La battaglia di Via Rasella vista da due dei protagonisti: Mario Fiorentini e Rosario Bentivegna
Mario Fiorentini da "Sette mesi di guerriglia urbana. La Resistenza dei GAP a Roma". 2015 Odradek. Pagg. 101-110
23 MARZO 1944: LA
BATTAGLIA DI VIA RASELLA.
1.
'Lì qualcuno di noi ci lascia le penne’: i preparativi per un attacco
a
via Tasso.
I giorni seguenti il
3 marzo e la morte di Teresa Gullace lavorammo intensamente a tre azioni
principali: un attacco al carcere di via Tasso dove erano tenuti prigionieri e
barbaramente torturati alcuni nostri compagni; un attacco ai fascisti che il 10
marzo erano intenzionati a celebrare l'anniversario della morte di Giuseppe Mazzini;
infine, in prossimità del 23 marzo, ricorrenza della fondazione dei Fasci
italiani di combattimento, un attacco ai fascisti al cinema Adriano dove
avevano intenzione di festeggiare la ricorrenza.
L'azione
contro i tedeschi a via Rasella inizialmente era considerata dal Comando dei GAP
come un'azione di riserva perché la principale doveva essere quella contro i
fascisti riuniti all'Adriano. L'attacco a via Rasella lo studiai tanto, feci
ben tre dispositivi d'attacco, tutta la vicenda durò circa venti giorni. Come
dissi anni fa in una intervista: «È stato detto che io ne sono stato l'ideatore
e regista; la cosa non è esatta; in termini cinematografici io sono stato
l'autore del soggetto e della sceneggiatura ... l registi sono stati Carlo
Salinari (Spartaco) e Franco Calamandrei (Cola)». Ebbene, queste parole le
confermo tutte, così si chiarisce una volta per tutte che identificare
l'attacco di via Rasella con Sasà, che ne ha portato tutto il peso per ben
settanta anni, è sbagliato dal punto di vista storico e ingiusto dal punto di
vista umano.
Ma
procediamo con ordine. Inizialmente pensammo di fare un attacco a quel
terribile luogo di tortura comandato da Kappler che era il carcere di via
Tasso, dove peraltro erano ancora rinchiusi i nostri compagni Giorgio Labò,
Gioacchino Gesmundo, Guido Rattoppatore, Umberto Scattoni e tanti altri.
L'azione la pensai io e successivamente si aggiunse Sasà. Le cose andarono in
questo modo.
Eravamo
alla fine di gennaio e c'era appena stato lo sbarco ad Anzio-Nettuno. I
tedeschi per tutta risposta a Roma aumentarono la vigilanza e la repressione,
perché avevano ben altri problemi a cui pensare e volevano una città
pacificata. Noi dei GAP eravamo diventati troppo fastidiosi e quindi decisero
la stretta repressiva per eliminarci o quanto meno per metterei a tacere per un
lungo periodo. Tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio ci furono tanti
arresti e la Resistenza subì un colpo durissimo. Il 25 gennaio venne arrestato
il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo capo del Fronte Militare
Clandestino di Roma; il 26 gennaio venne arrestato Luciano Lusana del Servizio
Informazioni del PCI clandestino che morì due giorni dopo in seguito alle
torture subite; il 28 gennaio venne arrestata Carla Angelini e, mentre si
recavano all'Albergo 'Aquila d'Oro' per un attacco, vennero arrestati i
gappisti Guido Rattoppatore e Umberto Scattoni; il 29 vennero arrestati
Gioacchino Gesmundo in via Licia 76 e don Pietro Pappagallo a via Urbana 2; il
30, sempre nella casa di Gioacchino Gesmundo, vennero arrestate Maria Teresa
Regard e Lina Trozzi, gappista di Tiburtino III; il 1° febbraio, in via Giulia
23/A vennero arrestati Giorgio Labò e Gianfranco
Mattei; il 2, sempre
in via Giulia venne arrestato Antonello Trombadori. Naturalmente ci furono
anche altri arresti.
