21 - 29 maggio 1937: Il Massacro di Debre Libanos
E’ il più grande massacro di religiosi e fedeli cristiani avvenuto in Africa. Tra il 21 e il 29 maggio del 1937, monaci, preti e pellegrini ortodossi, radunati nel monastero di Debre Libanos per la festa dell’Arcangelo Mikael e di San Tekle Haymanot, vengono trucidati dalle truppe italiane, comandate dal generale Maletti, dietro un preciso ordine del Viceré Rodolfo Graziani. A 80 anni esatti dalla conquista italiana dell’Etiopia, attraverso un’ accurata ricostruzione storica, basata su testimonianze e documenti inediti, Tv2000 in un docu-film dal titolo ‘Debre Libanos’ di Antonello Carvigiani con la regia e fotografia di Andrea Tramontano, a cura di Dolores Gangi. Andato in onda il 21 maggio e il 22 maggio, racconta la storia di una barbarie pressoché sconosciuta in Italia. Secondo le ultime ricerche storiche, il numero delle vittime di questa strage sarebbe compreso tra 1.800 e 2.200, mentre il rapporto ufficiale stilato dal Viceré Rodolfo Graziani parla di “solo” 449 morti.
Il docu-film, girato tra Addis Abeba e Debre Libanos, ricostruisce i fatti storici grazie al contributo di Ian Campbell, il maggiore studioso della strage, al monaco di Debre Libanos, Abba Hbte Gyorgis e ad un testimone ultranovantenne di quei tragici avvenimenti, Ato Zewede Geberu. A questi, si aggiungono il Patriarca della chiesa ortodossa di Etiopia, Abuna Matthias I e l’ Arcivescovo di Addis Abeba, il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel.
Il massacro di Debre Libanos è l’ultima, tragica conseguenza di un attentato contro Graziani. Nel febbraio del 1937 due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom, nel cortile del palazzo del governo, lanciano alcune bombe contro il Viceré. Sette sono i morti. Graziani viene ferito. Gli italiani scatenano una feroce vendetta. Per tre giorni Addis Abeba viene messa a ferro e fuoco. E’ una strage. I due attentatori fuggono verso il Nord del Paese in direzione del monastero di Debre Libanos accompagnati da Simion Adefris un giovane intellettuale cattolico che lavora come tassista ad Addis Abeba, lo zio dell’attuale arcivescovo di Addis Abeba, il card. Berhaneyesus Demerew Souraphiel. Il giovane tassista viene arrestato e giustiziato nel carcere di San Giorgio.
“Mio zio è morto a soli 24 anni – ha raccontato il cardinale – e mia zia dovette pagare con l’oro i responsabili della prigione per avere il corpo del marito e dargli sepoltura nel cimitero cattolico”. Ma non basta. Graziani è convinto che i due giovani attentatori siano nascosti nel monastero di Debre Libanos, uno dei centri più importanti sia per la spiritualità e che per l’identità nazionale etiopica. E’ il pretesto per regolare definitivamente i conti con la Chiesa ortodossa, ritenuta ispiratrice e fiancheggiatrice della resistenza anti-italiana.
Il 18 maggio del 1937, il generale Maletti, dopo uno scambio di telegrammi con Graziani, mostrati per la prima volta nel docu-film di Tv2000, accerchia con il 45esimo battaglione la cittadella conventuale di Debre Libanos. L’eccidio avviene in un luogo isolato: Laga Welde. Lontano da testimoni. Nessuno deve vedere ciò che accade. Ma c’è qualcuno che sente. E’ Ato Zewede Geberu, oggi ultra 90enne: “All’epoca avevo 15 anni. Non ho visto il massacro. Ma l’ho sentito. Ho sentito i colpi della mitragliatrice. Abbiamo avuto paura siamo rimasti nascosti nel nostro villaggio. Dopo due-tre giorni sono andato a vedere. C’erano ancora i cadaveri, centinaia di morti, forse 600, 700. E gli animali cominciavano a mangiarli”. E’ la prima tappa della strage. La seconda avviene in un altro luogo isolato a Debre Berhan. Qui, qualche giorno dopo, su ordine esplicito di Graziani, vengono uccisi anche tutti i diaconi.
VIDEO
Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All'eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant'anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.
Tratto dal libro "Italiani brava gente" di Angelo del Boca
Debrà
Libanòs: una soluzione finale
Il
5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava in Addis Abeba
senza colpo ferire.
L’imperatore
Hailè Selassiè l’aveva abbandonata tre giorni prima per prendere
l’ultimo treno per
Gibuti
e la via dell’esilio. L’8 maggio il generale Rodolfo Graziani
occupava Harar e l’indomani Dire
Daua.
