Il “personalismo” della Costituzione. Il lavoro come fondamento e valore. La legge del 1970. L’urgenza di nuove tutele. La pandemia e le sue conseguenze
Quest’anno (per l’esattezza il 20 maggio), lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni, essendo stato approvato con legge 20 maggio 1970 n. 300. Più che l’occasione per festeggiare un anniversario, credo che si tratti dell’occasione per una riflessione approfondita sulle ragioni che condussero a quella legge, sui suoi contenuti essenziali e, soprattutto, sul suo stato di salute e sulle prospettive future. Ci sarà tempo per approfondire l’esame in molte sedi, e si prevedono iniziative importanti, ma qualche notazione può già essere fatta, senza il rischio dell’improvvisazione, visto che si tratta di un tema sul quale si discute da anni, da parte di chi pretenderebbe di ampliarlo, irrobustirlo e aggiornarlo e chi invece ha tentato e tenta di affossarlo.
Prima di tutto, partiamo dalle origini; e non c’è dubbio che, per capire, bisogna partire dall’avvento della Costituzione nel 1948.
Si tratta, pacificamente, di una Costituzione tutta imperniata sul concetto di “persona” e su tutto ciò che può non solo difenderla e tutelarla, ma consentirne anche e soprattutto lo sviluppo. Questa fu la prima constatazione dei Costituenti: vi era la necessità assoluta di riparare (anche per il futuro) a tutto ciò che le persone avevano subito a partire dalla guerra e dalla sua conclusione.
La classe operaia si era guadagnata molti meriti, con i grandi scioperi del 1943 e 1944, in pieno regime fascista e con una partecipazione attiva e forte alla Resistenza. Anche subito dopo la fine della guerra, ci fu un’iniziale, grande considerazione per i lavoratori, tant’è che vi fu un’esperienza, pur breve, dei Consigli di gestione, cioè della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. È vero che il “vento del nord” cessò ben presto di spirare, ma nella Costituente gli echi rimasero e quando fu chiaro che il perno del sistema avrebbe dovuto essere quello della “persona”, vista non come monade solitaria ma come attiva ed impegnata nel lavoro e nelle formazioni sociali, divenne progressivamente chiaro che il lavoro doveva essere considerato come il principale attributo della persona e la stessa condizione fondamentale per il suo sviluppo.
Non starò qui a rievocare le lunghe discussioni che vi furono, alla Costituente, sul tema; ma alla fine le contrapposizioni si composero e passò, con netta maggioranza la formula dell’art.1, che vedeva nel lavoro il fondamento stesso della Repubblica. Ma non bastava un’affermazione di principio, sia pure così importante, e dunque al lavoro ed ai lavoratori fu attribuita una considerazione di grande rilievo negli artt. 3-4-35-36-37-40, per citarne solo alcuni. E la parola “lavoro” fu spesso abbinata a quella di “dignità”, oltre che a quella, sia pure in modo meno esplicito, di sicurezza.
Insomma, fu creato un sistema che dava un contenuto alla formula dell’art. 1 riconoscendo diritti fondamentali ai lavoratori e perfino considerandoli – nell’art.3 – i veri destinatari dell’impegno della Repubblica a realizzare non solo un’effettiva parità sociale, e anche il diritto alla partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Fin qui, la Costituzione, che in sostanza attribuiva al lavoro, un “valore” fondamentale, forse uno dei più rilevanti fra quelli presi in considerazione. Lo scenario mutò, peraltro, negli anni immediatamente successivi, perché chi aveva perduto cercò la rivincita o comunque non volle capire le “novità” costituzionali. Finì subito l’esperienza dei Consigli di gestione e i datori di lavoro ripresero presto il ruolo di “padroni”. Si disse più volte, in quegli anni, che la Costituzione non riusciva ad entrare nelle fabbriche, ed era vero, in realtà. Ci furono alcuni tentativi di “fondare” un nuovo diritto del lavoro, dopo il crollo del sistema corporativo e la nascita di un sistema lavorista, anche se troppo dipendente (anche in sede universitaria e scientifica) dal diritto civile. Ma si trattò di iniziative – anche in sede legislativa – di limitato impatto, anche se rappresentavano comunque qualcosa di innovativo. Mi riferisco alla legge 1124/1965 sugli infortuni sul lavoro (che poi occupò la scena per diverso tempo, fino all’arrivo delle “novità”, provenienti dall’Europa); la legge 903 del 1965, sul sistema pensionistico; la “famosa” 604 /1966, che per la prima volta introdusse qualche limite alla pratica dei licenziamenti ad nutum.