Maria
Teresa Regard si trovava dunque in carcere a via Tasso. Ma, come lei stessa
racconta, riuscì a cavarsela con una serie di bugie e venne liberata il 7
febbraio. Naturalmente i militari tedeschi non sospettavano neppure
lontanamente che una ragazza così giovane potesse far parte dei GAP, era
completamente al di fuori della loro cultura di soldati. Maria Teresa, che era
molto sveglia e intelligente, disegnò una piantina del palazzo di via Tasso e
la diede a noi.
Insieme
a Franco Calamandrei iniziammo a studiarla con molta cura, perché non era
un'azione facile, non si poteva improvvisare. Poi accadde che il 7 marzo venne
fucilato Giorgio Labò e per noi fu una sferzata, perché ci pentimmo di non aver
operato più celermente per liberarlo, fu una mazzata tremenda. Però c'è da dire
che gli eventi in quei giorni si susseguivano ad una velocità vertiginosa:
Giorgio venne fucilato pochi giorni prima di via Rasella, eravamo fortemente
impegnati e sotto pressione, non era così semplice.
Comunque
malgrado la mazzata di Giorgio riprendemmo il lavoro, e ad occuparsi dello
studio dell'attacco fummo perlopiù io e Lucia. La nostra idea era che l'attacco
dovesse essere fatto da tre colonne composte complessivamente da una ventina di
gappisti. Però ad un certo momento si aggiunsero i socialisti e questo ritardò
il tutto.
Una
prima colonna guidata da me e Lucia sarebbe dovuta partire dal Colosseo,
percorrere viale Manzoni e arrivare a via Tasso per poi risalirla. Lucia, che
parlava tedesco, ed io dovevamo far parte del primo gruppo che avrebbe
immobilizzato il corpo di guardia, perché non si doveva sparare, altrimenti
diventava una battaglia e ci sarebbero stati morti anche tra noi.
Ogni
mattina all'alba, Lucia ed io partivamo da via Marco Aurelio dove c'era la
santabarbara dei GAP, e contavamo i passi fino a via Tasso. Dovevamo studiare
il posto la mattina all'alba, perché pensavamo che quella fosse l'ora migliore
per attaccare, quando ancora le guardie erano addormentate, la gente ancora
insonnolita e la luce ancora bassa. Perciò contavamo i passi e i tempi, e Lucia
mia che non ama parlare di queste cose, due o tre anni fa, era di notte, eravamo
nelle vicinanze di via Marco Aurelio, ad un certo punto mi disse: vedi, noi due
tutta la vita ci siamo tenuti per mano; quando venivamo dalla santabarbara e
salivamo per Viale Manzoni, uno contava i secondi e l'altro i passi; ricordi?
Faceva freddo ed eravamo stanchi, ma sentivamo il calore delle nostre mani che ci
dava la forza di continuare.
A
via Taranto, al quartiere San Giovanni, c'era un'osteria famosa per essere un
importante centro partigiano. Vi operavano Timoteo Bernardini, un grosso
partigiano dei Castelli Romani, e il genero Enzo Russo, studente di medicina,
che fu uno dei primi gappisti. La seconda colonna doveva partire da lì.
La terza
colonna, formata anche da socialisti, doveva muoversi dall'alto di via Tasso,
dove si trova la famosa e bellissima chiesa. Si parlò di inserire nell'azione
anche i cattolici, in particolare Tatò e Ossicini, perché loro volevano sempre
entrare in contatto con noi. Però Calamandrei nicchiava verso questi, perché
non si fidava; come fai, non li conoscevi, i nostri erano i nostri.
Via Tasso
purtroppo non è stata fatta perché era un'azione difficile, era molto molto
difficile. Poi noi avevamo una carta in mano, Lucia che parlava il tedesco, ma
si ammalò.