La “guerra dei sette mesi” era finita. Alle 22.33 del 9 maggio
Mussolini compariva al balcone di
Palazzo
Venezia e annunciava alla folla che «i territori e le genti che
appartennero all’impero d’Etiopia
sono
posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia» 370.
Il solenne avvenimento era così
commentato
da una penna devota al regime, quella di Raffaele Carrieri: «Un
mondo è crollato, un altro
sorge.
Lo vediamo spuntare in questo magnifico silenzio come un’aurora
dalle parole del Duce. Dopo
quindici
secoli, Mussolini ha ridato a Roma il suo Impero immortale» 371.
La
situazione, in Etiopia, era in realtà meno benigna. Quasi due terzi
dell’immenso paese erano
ancora
da occupare ed erano sotto il controllo di capi e funzionari del
negus. Si aggiunga che i resti
dell’esercito
imperiale, circa 100.000 uomini, erano ancora attivi nel Sidamo, nel
Bale, nel Goggiam,
nel
Gimma, nell’Hararghiè, al comando di capi di provata efficienza,
come i ras Destà Damtèu e
Immirù
Haile Sellase, i degiac Bejenè Merid, Gabre Mariam, Maconnen
Uoseniè. Per finire, i 10.000
soldati
che presidiavano Addis Abeba erano praticamente assediati dagli
armati dei fratelli Cassa.
Intuendo
il pericolo, e impaziente di riscuotere i doni, le prebende e gli
incarichi che gli erano
stati
promessi (fra tutti, un titolo nobiliare e tre milioni di lire per
costruire una villa faraonica in via
Bruxelles
a Roma), Badoglio si faceva richiamare in Italia e passava le
consegne all’ambizioso
Graziani,
nel frattempo promosso maresciallo d’Italia. Investito il 20 maggio
del triplice incarico di
viceré,
governatore generale e comandante superiore delle truppe, Graziani
veniva nello stesso tempo
travolto
dagli ordini telegrafici di Mussolini, che erano a dir poco
insensati. Fingendo di ignorare che il
neoviceré
era in pratica intrappolato in Addis Abeba, il 21 maggio il duce gli
telegrafava: «Non si può
tardare
oltre a marciare in direzione di Gore dove, secondo una lettera
pubblicata dall’ex Ministro
Etiopico
a Londra sul “Times”, esisterebbe un governo provvisorio
abissino. Si tratta di una vescica ma
è
bene bucarla» 372.
Inutilmente
Graziani cercava di spiegare all’impaziente Mussolini che lui era
dispostissimo a
riprendere
la marcia, ma la stagione delle piogge bloccava i movimenti su tutte
le strade e rendeva
persino
difficoltosi i rifornimenti alla capitale che, oltretutto, erano
ostacolati dalle incursioni dei
ribelli.
Mussolini non voleva sentire ragioni e pungolava il viceré con
telegrammi di questo tenore:
«Tutti
i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi» 373.
«Per finirla con i ribelli, come nel
caso
di Ancober, impieghi i gas» 374. «Autorizzo ancora una volta Vostra
Eccellenza a iniziare e
condurre
sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i
ribelli e le popolazioni
complici.
Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo
utile. Attendo conferma»
375.
Se
si trattava di usare il pugno di ferro Graziani non aveva bisogno di
sollecitazioni, lo aveva
ampiamente
dimostrato in Libia. Sotto il suo comando, infatti, la
controguerriglia sarebbe stata
condotta
per venti mesi con metodi spietati, che violavano ogni legge di
guerra. E, tuttavia, con scarsi
risultati.
Appena veniva spento un focolaio di rivolta, subito se ne accendeva
un altro, più vasto, più
inquietante.
Nonostante le continue esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas
(verranno lanciate
552
bombe caricate a iprite e a fosgene per complessive 60 tonnellate),
l’incendio di migliaia di
villaggi
con le loro chiese, le deportazioni di intere comunità, la
costruzione di nuovi campi di
concentramento,
l’Etiopia appariva indomabile e continuava a essere inospitale.
Quella che avrebbe
dovuto
diventare una colonia di ripopolamento, la terra promessa per i
coloni italiani (si parlava di
trapiantare
in Etiopia da un milione a dieci milioni di contadini), non
accoglierà, per la verità, durante i
cinque
anni dell’occupazione fascista, che 3500 famiglie, distribuite su
appena 114.000 ettari. Questi
coloni
non faranno in tempo a dissodare le nere terre del Gimma, del Cercer,
dell’Uogherà, perché le
prime
cannonate della seconda guerra mondiale li strapperanno dai loro
sogni.
