all’Armata americana, non per esaltare il nostro ruolo di partigiani, ma perché al momento della pace ci fosse una presenza effettiva e non umiliata del nostro Paese e della nostra identità nazionale. Questo lo pensavano i comunisti così come gli azionisti e i cattolici, nonostante le divisioni su altri aspetti. E fu questo il dato unificante di tutta la Resistenza.

Qualcuno ha ricordato che la parola “patria “si ritrova, per la prima volta dopo il ventennio fascista, in un senso nuovo e lontano dalla retorica in molte lettere di condannati a morte della Resistenza. Sulla base di un pregevolissimo lavoro compiuto dall’Istituto storico della Resistenza di Modena, ho potuto fare una ricerca analitica ed ho trovato che la parola “patria” ricorre in quelle lettere ben novantaquattro volte, ma sempre in un senso che non ha nulla a che fare con la patria fascista e che è invece molto più vicino al modo con cui la parola “Patria” veniva pronunciata nel Risorgimento.

Così, si può leggere, nelle lettere di Franco Balbis “Viva l’Italia libera”; e in quelle di Raffaello Andreoni, che perde la vita “per la mia famiglia, per la mia patria, che ho amato l’una e l’altra con più amore degli uomini che oggi mi tolgono la vita” e Giulio Biglieri che scrive “ci unisce il grande amore per la patria che per vie diverse noi volemmo servire”; Giacomo Cappellini che ricorda “Ho amato tanto la patria, questa nostra patria tanto disgraziata”; Luigi Capriolo che scrive “offriamo questo sacrificio per il riscatto della patria”; o Amerigo Duò che scrive “Non muoio da delinquente ma da patriota e muoio per la patria e per il benessere di tutti; chi si sente continui la mia lotta, la mia battaglia per la comunità”; o Dardano Fenulli che parla “dell’amore doloroso appassionato e geloso con cui si ama una patria caduta schiava”; e Maurizio Giglio che afferma di aver predicato e professato “la religione della patria”; o Ruggero Mancini che scrive: “chi volete che salvi la nostra patria? Voi che non sentite nulla, voi che la patria rovinerete ancora di più, voi che non avete l’amor patrio, voi che l’amore di uomini avete dimenticato; sapete qual è il dovere di un italiano? Superare di un balzo tutte le questioni di carattere dottrinale, di partito o di associazione; il problema che si impone si riduce a due soli termini “patria e libertà”; Alessio Landi che dice “muoio per l’ideale della patria più libera e più bella”; e Giorgio Paglia: “La patria soprattutto e il suo bene”; o Alessandro Teagno che scrive “muoio contento per la mia patria, che ho amato tanto e per l’idea di una futura giustizia e libertà del Paese” e ancora, Lorenzo Viale che scrive “ho lottato per un ideale, perdonate se ho anteposto la patria a voi genitori”.

Sono solo alcune delle parole di coloro che sono caduti per la libertà ma che nel momento finale non pensavano a ideologie particolari o a divisioni o a motivi personali o ristretti, ma si riferivano sempre a quella che uno di loro ha chiamato la “religione della patria”.
Non c’è retorica, in tutto questo, ma c’è una continuità, un rafforzamento ideale del Risorgimento, nel momento più duro che l’unità del Paese avesse mai attraverso. Ed è da questi sentimenti, da queste aspirazioni, da queste motivazioni che escono le dichiarazioni fondamentali della Carta Costituzionale, che disegna all’art. 5 una Repubblica “una e indivisibile” in un sistema di autonomie e di decentramento, ma sulla base fondamentale dell’unità.

Questo è davvero il compimento, anche formale, del Risorgimento e del processo unitario, finalmente recepito in un documento approvato a larghissima maggioranza, che detta regole e princìpi, durevoli e proiettati anche verso il futuro.
Forse, fra i problemi ancora aperti, dovremmo ricordare le posizioni di quei gruppi e di quei partiti che ancora non si arrendono ed hanno nel loro seno uomini politici che hanno insultato il tricolore, che hanno cercato di spacciare un’incerta nozione di federalismo, non spiegando con chiarezza il modo con cui lo vogliono conciliare con la proclamazione contenuta nell’art. 5 della Costituzione e con l’intero disegno costituzionale. Per non dire di coloro che hanno parlato apertamente di secessione. Parola che, alla luce del nostro sistema, ha un carattere nettamente eversivo, così come lo sono certe manifestazioni quasi caricaturali, ma pur sempre da considerare con attenzione, come il rifiuto di ascoltare l’inno nazionale o di prendere atto di quanto ha scritto la Costituzione.