La
preparazione dell'azione fu una grande fatica, controllammo i passi e i tempi
più volte, fu una grande sofferenza. Io e Lucia fingevamo di essere due ragazzi
che si stringevano: la mattina alle cinque con quel cielo plumbeo, spesso
pioveva, partivamo e studiavamo il percorso. Durò quasi tutto il mese di marzo.
Poi i tedeschi misero il filo spinato a protezione. Lavorai tanto per via
Tasso, le pensai tutte. Tutto questo per noi è stata la parte più sofferta. Lo
scopo era ammazzare tutti i tedeschi che c'erano dentro e liberare i compagni.
Ad un certo
punto dissi a Salinari: lì qualcuno di noi ci lascia le penne! I
primi a dare battaglia dovevamo essere io e Lucia, poi arrivava Sasà con il suo
gruppo: era un attacco all'arma bianca. Una volta disarmate le sentinelle ed
entrati nell'androne del palazzo dovevamo salire le scale per raggiungere i
piani superiori e dall'alto i tedeschi avrebbero sparato. Rischiavamo che
diventasse un tiro al piccione! Sono stati giorni terribili, perché ero
cosciente dell'immane pericolo per la nostre vite. In più soffrivo anche per
Lucia, perché lei doveva aprirci la strada e quindi rischiava di cadere per
prima. Ancora oggi mi sento mancare il respiro al ricordo di quell'azione e a
Lucia che avrebbe dovuto affrontare le sentinelle.
2.
Via Tomacelli.
Il
10 marzo i fascisti volevano dare una dimostrazione di forza: tornare in strada
con una manifestazione pubblica in occasione della ricorrenza della morte di Giuseppe
Mazzini. Per noi era inaccettabile. Molti di noi, come ho già avuto modo di
ricordare, erano stati e si sentivano ancora dei mazziniani. Per noi romani
Mazzini era una guida imprescindibile soprattutto per l'importanza storica
della Repubblica romana del1849. Cosa avevano a che fare i torturatori
'repubblichini' di Palazzo Braschi con Mazzini? I fascisti con i loro alleati
nazisti erano la negazione assoluta della civitas libera e repubblicana
auspicata da Mazzini. Veramente noi non potevamo tollerare un'infamia del
genere.
Quel
giorno i fascisti fecero la commemorazione in Piazza Adriana presso la Casa
madre dei mutilati e invalidi. Terminata la cerimonia
Si incolonnarono in
direzione di via Tomacelli per una manifestazione. Alla testa del corteo c'erano
i militi di 'Onore e combattimento' bene armati. Io, Sasà e Franco Ferri eravamo
ad attenderli a Largo Monte D'Oro, ben appostati dietro i chioschi del mercato.
Li attaccammo con bombe a mano brixia e si dispersero immediatamente, non
tentarono una pur minima reazione. Quella di via Tomacelli fu un'azione
militarmente molto importante che ebbe delle interessanti ripercussioni
politiche. Infatti, dopo quell'attacco in pieno giorno al centro di Roma, i tedeschi
impedirono ai fascisti di fare altre manifestazioni pubbliche. Questo, se da una
parte fu per noi un successo, dall’altra ci creò dei problemi per l'azione che
avevamo in mente di fare contro i fascisti per la ricorrenza del 23 marzo.
Infatti, non potendoli attaccare, decidemmo di concentrarci sull'azione di via
Rasella contro i tedeschi.
3.
‘Mica potevi disarmare le SS con la fionda’:
via Rasella.
Come dicevo, per il
23 marzo noi dei GAP avevamo l 'intenzione di preparare un'azione che avesse un
forte valore simbolico e politico. I Comandi ci sollecitarono
a preparare un'azione esemplare. Vista l'impossibilità di attaccare i fascisti,
via Rasella da azione di riserva divenne l'azione principale. Le cose andarono
in questo modo.