La
fine della stagione delle piogge e l’arrivo a Addis Abeba di
notevoli rinforzi consentivano a
Graziani
di allentare la morsa attorno alla capitale e di passare
all’offensiva. Con una serie di
operazioni
di grande polizia coloniale, i suoi generali riuscivano a battere le
residue forze dei ras Destà
Damtèu
e Immirù Haile Sellase e dei fratelli Cassa. Nel marzo 1937
l’occupazione dell’impero poteva
dirsi
conclusa e integrale. In poco più di dieci mesi, quattro dei quali
vanificati dalle grandi piogge, le
colonne
partite da Addis Abeba, da Neghelli e da Harar avevano occupato più
di 600.000 chilometri
quadrati
di territorio, ridotto al silenzio le ultime armate del negus e
catturato 140.000 fucili, 450
mitragliatrici
e 50 cannoni 376. La vasta operazione, per la quale erano stati
impegnati non meno di
200.000
uomini, era costata agli italiani e ai loro alleati un numero
relativamente basso di morti: 45
ufficiali,
207 militari nazionali, 1200 soldati fra libici, eritrei e
arabo-somali.
Contravvenendo
a ogni regola di guerra, Mussolini e Graziani decidevano di
considerare i capi
e
i gregari fatti prigionieri non soldati di un esercito regolare, e
quindi da risparmiare, bensì militari
ribelli
e quindi da abbattere. In base a questo assurdo e criminale criterio
venivano fucilati i tre fratelli
Cassa
e persino gli abuna Petros e Micael. Non sfuggiva al massacro neppure
il genero dell’imperatore,
ras
Destà Damtèu. Il 12 febbraio 1937, mentre le residue forze del ras
venivano accerchiate e decimate
a
Gogetti, Graziani inviava al generale Geloso, che comandava le
operazioni, questo telegramma:
«Rammento
a V.E. l’ordine tassativo del Capo del Governo che tutti i capi e
gli armati catturati,
qualunque
grado essi abbiano, siano passati immediatamente per le armi» 377.
Ras Destà riusciva ancora
una
volta, con una quarantina di seguaci, a sfuggire all’accerchiamento
e a rifugiarsi nel villaggio
natale
di Maskan. Ma veniva presto rintracciato, catturato e consegnato al
capitano Tucci, il quale
inviava
a Graziani il seguente telegramma: «Oggi 24, alle ore 6, la mia
colonna ha fatto prigioniero ras
Destà
Damtèu. In ottemperanza agli ordini di Sua Eccellenza il Capo del
Governo, alle ore 17.30 è
stato
passato per le armi» 378.
I
giornali italiani annunciavano l’uccisione del genero
dell’imperatore con titoli a nove colonne,
e
il vicesegretario dei GUF, Guido Pallotta, che interpretava i
sentimenti della parte autenticamente
fascista
della nazione, giungeva a scrivere: «E nello scroscio del plotone di
esecuzione echeggiò la più
strafottente
risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle turbe
sanzioniste. Schiaffone
magistrale
che il capitano Tucci menò nella maniera squadrista sulle guance
imbellettate della
baldracca
ginevrina» 379. Pallotta aveva ragione. L’Italia fascista aveva
fatto un salto di qualità. Oramai
non
c’era consuetudine, legge, giudizio morale, che la frenasse.
L’impero italiano d’Etiopia si stava
rivelando
un immenso laboratorio, dove un popolo cosiddetto civile manifestava
i suoi istinti più bassi
e
sperimentava su larga scala le tecniche del genocidio.
Ad
appena nove mesi da quando Rodolfo Graziani era stato nominato da
Mussolini viceré
d’Etiopia,
il clima a Addis Abeba era particolarmente pesante e l’atmosfera di
insicurezza era
palpabile.
C’erano, nella capitale, alcune migliaia di etiopici che piangevano
i loro cari uccisi durante le
operazioni
di grande polizia coloniale. C’erano molti altri in ansia per la
scomparsa dei loro congiunti,
probabilmente
finiti nelle prigioni italiane. Continuava, inesorabile, la caccia ai
cadetti della Scuola
militare
di Olettà e dei giovani che si erano laureati all’estero, per i
quali, sin dal 3 maggio 1936,
Mussolini
aveva emesso questa sentenza: «Siano fucilati sommariamente tutti i
cosiddetti giovani,
etiopici,
barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi» 380.
Infine, dalle regioni vicine, dove
era
attiva la resistenza degli arbegnuoc , dei partigiani,
giungevano notizie di scontri, di eccidi, di
razzie,
di incendi di villaggi, dell’uso sistematico dei gas.