Queste posizioni non possono che essere respinte, perché contrarie ai princìpi costituzionali, contrarie a quanto pensa la stragrande maggioranza del popolo italiano. Federalismo è una parola che si riferisce a molti significati e ad esperienze diverse; certamente il nostro non è il caso di un federalismo come quello in un certo senso più tradizionale, cioè di stati già costituiti che ad un certo punto decidono di riunirsi e di federarsi insieme per avere più forza. Il nostro “federalismo” non è concepibile sotto quel profilo alla luce dell’attuale Carta Costituzionale e va inteso in un senso che può certamente essere specificato, ma non può essere lontano da quella concezione di autonomia che corre per tutta la Costituzione e non soltanto nell’art. 5 già ricordato, accompagnandosi poi sempre al concetto di solidarietà, largamente presente in tutta la Carta Costituzionale.

Federalismo si può conciliare dunque con l’unità del Paese solo se se ne accoglie un’accezione particolare e più ristretta che, respingendo i connotati di un sistema assolutamente centralistico, tuttavia tenga ferma l’unità nazionale e si avvicini molto a quei connotati di autonomia e di decentramento che i costituenti decisero dovessero qualificare il futuro del nostro Paese, nel quadro – peraltro – complessivo del sistema dei princìpi costituzionali, tra i quali quelli di solidarietà, di socialità, di dignità della persona, di cui la Carta fondamentale abbonda e dai quali non si può prescindere.

Il concetto di federalismo che talora ci viene proposto, è inaccettabile non solo per il contrasto col sistema delineato dall'art. 5, ma anche perché c'è una stridente contraddizione tra il suo connotato di individualismo e egoismo e quell'afflato ideale che pervade la Costituzione, richiamandoci più volte a quei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale di cui parla l'art. 2 ed a quel concetto di uguaglianza che l'art. 3 esprime con tanta nettezza, impegnando la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che possano impedirne la piena estrinsecazione.
Ancora una volta, di questi contenuti deve essere riempita l'Unità d'Italia se si vuole che essa sia l'espressione reale di un Paese lanciato verso il progresso e il futuro.

2. Un’altra questione che merita di essere affrontata con decisione, in questo contesto, è quella relativa alla coesione sociale. Noi parliamo di Unità d’Italia riferendoci a concetti come “coscienza della patria”, “senso della nazione” e così via. Ma questi concetti non sono più sufficienti, di fronte al problema drammatico dell’emigrazione che alcuni ritengono di poter affrontare - come ha detto uno sconsiderato - “magari con le armi”, ma che al contrario è un nodo ineludibile, col quale bisogna fare i conti presto e bene. Che concetto di patria possono avere coloro che si sentono respinti, anche se non in modo definitivo ma nella sostanza, da parte di una società che non riesce spesso ad essere solidale e inclusiva? Di quale consapevolezza e di quale senso di appartenenza possiamo parlare con chi è in Italia stabilmente e regolarmente ma non può sentirsi parte di una comunità? E che cosa potranno pensare in futuro quelli che oggi nascono nel nostro Paese e che per molto tempo non vedranno riconosciuto un diritto alla cittadinanza, che vuol dire anche esercizio dei diritti ad essa connessi?


Se vogliamo davvero parlare di una Italia unita e di una nazione, dobbiamo accelerare un procedimento normativo e un iter culturale che si muova nella direzione dell' inclusione e della integrazione. Si tratta di un percorso probabilmente lento e neppure lineare, ma che bisogna avviare al più presto, se vogliamo dare un senso reale alle parole che pronunciamo. Un processo che richiede anche un grande impegno di formazione, che sia fortemente inclusivo e dunque riguardi anche “gli altri”, quelli che non sono nati nel nostro paese, non hanno vissuto (e talora non vivono) con partecipazione le nostre vicende più recenti . Come si può pensare di integrarli, rispettando ovviamente le loro credenze e le loro tradizioni, se non li introduciamo nella nostra storia (almeno in quella più recente), nelle nostre principali vicende, nelle fondamenta normative del nostro sistema e non acceleriamo il processo di acquisizione dei diritti fondamentali? Se non si fa questo, il rischio è di avere una patria dimezzata, una nazione incompleta, con mondi e appartenenze diverse. Se così fosse, l’Unità rischierebbe di diventare una questione per privilegiati; e questo non sarebbe davvero negli intenti di chi quell’unità ha voluto e realizzato e di chi oggi si propone di consolidarla e rinforzarla.
Si tratta invece di raccogliere una sfida; quella di creare una cultura comune, collettiva e inclusiva, di appartenenza. La sfida, come esattamente è stato detto, di trasformare le diversità in motivo e fondamento dell'Unità (Napolitano).