Vidi
passare la colonna del battaglione Bozen ai primi di marzo, giorno prima o dopo
l'episodio della Gullace, e ne parlai subito con Carlo Salinari che era
diventato il nostro comandante. La questione si presentò in questo modo:
incontrai Carlo, gli proposi di attaccare e gli presentai il primo progetto che
prevedeva l'attacco a via Quattro Fontane. Il primo dispositivo d'attacco, che
studiai all'inizio di marzo, prevedeva l'impiego di sette partigiani tra cui
due donne, Lucia e Marina Girelli.
A
Carlo il dispositivo andava bene anche se lo giudicò molto pericoloso. Però
quando ne parlò al Partito, non saprei dire se con la Giunta Militare, cioè
Giorgio Amendola, oppure con il Comando Regionale, cioè Antonio Cicalini e
Pompilio Molinari, decisero di attaccare a via Rasella.
Io
ero contrario. Questo lo ha affermato anche Sasà. Sembra che al comando abbiano
detto che dovevamo fare un attacco più massiccio, e in effetti a via Rasella un
attacco serio lo potevi fare. Carlo disse: il progetto che ci è stato
presentato da 'Giovanni' ci è sembrato un'azione da kamikaze. Perché noi in
pieno centro, in via Quattro Fontane, dove c'era traffico, gente, attaccavamo
questa colonna, era dura, propria dura. Anche a via Rasella sarebbe stata dura,
però era stretta come un budello e quindi più appropriata per un agguato.
Inoltre, aspetto non secondario, era una via poco transitata e quindi il
rischio di colpire altre persone era minore.
Allora
Carlo disse testualmente: l'azione di 'Giovanni' c'è sembrata da kamikaze; però
conoscendo la cura con cui 'Giovanni' prepara le sue azioni e soprattutto
conoscendo la straordinaria fortuna che ha sempre avuto, a lui potrebbe forse
anche riuscire. In breve, il comando decise di fare l'azione a via Rasella.
Voglio di nuovo puntualizzare che non sapemmo allora, e non lo sappiamo neppure
oggi, chi decise per via Rasella. La mia opinione è che sia stato il Comando
Regionale e Amendola successivamente si è preso coraggiosamente tutta la
responsabilità.
Venne
deciso per via Rasella. Io ero nettamente contrario, perché abitavo nella parte
bassa ed ero conosciuto, mentre nella parte alta ci abitava un operaio che
lavorava in una fabbrica di polveri da sparo sulla via Tiburtina. Con questo
operaio, Tonino Tatò per i cattolici ed io per i comunisti, avevamo avuto delle
riunioni, poteva essere un indizio, per cui non volevo quel posto perché per me
era bruciato. Quindi io ero contrario; però le nostre erano riunioni veloci, ci
vedevamo, il Comando dava gli ordini e mica te potevi mette a discute, a fa'
le chiacchiere. Decisero di fare l'attacco a via Rasella.
Allora
studiai un secondo piano d'attacco: lo ha raccontato anche Marisa Musu. Come
era ideato? bue coppie: una formata da Marisa Musu e Ernesto Borghesi, l'altra
da me e Lucia, con due cassette a capovolgimento piene di esplosivo. L'azione
venne studiata in questo modo: Marisa e Ernesto dovevano scendere dall'alto di
via Rasella e rovesciare la prima cassetta; invece io e Lucia dovevamo salire e
rovesciare la seconda cassetta. Dopo queste due prime esplosioni doveva partire
un attacco da via dei Giardini con le bombe Brixia, e in fondo a via Rasella verso
il Traforo altri gappisti dovevano sparare con le pistole verso l'alto. L'azione
era stata concordata in questo modo.
Perciò
iniziammo a lavorare su questo progetto. Calamandrei e gli altri fino ad una
certa fase non seppero nulla. Sasà non ne sapeva niente! Non ne sapeva niente!