Quest’ultima, trae origine da un fatto clamoroso: il licenziamento alla Fiat di un sindacalista, motivato non già con un pretesto qualsiasi (come si usava), ma proprio con l’argomento che svolgeva un ruolo “inaccettabile” (quello di sindacalista, per di più, qualificato “negativamente” anche sul piano politico).
Vi fu una grande sollevazione, per la prima volta, tra i “nuovi” giuristi del lavoro, ma anche tra civilisti, studiosi e persone di cultura. Un memorabile convegno a Torino, riunì, nel 1965, il meglio della cultura giuridica e del sindacalismo italiano e si concluse rivendicando a gran voce una effettiva disciplina limitativa dell’assoluta libertà di licenziamento. Ne seguì poi, dopo qualche tempo, la citata legge 15 luglio 1966 n. 604, che rappresentò davvero, pur nei suoi limiti, il primo sforzo reale di contenere la libertà assoluta degli imprenditori – datori di lavoro, quantomeno nella fase conclusiva del rapporto.
Bisognò attendere ancora a lungo prima di arrivare al tentativo di mettere in pratica l’idea un’idea già avanzata da Di Vittorio, di uno “statuto” dei diritti dei lavoratori.
La parola decisiva fu detta dalle lotte sindacali del ’68-’69 (il così detto “autunno caldo”), che aprirono la strada ad una seria considerazione della necessità di pensare ad una legge che rappresentasse davvero una prima attuazione formale, ma concreta, dei princìpi della Costituzione in tema di lavoro e di organizzazioni sindacali.
Fu così che si arrivò alla approvazione di uno “Statuto”, dopo un impegno consistente dell’allora ministro del lavoro Brodolini, del giurista del lavoro Giugni e poi soprattutto, dell’intero partito socialista.
Il progetto fu approvato, in Parlamento, da una larga maggioranza. Si astenne il gruppo comunista, secondo il quale nel testo, pur con aspetti positivi, vi erano alcune vistose lacune ed alcuni errori, tra cui quello di aver limitato la tutela ai lavoratori occupati in aziende con più di 15 dipendenti. Vi fu anche, come prevedibile, un certo numero di voti contrari, ma alla fine, la legge passò e fu salutata da molti con favore, proprio perché rappresentava il primo grande sforzo di attuazione dei princìpi e dei valori dedicati dalla Costituzione al lavoro e ai lavoratori.
Naturalmente, i primi casi di applicazione non furono agevoli e trovarono resistenze; ma ci fu anche un complesso di giudici “democratici” che accolsero bene le “novità” e le applicarono con favore. Lo stesso avvenne nei luoghi di lavoro, pur entro una limitata fase di tempo: lo Statuto divenne una componente essenziale e “naturale” del nostro sistema sindacale e giuridico, consentendo di riparare a molte storture, in sede sindacale ed anche in sede giudiziaria, con provvedimenti – di quest’ultima – che dapprima furono considerati come “rivoluzionari” e poi entrarono, gradualmente, nella normalità.
Questo non significa che tutti abbiano accolto bene il nuovo sistema. Anzi, vi furono non poche resistenze, opposte, nella pratica, dai datori di lavoro, con conseguenti battaglie sindacali e ricorsi dei lavoratori e dei sindacati ad una magistratura che si andava rinnovando e che era più propensa a recepire le “novità”.
Vi furono anche delle perplessità da parte dell’estrema sinistra.
Fu l’epoca d’oro dei giuristi del lavoro, e dei cosiddetti “pretori d’assalto”. Lentamente i nuovi princìpi e le nuove regole si affermarono ed entrarono, progressivamente, nella pratica corrente, com’era accaduto, del resto, al diritto di sciopero, consacrato solennemente nell’art. 40 della Costituzione, duramente contrastato all’inizio, nella pratica e, perfino, una volta, da una sentenza (per fortuna rimasta isolata) che tentò di spostare l’entrata effettiva in vigore, della norma, a quando fossero state emanate le limitazioni, in quanto considerate come possibili dallo stesso art.40.
Anche in questo caso, il tentativo di reagire fu forte; ma altrettanto consistente fu l’impulso a pretendere l’applicazione dello Statuto, man mano che i lavoratori prendevano consapevolezza dei nuovi diritti da esso previsti. Tanto più che lo Statuto conteneva anche una parte dedicata al “diritto sindacale”, non perfetta (tant’è che subì, in seguito, alcune rilevanti modifiche), ma pur sempre avanzata rispetto alla generica proclamazione della libertà sindacale ed alla controversa disciplina contenuta nell’art. 39 della Costituzione (anche in seguito mai attuata completamente).