3. Infine, ancora un problema, questa volta riferito al rapporto tra Stato e Unità. Di recente, uno studioso di alto valore, già giudice della Corte Costituzionale (Sabino Cassese), ha posto, in un piccolo ma denso saggio, un problema che è condensato nell’interrogativo di copertina (l’Italia: una società senza Stato?) che però, a leggere il contenuto, risulta più un interrogativo retorico, che una domanda reale.
In effetti, è vero, che anche su questo tema – che è strettamente collegato alla unità del Paese – non si è riflettuto abbastanza, finora; eppure l'idea di una Società senza Stato o, se si preferisce, con uno Stato debole e incompiuto, reca in sè una contraddizione profonda, che occorrerebbe superare proprio in nome dell'Unità.

Se alla nazione è necessaria, come diceva Mazzini, un’anima, è anche vero che oltre all’anima occorre anche un “corpo”; un corpo che consista in sistemi consolidati di amministrazione, di istituzioni corrispondenti alla loro funzione, in un quadro strutturalmente conforme a regole scritte (la Carta Costituzionale) ed anche a qualche regola (etica) non scritta, ma desumibile dall’intero contesto normativo e non.
Ora è proprio questo “corpo” che forse non abbiamo mai realizzato appieno o almeno non abbiamo mai realizzato in misura adeguata; chi può sostenere che la struttura portante del nostro Paese abbia assorbito e digerito fino in fondo le indicazioni che scaturiscono dalla nostra Carta Costituzionale, che vuole un Parlamento che funzioni e che interpreti fedelmente il Paese che rappresenta, i sistemi di garanzia efficaci e rispettati, una amministrazione ispirata a criteri tipici di “buon governo” (imparzialità, buon andamento, come recita l’articolo 97 della Costituzione), un insieme di funzioni pubbliche e di cariche elettive i cui compiti siano adempiuti “con disciplina e onore” ( come dice l’art. 54 della Costituzione)?

Uno Stato (democratico) non può essere “debole” se vuol essere veramente tale, ma deve avere la forza di contrastare ogni intrusione possibile (dalla corruzione alla collusione con la criminalità organizzata, al trasformismo politico e così via). Eppure questo accade nel nostro Paese e in modo davvero preoccupante.

Così come accade che l’intero corpo amministrativo – nel suo complesso - non riesca ad essere ispirato totalmente a quei criteri di democraticità che devono caratterizzare la nostra Repubblica (art. 1 della Costituzione). Non dovrebbe essere neppur pensabile che un rappresentante delle istituzioni possa esprimere all’estero nostalgie di tipo fascista; così come non dovrebbe essere concepibile che rappresentanti dei cittadini portino nelle istituzioni interessi contrastanti col bene comune; né dovrebbe essere concepibile la violazione del principio di divisione dei poteri. E’ vero che il nostro Paese non è tra quelli che si distinguono per un rispetto maniacale delle regole o per il culto della legalità. Ma lo Stato che fa, come interviene, come controlla, come agisce non solo con le proibizioni e le sanzioni, ma con la formazione del cittadino, con la prevenzione e soprattutto con l’esempio? In questo, in tutto questo sta il “corpo” che un Paese deve avere, assieme a quella coscienza di Patria e di coesione che deve costituirne l’anima assieme al senso di appartenenza, di cittadinanza e di convivenza civile della collettività.

Sappiamo che il nostro Paese ha corso seri pericoli ed ha vissuto terribili drammi (le stragi, il terrorismo) in questo dopo guerra. E dobbiamo riconoscere che ogni tentativo – alla fine - si è infranto contro il muro di una coesione che si realizzava, in concreto, davanti all’emergenza. Ma questo, se ha salvato la democrazia, non ci ha risparmiato tanto sangue, tanti lutti e tanto dolore; e non ci ha salvati dalla mancanza di una verità accertata, dal mancato raggiungimento della giustizia, dalla costatazione che troppo spesso, specialmente a proposito delle stragi, c’era qualcuno – dello Stato - che si collocava dalla parte sbagliata.
Consolidare l’Unità d’Italia significa dunque anche questo: creare gli anticorpi contro rischi ricorrenti e creare le condizioni perché nulla di ciò che è accaduto (non solo le stragi, ma anche la corruzione, il mal governo, la parzialità, il conflitto di interessi, l’aggressione della criminalità organizzata, ecc.) possa ancora ripetersi.

Ecco perché, penso che sia necessario dare un senso nuovo, più generoso e solidale, dinamico ed aperto, al concetto di Unità d’Italia, che comprenda l'anima della nazione, e al tempo stesso, quella struttura complessa che chiamiamo “Stato”. Ecco perché questioni nuove, come l’inclusione e la realizzazione di una vera uguaglianza, come recita l’art. 3 della Costituzione, vanno affrontate accanto a quelle vecchie, ancora irrisolte, come la questione sociale, la questione meridionale, il rapporto con l’Europa, con l’intento di avviarle definitivamente a soluzione proprio per garantire che a quella Unità d' Italia che consideriamo finalmente e per sempre raggiunta, si possa attribuire quel senso e quel significato che abbiamo visto essere essenziali perché si possa parlare davvero di una Patria, di una nazione, di uno Stato profondamente unitari ed altrettanto profondamente democratici. Solo questo potrà contribuire non solo a consolidare l'unità del Paese, ma a ricostituire e poi rinsaldare quel rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni che è fondamento della stessa democrazia. Un rapporto che è arrivato a profonde e deprecabili incrinature, che deve essere ricostruito al più presto, se vogliamo davvero convincerci di vivere in un'Italia unita, democratica e solidale.