I soli a sapere eravamo io e Carlo, noi due ci siamo sentiti più volte per
preparare l'azione. Dunque non più via Quattro Fontane ma via Rasella.
Passarono alcuni giorni e nel frattempo facemmo l'attacco a via Tomacelli del
10 marzo. Il 17 marzo ci incontrammo Carlo, Franco Calamandrei ed io per
discutere i nostri piani. Ci incontravamo sempre noi tre, Sasà non partecipava
mai o quasi mai, perché lui era stato operativo a Centocelle ed era tornato da
poco. Per esempio a viale Giulio Cesare lui non c'era perché si trovava in Sabina.
Alla
fine della riunione Carlo disse a Franco, questo è scritto nel Diario di
Franco: 'Giovanni' ha osservato una colonna tedesca che passa saltuariamente
per via Rasella, andate sul posto e studiate l'azione da fare.
Il 18
Franco ed io ci incontrammo, ma lui non sapeva dove era via Rasella, perché era
una via un po' defilata, lui non era di Roma, era appena arrivato da Venezia,
perciò non la conosceva. Quel giorno la colonna non passò, quindi non è vero
come qualcuno ha scritto che passavano tutti i giorni. Comunque studiammo
l'azione.
Il 19
tornammo sul posto e discutemmo di nuovo sul da farsi, ma non passarono. E allora:
il 18 e il 19 non passarono, però noi andammo sul posto a studiare i tempi. Il
dispositivo di attacco era lo stesso: due coppie con le due cassette, però due
cassette che non sarebbero state così letali come poi è stato.
Il
20 andammo in una trattoria vicino al tunnel, all'angolo di via del
Lavatoio, io, Sasà,
Carla e Lucia, e quel giorno la colonna transitò. Quando li vide passare Sasà
si rivolse a me dicendo: dobbiamo attaccarli. Io gli risposi: siamo qui per
questo, per studiare questo attacco. Il 20 la situazione era ancora la stessa:
l'attacco doveva essere fatto sempre con le due coppie.
Il 21
ancora pensavamo di fare l'azione contro i repubblichini a piazza Cavour al
teatro Adriano, ma tra il 21 e il 22 arrivò la notizia che i fascisti, sempre
su ordine dei tedeschi, avevano deciso di cambiare il loro progetto e di
riunirsi per le celebrazioni del 23 marzo al Palazzo delle Corporazioni a via
Veneto. Quel palazzo era una fortezza inespugnabile, era impossibile attaccare
in quel luogo. Evidentemente ebbero una soffiata e cambiarono luogo. Però lo
fecero all'ultimo momento, e quando dico all'ultimo momento, dico meno di due
giorni prima. Naturalmente per noi gappisti che dovevamo preparare le azioni
con cura questi repentini cambiamenti provocavano non pochi problemi. A volte
leggevamo la notizia sul «Messaggero» il giorno prima, quindi l'azione programmata
veniva annullata. Appresa la notizia del cambiamento di programma da parte dei
fascisti si decise per via Rasella che, questo va detto, era ancora in dubbio.
A
quel punto fummo costretti a cambiare piano. Ma io fino all'ultimo ero stato
irriducibilmente avverso e cercai insieme a Giulio Cortini di fare in modo che
le due cassette fossero fatte in maniera tale che non si vedesse il fumo. Io non
amavo fare la guerra con le bombe.
D'altra
parte ormai nella dirigenza del Partito si era affermata l'idea che per il 23
marzo dovevamo dare un segnale forte, doveva essere il giorno della vendetta
storica contro il fascismo. Quindi non si poteva rinviare e siccome le due
cassette non erano pronte, si decise per il carretto della spazzatura. Quel
giorno la colonna passò. E poi le cose sono andate come sono andate.
C'è
un altro aspetto che va ricordato. Noi non pensavamo che l'azione avesse avuto
quel successo, perché non potevamo immaginare quante perdite avesse subito il
nemico. Potevano essere 33 come 21, anzi noi pensavamo molti di meno. Questa è
una cosa che abbiamo un po' mancato, però non potevi andare e contare i morti,
né potevi andare a via Rasella a vedere, naturalmente noi ci siamo ritirati nei
nostri rifugi.