Il ricorso previsto dall’art. 28 (repressione della condotta antisindacale) che consentiva alle organizzazioni sindacali di ricorrere direttamente al giudice nel caso di “condotte antisindacali” poste in essere dai datori di lavoro, rappresentò una novità molto importante, soprattutto se intesa correttamente come uno strumento “nuovo”, ma non sostitutivo dell’azione sindacale. Ma questo non impedì alcuni tentativi di rendere inoperante almeno la parte essenziale dello Statuto. Tant’è che fu promosso persino un referendum abrogativo, che però non raggiunse neppure il quorum necessario.
Ma non era tutto. In realtà lo Statuto, affermando la libertà d’opinione dei lavoratori, garantendo la libertà e dignità del lavoratore contro ogni tipo di controllo, fornendo garanzie per i controlli sanitari e per il procedimento disciplinare e vietando le indagini sulle opinioni, forniva un contenuto reale ai princìpi costituzionali ed attribuiva un valore concreto alla solenne proclamazione contenuta nell’art. 1 della Costituzione.
Ho qui accennato solo ad alcune disposizioni, fra le più rilevanti, oltre a tutte quelle riservate alla tutela della libertà dei lavoratori in occasione dei “controlli” aziendali, nonché della loro sicurezza (art.9), della loro dignità oltre alla parte riservata alle libertà sindacali. Molto altro ci sarebbe da dire, al riguardo, su aspetti di particolare rilievo, appunto, per la libertà e dignità di chi lavora. Mi riferisco all’art.13, che non solo vietava il “demansionamento”, specificando ulteriormente il contenuto di un’importante disposizione del Codice civile (art.2113), e confermando la regola che ogni patto contrario ai princìpi enunciati dalla norma dovesse essere considerato nullo. Mi riferisco altresì alla disposizione relativa ai licenziamenti, che stabiliva la possibilità di reintegrazione nel rapporto di lavoro per il lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. (art. 18). Disposizione importantissima non già solo per la tutela del lavoratore all’atto del licenziamento, ma anche e soprattutto per la garanzia fornita al lavoratore di un’effettiva libertà di determinazione nel corso del rapporto.
Questo è, nei fatti un aspetto di fondo, che occorre sottolineare, anche perché troppo spesso viene trascurato o dimenticato. Non sono solo rilevanti, di per sé, i singoli provvedimenti previsti dallo Statuto, ma lo spirito che lo pervade e che si ricava dalle valutazioni complessive del suo contenuto. Lo Statuto era ed è diretto a garantire le libertà del lavoratore durante il rapporto, a contrapporre una serie di princìpi e di regole alle conseguenze “inevitabili” di una situazione di soggezione. Come scrisse un grande giurista, se nel rapporto di lavoro il datore impegna il suo avere, il lavoratore – invece – impegna il suo “essere”, ossia la sua persona, considerata nei naturali rapporti che devono corredarla, cioè la libertà, la dignità, la sicurezza, l’effettiva possibilità di sviluppo, la concreta (e garantita) possibilità di ricevere una retribuzione che non sia solo il corrispettivo del lavoro prestato, ma contenga in sé anche la garanzia effettiva, per il lavoratore e la sua famiglia, di condurre un’esistenza libera e dignitosa.
Questo era, dunque, lo Statuto di cui oggi dovremmo festeggiare il cinquantesimo anniversario. Ma la domanda è se sia davvero il caso di limitarsi ai tradizionali festeggiamenti, oppure se esso possa o debba fornire l’occasione per una riflessione attenta su ciò che è accaduto, allo Statuto (e non solo) in questo periodo e quanto sopravviva ancora dello “spirito” con cui fu approvato, con esplicito riferimento ai valori fondamentali della Costituzione.
Doveva, come si è detto, trattarsi della prima, vera e grande applicazione ed attuazione dei princìpi della Costituzione in tema di lavoro e soprattutto del “valore” da essa attribuito, appunto, al lavoro.
Una riflessione attenta non può che produrre una certa amarezza e non poche preoccupazioni per il futuro.
In effetti, se non poche disposizioni dello Statuto sono penetrate nella realtà e non sono neppure più poste in discussione, vi sono alcuni aspetti sui quali si è abbattuta la scure delle vicende economiche, dei cambiamenti avvenuti anche in campo mondiale e perfino la scure del legislatore.
La situazione economica complessiva, in Italia, ma in qualche modo nel mondo, è cambiata pressoché radicalmente, soprattutto per ciò che attiene più specificamente al settore imprese e lavoro.