Naturalmente, molto dipende anche dalla volontà complessiva del popolo italiano. Torna a proposito, al riguardo, la frase famosa, attribuita a Massimo D’Azeglio, poi assegnata a Ferdinando Martini e poi ancora, da alcuni storici, restituita a D’Azeglio “fatta l’Italia, facciamo gli italiani”; una frase che ci impone, ancora oggi, l’interrogativo, se davvero a questo punto, l’Unità d’Italia si esprima nell’unità degli italiani, sotto il profilo di una coscienza nazionale, di una comune identità e di un comune carattere. La risposta è in realtà, complessa, in parte per le ragioni cui ho già accennato; e in parte perché il degrado che affligge da tempo il nostro Paese non può non mettere in discussione anche questo profilo.

Certo, ci sono molti italiani che considerano l’Unità un valore, la Resistenza una pagina tra le più belle della nostra storia e la Costituzione un documento validissimo e destinato a durare nel tempo. Ma altri assumono posizioni diverse e pensano se non ad un impossibile ritorno al passato, quanto meno a vocazioni autoritarie e populistiche e rivelano una coscienza collettiva piuttosto debole, soprattutto se riferita al concetto di bene comune. Si dirà che questo è normale, in un Paese democratico e che il pluralismo delle idee è proprio il fondamento della democrazia. Ma ciò che sorprende è che non si sia riusciti ancora oggi a stabilire quel patto non scritto di cui parlano non pochi storici, che non è ancora quella difficile memoria condivisa di cui tanto si parla in modo inconcludente, ma è quell’intesa civile almeno su ciò che occorre ricordare e valorizzare, con gli strumenti abituali (gli insegnamenti nelle scuole, le festività, i monumenti, le lapidi e così via).

Giustamente De Luna ha spiegato che senza quell’intesa, si aprono dei vuoti, in cui facilmente possono inserirsi dei falsi valori. Ma questo è proprio ciò che è accaduto, spesso, nel nostro Paese dove si è contestata la festa dell’Unità, così come ancora si contesta quella della Repubblica e del 25 aprile, dove manca una consapevolezza diffusa del complesso di valori imprescindibili cui deve ispirarsi la nostra convivenza civile, secondo il dettato della Costituzione, dove periodicamente viene rimessa in discussione la nostra storia, anche nelle sue pagine più importanti (il Risorgimento, la Resistenza, la Costituzione), dove perfino una protesta può sfociare in rivendicazioni autonomistiche e addirittura in atti inconcepibili come dare fuoco al tricolore.

C’è da chiedersi se tra gli obiettivi da perseguire per consolidare l’Unità d’Italia, non ci sia anche quello di raggiungere questo accordo minimo sulle fondamenta del nostro Stato e della nostra Società, assumendo poi comportamenti – nelle istituzioni, nella vita politica e nella vita quotidiana dei cittadini – che ad esse corrispondano effettivamente.

In questo senso, occorre – credo – una vera svolta culturale e politica, per raggiungere almeno quel senso reale dell’identità, quella consapevolezza di essere nazione, che – abbandonato ogni formalismo retorico – tuttavia rappresenti di per sé i valori attorno ai quali il Paese si stringe e si attiva, non solo nelle grandi occasioni o nei momenti difficili, ma nella normale quotidianità del vivere.

Forse, guardandosi attorno, si può essere indotti a dubitare della reale possibilità che questo accada. Ma sul pessimismo, deve prevalere l’ottimismo della volontà e della ragione, esprimendosi in un impegno diffuso per creare una mentalità, un modo di essere davvero diverso, una capacità nuova di adoperarsi per il bene comune, nel quadro della tolleranza e del rispetto e soprattutto nella ricerca del superamento dei particolarismi, dei provincialismi, e delle grettezze che talvolta ci spingono a guardare con invidia ad altri Paesi. Mentre il dovere civico ci imporrebbe e ci impone di guardare al nostro, per creare le condizioni di un complessivo mutamento di quello che D’Azeglio, questa volta davvero, definiva “il carattere degli italiani”, pensando soprattutto ad un fiero ed alto sentimento collettivo della dignità nazionale, accompagnato da un forte senso di appartenenza e dall’orgoglio di vivere in un Paese culturalmente, politicamente e profondamente unitario, fondato sui valori costituzionali e da consegnare come tale al futuro e soprattutto alle nuove generazioni.

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