Io
nell'azione non sono stato impegnato per un motivo molto semplice: ero
conosciuto, dormivo a via del Boccaccio. Dopo di che, cosa avrei dovuto fare in
quella situazione, il carretto? Poi c'era anche un altro fattore non
secondario: io ero uno stuzzicadenti, non avevo la forza necessaria per
trainare il carretto, invece Sasà era un giovane robusto e forte, aveva una
costituzione più solida e più grande della mia. Quindi quel ruolo non lo potevo
svolgere. Io avrei potuto svolgere un ruolo in via del Vantaggio, però avevo
sotto casa i miei parenti. E difatti fu Carlo Salinari che mi disse: senti,
così come è fatta l'azione tu non puoi partecipare. Però, diciamo che ci sono
stato lo stesso in qualche modo; non tutte le cose si sanno, ma non è questo il
punto, le cose sono andate come sono andate.
Il
giorno successivo, il 24, ci incontrammo di nuovo Carlo, Franco ed io, e non
c'era nessun sentore della rappresaglia, quindi non era all'ordine del giorno
qualche nostra iniziativa al fine di evitarla. Noi non conoscevamo l'esito
dell'azione! La notizia della rappresaglia è stata data dai giornali
addirittura il giorno dopo, i1 25: 'l'ordine è già stato eseguito'. Ma sulla
vicenda della rappresaglia delle Fosse Ardeatine fa fede la puntuale e
argomentata ricostruzione storica di Alessandro Portelli e quanto affermato da
Giorgio Amendola nelle sue memorie. Noi non sapevamo che ci fossero stati tutti
quei morti.
Nella
riunione del 24 studiammo altre azioni da fare; a me venne dato l'ordine di far
fuori Caruso e mi fornirono anche le indicazioni dell'albergo dove lui
risiedeva. Il 25, come tutti gli italiani, apprendemmo la notizia della
rappresaglia. Il dopo via RaseIla fu drammatico: fummo tutti colti da una
tragica tristezza quando venimmo a sapere delle Fosse
Ardeatine. Tutti, non
solo i democristiani! La nostra reazione di dolore e di sconforto venne ben
fotografata da Vasco Patrolini in Diario Sentimentale. I compagni
balbettavano dal dolore. Però non ci potevamo fermare, dovevamo continuare
nella lotta, questo era il messaggio. E infatti nei giorni successivi pensammo
di attaccare nuovamente il carcere di Regina Coeli dove erano stati prelevati
gran parte dei 335 fucilati.
Naturalmente
la notizia della rappresaglia ci lasciò tutti sbigottiti.
Carlo Salinari, che
già parlava poco, rimase completamente ammutolito, non aveva neanche la forza
di dare nuove disposizioni. È stata proprio dura. Però in linea di massima noi
eravamo dell'avviso di fare altre azioni, come è attestato dal comunicato del
Comando scritto da Mario Alicata e pubblicato sull'Unità clandestina del 30
marzo, anche se a quel punto avevamo timore di altre rappresaglie. Ma in quel
caso Roma sarebbe esplosa. La rappresaglia l'hanno potuta eseguire perché è
stata fatta in segreto e velocemente, nessuno a Roma lo venne a sapere. Se i romani
avessero saputo Roma sarebbe saltata in aria, ci sarebbe stata una grande
reazione popolare. Comunque sia il Partito Comunista, e quanto ha affermato
Giorgio Amendola in proposito ne fa fede, il problema delle rappresaglie lo
aveva affrontato.
Le
cose andarono così, ormai fa parte della storia. È una storia triste, durissima,
atroce, sanguinosa, come lo sono tutte le guerre. La Resistenza romana senza
via Rasella ne sarebbe uscita molto ridimensionata.