La disoccupazione ha avanzato ampiamente, travolgendo quel “diritto al lavoro” già solennemente proclamato dalla Costituzione e considerato implicito in tutto lo Statuto. Si sono fatte strada parole nuove, così come fenomeni nuovi: la flessibilità, le multinazionali, la globalizzazione, hanno agito sugli interi sistemi politico-sociali, spesso facendo prevalere in Europa e nel mondo, le ragioni del mercato e della concorrenza su quelle del lavoro e dei diritti sociali.
In questo contesto, nei fatti, all’imprenditore sono stati restituiti molti di quei poteri che avrebbero dovuto essere condizionati, per l’Italia, dall’art. 41 della Costituzione, con la previsione dei limiti dell’utilità sociale e del rispetto della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori.
L’Europa non è riuscita a darsi una Costituzione che fornisse strumenti per resistere alle “novità”, ed anzi, nel concreto, si sono consolidate le tendenze di cui si è detto, trovando riconoscimento persino in alcune decisioni della Corte di giustizia europea.
A tutto questo, si è unita una crisi economica, molto grave, e pericolosa, favorendo ancora di più le ragioni dei più forti, e producendo un progressivo arretramento delle forze sociali e del lavoro.
Mentre si affermavano le parole “nuove” di cui ho già detto, si verificava una caduta complessiva non solo delle ideologie ma perfino delle idealità. È accaduto così che quelle “parole” entrassero nel pensiero di molti, trovando scarsa resistenza perfino nell’ambito sindacale, oltre che – come è noto – nel mondo politico.
È così potuto accadere che vari Governi e Parlamenti intervenissero in maniera pesante, proprio per correggere le indicazioni fondamentali dello Statuto, oltreché i princìpi stessi della Costituzione. Basterà ricordare, al riguardo, la legge 11 marzo 1990 n. 188, la legge 28 giugno 2012 (“riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”), la legge 12 gennaio 2014, n.183, il decreto legislativo 81/2015, insomma quel complesso di provvedimenti che è stato definito come Job act. Questo complesso di norme recenti ha costituito un attacco pressoché frontale allo Statuto ed al suo spirito complessivo. Ma ciò che più conta è il fatto che non si ha ricordo di battaglie fragorose e particolarmente impegnate per contrastare questi indirizzi chiaramente retrivi, tant’è che la definitiva abolizione dell’art.18, che tempo prima aveva spinto in piazza due milioni di persone, convocate dalla Cgil, alla fine è passata praticamente sotto silenzio o quanto meno senza reali contrasti.
Così come è passato sotto silenzio un fatto clamoroso: la Cgil raccolse due milioni di firme sotto un disegno di legge d’iniziativa popolare per sottoporre al Parlamento una “Carta dei diritti dei lavoratori”, che superasse gli attacchi condotti in varie sedi contro lo Statuto e contro la Costituzione, proponendo in modo più aggiornato ai tempi, i fondamenti di un nuovo sistema e di un nuovo diritto del lavoro. Quel progetto è rimasto fermo per mesi in Parlamento, poi è finita la legislatura e non se ne è parlato più. Un segno dei tempi molto grave: che anche la parte migliore del popolo italiano assista impassibile ad una vicenda così grave e così contraria agli intenti del legislatore costituente, è un fatto che colpisce e preoccupa. Alcuni dicono che è un segno dei tempi. Ma non può e non deve essere così. Certo, non basterebbe, oggi, pronunciare la frase un tempo tipica di cambiamenti e di tempi nuovi, “torniamo allo Statuto” (intendendo per tale la Carta costituzionale). Oggi, non sarebbe sufficiente procedere all’eliminazione delle leggi vigenti alle quali ho fatto riferimento, ma occorrerebbe qualcosa di più ampio, diffuso e impegnativo; qualcosa che non ci facesse soltanto tornare (come pur si dovrebbe), allo Statuto dei lavoratori, ma cogliendone lo spirito, lo spingesse più avanti, verso un futuro fondato non solo sulle regole normative più avanzate, ma anche su decisioni e impegni politici diretti a far fronte, nello spirito dello Statuto, alle situazioni nuove, maturate in questi anni, in Italia e nel mondo. In sostanza, occorrerebbero provvedimenti non solo di tutela, ma anche di sviluppo e di crescita di un lavoro che assicuri al lavoratore ed alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.
Provvedimenti diretti a mettere in sicurezza il territorio, l’ambiente, i beni artistici e culturali (tanto per fare qualche esempio), impiegando in lavori di pubblica utilità una parte di quella forza lavoro che oggi è costretta a restare a casa, fruendo della Cassa integrazione o di altri strumenti di carattere sociale, sicuramente costosi ed in qualche modo non produttivi. Si darebbe così attuazione, contemporaneamente, a molte disposizioni della Carta costituzionale, che restano disapplicate o comunque “inattuate”, ottenendo in questo modo due risultati altrettanto utili ed importanti sul piano economico e sociale.