D'altronde
gli Alleati, che erano impantanati sulla spiaggia di Anzio, ripetutamente
tramite le loro missioni, questo è molto importante, ci mandavano a dire:
badate che noi siamo in grave sofferenza, siamo in grande difficoltà, perché
avevano fatto centinaia di prigionieri americani, e c'era il pericolo, che
abbiamo sfiorato, che venisse ributtato a mare il corpo di sbarco. Ora
rigettare a mare il corpo di sbarco significava ricominciare la guerra dall'inizio
perlomeno in Italia. Lo sbarco di Anzio spiega via Rasella: noi facemmo
quell'azione perché gli Alleati erano in seria difficoltà.
Quindi
gli Alleati ci dicevano colpite duro. E così per la prima volta gli americani
mandarono le armi ai comunisti. Loro ci dicevano colpite duro e ci mandarono le
armi-. Quando noi abbiamo preso un carico di armi, un nostro compagno è stato
preso dai fascisti, e a questo nostro compagno di Monterotondo, Edmondo Riva,
gli hanno bucato gli occhi e tagliato le mani. Perché aveva preso le armi degli
americani mandate a noi comunisti. Questa è una cosa importante. Noi colpiamo
molto duro, forse avremmo dovuto fare di meno. Ma io ho fatto tre dispositivi
d'attacco, il terzo è stato quello che poi decidemmo di utilizzare. Io non lo
volevo fare, volevo fare le cassette, però avremmo dovuto rinviare l'azione.
I
tedeschi volevano il terrore, non si doveva muovere nessuno. Dovevamo reagire e
l'abbiamo fatto. Tra quattro anni per il mio centenario si discuterà ancora di
questo, perché la guerriglia urbana così come è stata fatta in Italia sarà
discussa ancora negli ambienti militari, negli ambienti politici, nella storia,
nell'arte militare della guerra, nella legislazione, nell'etica. Una delle cose
più dure in proposito l'ho detta io: ad ogni guerra si accompagna un
imbarbarimento del modo di fare la guerra.
Noi
gappisti ne eravamo coscienti, tanto che quando ci incontrammo prima al
Fontanone di Ponte Sisto e poi a Castel Sant'Angelo discutemmo dell'innalzamento
del livello dello scontro. D'altra parte come facevi a disarmare le SS? mica lo
potevi fare con la fionda. (…)
Rosario Bentivegna da «Achtung Banditen! Prima e dopo via Rasella», 2004
«Fu in Via Rasella che portammo a termine la più importante azione di guerra che i partigiani abbiano condotto a Roma, senza dubbio una delle più importanti d’Europa».
Roma è occupata ormai dal settembre dell’anno scorso.
L’8 settembre l’euforia ha riempito ogni angolo della capitale, dal centro alle borgate. La gioia per la fine dell’infamia fascista ci ha permesso di prendere il coraggio a due mani e il fucile in pugno, pronti a tutto pur di impedire ai nazisti di occupare Roma.
Ma ancora una volta a tradirci i nemici di classe, i generali e quell'inetto del Re che, degno epilogo di una vita da vigliacco, decide di scappare con il suo codazzo di fedelissimi. Si sa che i ricchi cascano sempre in piedi. Mentre a noi, sfruttati dai governi liberali, spediti al fronte, uccisi, perseguitati, incarcerati da Mussolini, rimane ora l’onere di lottare contro l’invasore e il nemico fascista. Ma senza un comando, senza armi, già il 10 settembre Roma è piegata e costretta all'armistizio. È ingenuo attendersi dai tedeschi il rispetto di qualunque clausola; ma la guerra ci ha prostrati, annichiliti; qualcuno ingenuamente ha sperato che quei criminali tenessero fede alla parola data e che Roma restasse città libera. Ma da gente senza onore non ci si può aspettare tanto e così l’11 settembre sono iniziate le prime deportazioni e da allora i tedeschi sono ovunque in città.