Quanto al sistema delle tutele e delle garanzie assicurate dallo Statuto, dovrebbe essere realizzato nella sua pienezza, rendendolo collegato alle “novità” che ci vengono da tutto il mondo, in tema di organizzazione economica, di trasformazione delle imprese e conseguentemente anche dalle tipologie del lavoro. Non va dimenticato mai che la Costituzione non può invecchiare o considerarsi superata, proprio perché in essa va rinvenuto anche il criterio interpretativo necessario per tenere conto delle “novità” tecnologiche oppure organizzative, garantendo al tempo stesso i diritti, e le prospettive di chi presta lavoro in qualsiasi forma, ma sempre in modi dignitosi e sicuri.
Merita un cenno, a questo proposito, un riferimento anche alla sicurezza del lavoro, messa fortemente in pericolo, in questi anni, dalla mancanza di rispetto della normativa vigente e di cautele adeguate. Alle continue tragedie che avvengono sul lavoro quotidianamente, non ci si può rassegnare ed abituare, considerandole come fatti inevitabili.
Non è così, né per lo Statuto (art.9, che affida ai lavoratori ampie possibilità di controllo nelle aziende), né per la Costituzione (artt. 41 e 32, che garantiscono il rispetto della libertà, dignità e sicurezza dei lavoratori e, in termini più ampi, considerano la tutela della salute come inerente all’interesse collettivo ed a quello generale).
Dunque, la ricorrenza del cinquantesimo dello Statuto deve essere l’occasione per una riflessione collettiva e profonda su tutto ciò che riguarda il lavoro, la sua tutela e le sue prospettive. Occorre davvero la partecipazione di tutti, a questa battaglia che bisogna ingaggiare, ma non solo per salvaguardare lo spirito di una legge importante come lo Statuto e quel profilo “sociale” che caratterizza l’intera Costituzione. Viviamo e vivremo in tempi difficilissimi e dovremo affrontare sfide estremamente impegnative, ma dobbiamo farlo non “giocando in difesa” ma guardando in avanti, verso un futuro che protegga i diritti ed assicuri la tutela di chi lavora, e al tempo stesso, sia garanzia di progresso sociale, di uguaglianza e di solidarietà. Un obiettivo importante, che ci impegna tutti e che dovrà essere la nostra nuova “resistenza” contro i mali dell’epoca e contro la drammatica situazione che il Paese sta vivendo.
Il Presidente della Repubblica, disse, anni fa, nella ricorrenza del 25 aprile parole importanti come “è sempre tempo di resistenza”. Facciamole nostre e consideriamole come un impegno che ognuno di noi deve assumere per garantire, soprattutto ai giovani, in futuro migliore.
Prima di concludere, qualche rapida considerazione va dedicata alla particolare fase della vita nazionale, in cui ricorre l’anniversario dello Statuto.
Siamo e saremo, anche nei prossimi mesi, in una fase terribile; il coronavirus ha provocato e provocherà molte vittime, ma produrrà anche effetti disastrosi sulla economia del Paese e dunque anche sul lavoro. Come affrontare questo periodo particolarissimo e quale uso fare delle garanzie poste dalla Costituzione e dallo Statuto e che richiedono – ora più che mai – di essere concretamente assicurate? Questo è un problema enorme, anche perché ci sarà certamente chi vorrà approfittare delle difficoltà del Paese per trarre vantaggi, economici e /o politici. È bene fin da ora, ricordare che il popolo italiano ha dimostrato, anche in questa occasione, di saper fare grandi sacrifici, quando occorre, ma non consentirà che, invece, si cerchi di cogliere l’occasione per chiedere sacrifici che incidendo sul sistema di tutela del lavoro, favoriscano i privilegi di sempre, perché questo sarebbe contrario allo Statuto ed alla stessa Carta costituzionale.
Bisognerà, dunque, assicurare il rilancio dell’economia del Paese e favorire lo sviluppo delle attività imprenditoriali garantendo al tempo stesso l’uguaglianza, la pari dignità sociale, i diritti soggettivi di chi – appunto – col lavoro impegna la sua stessa persona. Sarà questo il modo migliore per celebrare lo Statuto, cogliendone l’alta idea di socialità e di sviluppo, nel contesto di sicure garanzie di dignità e sicurezza nel lavoro, in tutte le sue forme.
Carlo Smuraglia, presidente emerito Anpi nazionale