Noi a Roma gli scarponi di Kappler, dei suoi commilitoni e di quelle merde repubblichine non li abbiamo mai sopportati. Ovunque troviamo solidarietà, spontanea o organizzata.
Si moltiplicano gli attacchi e i sabotaggi ai danni degli occupanti. Dai quartieri e dai dintorni tedeschi e fascisti raccolgono molto più odio e disprezzo che simpatie.
Le loro sono odiose violenze, persecuzioni, stragi, torture; migliaia le vittime nella nostra città.
Noi romani siamo orgogliosi di essere la loro spina nel fianco, qui non si arrende nessuno, abbiamo chiaro di fronte a noi l’obiettivo, liberare la nostra città.
Proprio per far capire che la città non è domata, che non bastano le fucilazioni come quella di Forte Bravetta a far morire i GAP, che si decide di dare un segnale fortissimo.
È a “Giovanni” che viene l’idea. Da tempo aveva osservato quel reparto con le divise della polizia nazista sfilare nelle “zone più belle della nostra città”. “Le loro canzoni, la loro voce, il loro passo cadenzato, l’orgoglio del nazismo, il loro incedere da occupatori sprezzanti, suscitavano in chiunque si trovasse a passare di lì un brivido di paura.”
Solo vederli ci spronava all'attacco.
Così, sentito il Comando militare del CLN, Paolo, Giovanni e gli altri passano alla realizzazione pratica. Si decide che l’attacco avverrà su via Rasella, all'altezza di palazzo Tittoni. Un simbolo che si aggiunge a un altro. Infatti Palazzo Tittoni era stato sede del primo governo Mussolini e il 23 marzo, data stabilita per l’azione, aveva visto, nel 1919, nascere i Fasci di Combattimento. Un avvertimento per entrambi dunque, fascisti e nazisti.
Un uomo vestito da spazzino “Paolo”, un carrettino della nettezza urbana pieno di 18 chili di tritolo, ferro e immondizia per coprire.
Una bella giornata di sole; il caldo primaverile si univa alla tensione, adrenalina e sudore, determinazione che riga la fronte di Paolo.
Alle due del pomeriggio è lì, con il suo carrettino. Gli altri compagni disposti a copertura nelle strade intorno. I nazisti sono attesi per le 2 e 15, come al solito.
“Ma i tedeschi non arrivavano”. Dopo un’ora, un falso allarme. L’attesa è snervante. Diversi contrattempi e incomprensioni e ancora due falsi allarmi. “Paolo” alle 3 e 45 è ancora lì, fermo, da più di un’ora e mezzo, sempre più preoccupato.
L’azione sembra sfumare, ma alle 3 e 50 arrivano i tedeschi. Cantando, prima l’avanguardia e poi il resto, con i mitra in braccio. Paolo aveva acceso la sua pipa, pronto ad innescare la miccia. L’avanguardia gli sfila davanti, a una ventina di metri la compagnia.”Le divise, le armi puntate, il passo cadenzato, perfino la carretta su cui era piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo azzurro di Roma, agli intonachi, ai sampietrini [..]“. Il loro oltraggio troverà oggi una giusta risposta.
“Cola” si toglie il berretto, per Paolo è il segnale. Alza il coperchio, la miccia prende fuoco. Chiuso il coperchio dà il segnale agli altri compagni. L’azione è cominciata.
Paolo se ne va lentamente, dice a un uomo di allontanarsi, va verso “Elena” che lo aspetta.
Infila l’impermeabile, impugna la pistola.
Ecco i tedeschi, seguiti dal boato dell’esplosione. I nazisti sono a terra. Seguono le bombe a mano dei compagni. Rosario e Carla camminano con calma ormai, sono salvi.
A piazza Vittorio si riuniscono i gappisti dopo l’azione. Tutto è andato per il verso giusto, l’azione è riuscita!