Erano
presenti tutti gli elementi perché si scatenasse una rivolta o, per
lo meno, un disperato
atto
di protesta. Di questo gesto estremo si incaricavano due giovani
studenti di origine eritrea,
Abraham
Debotch e Mogus Asghedom, i quali, nei giorni precedenti
all’attentato a Graziani, con la
complicità
di un tassista hararino, Semeon Adefres, e del capo ribelle Ficrè
Mariam, si erano addestrati
al
lancio delle bombe a mano sulle pendici del monte Zuqualà. Il 19
febbraio 1937, approfittando di
una
cerimonia che si teneva nel recinto del Piccolo Ghebì, per
solennizzare la nascita del primogenito
del
principe Umberto di Savoia, i due eritrei, eludendo il servizio
d’ordine, si introducevano nel
palazzo,
salivano al primo piano e accedevano alla balconata, che dava proprio
sulla scalinata
d’accesso
al palazzo dove le autorità si erano sistemate. Era quasi
mezzogiorno quando i due attentatori
cominciavano
a lanciare le bombe a mano Breda (otto in tutto) sul viceré Graziani
e le autorità italiane
ed
etiopiche che lo circondavano. Il bilancio era gravissimo: sette
morti e una cinquantina di feriti, e fra
questi
lo stesso Graziani, il vice-governatore generale Petretti, i generali
Liotta, Gariboldi e Armando, i
colonnelli
Mazzi e Amantea, il governatore di Addis Abeba Siniscalchi,
l’ispettore fascista del lavoro
per
l’Africa Orientale Italiana, onorevole Fossa, il federale Cortese,
l’abuna Cirillo, il degiac Hailè
Selassiè
Gugsa.
Approfittando
dello scompiglio generale, i due eritrei uscivano dal palazzo e poi
dal recinto
seguendo
un percorso studiato a lungo. Fuori, ad attenderli, c’era Semeon
Adefres, con la sua Opel, che
li
portava in salvo nella città conventuale di Debrà Libanòs. In
seguito i due eritrei avrebbero raggiunto
le
formazioni partigiane di ras Abebè Aregai, con le quali avrebbero
operato per un certo periodo. Più
tardi
decidevano di raggiungere il Sudan, ma venivano uccisi durante il
viaggio in circostanze rimaste
oscure.
Quanto a Semeon Adefres, la cui scomparsa da Addis Abeba, per alcuni
giorni, era stata
segnalata
all’Ufficio Politico della capitale, veniva tratto in arresto e
torturato sino alla morte. Il suo
corpo,
ricuperato dalla sorella, riposa ora nella chiesa dei Santi Pietro e
Paolo 381.
Subito
dopo aver appreso la notizia dell’attentato, Mussolini inviava a
Graziani, che nel
frattempo
era stato ricoverato in ospedale, essendo stato investito da 350
schegge, questo telegramma:
«Non
attribuisco al fatto una importanza maggiore di quella che
effettivamente ha, ma ritengo che esso
debba
segnare l’inizio di quel radicale ripulisti assolutamente, a mio
avviso, necessario nello Scioa» 382.
A
Addis Abeba, l’uomo che prendeva immediatamente l’iniziativa di
dare agli etiopici una lezione
indimenticabile
non era però Graziani, che si limitava ad avallarla dall’ospedale
trasformato in bunker,
bensì
il federale fascista della capitale, Guido Cortese. La rappresaglia
si scatenava quasi subito, nello
stesso
pomeriggio del 19 febbraio. Il giornalista Ciro Poggiali annotava nel
suo diario segreto:
Tutti
i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito
della vendetta, condotta
fulmineamente
coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di
manganelli e di
sbarre
di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. […]
Vedo un autista che, dopo
aver
abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la
testa da parte a parte con una
baionetta.
Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e
innocente 383.
Un
altro testimone dei fatti, Antonio Dordoni, che ben conosceva la
comunità italiana della
capitale,
così riferiva:
Nel
tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del
fascio, alcune centinaia di squadre
composte
da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri
indigeni e diedero inizio alla
più
forsennata «caccia al moro» che si fosse mai vista. In genere
davano fuoco ai tucul con la benzina e
finivano
a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi.
Intesi uno vantarsi di
«essersi
fatto dieci tucul» con un solo fiasco di benzina. Un altro si
lamentava di avere il braccio destro
stanco
per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi
forsennati li conoscevo
personalmente.
Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e
del tutto
rispettabile.
Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra
e che ora rivelava
rancori
ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità
era assoluta. Il solo rischio che si
correva
era quello di guadagnarsi una medaglia. Che io sappia, i carabinieri
intervennero una sola volta,
per
impedire che si bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally
384.
Di
quel tremendo massacro disponiamo di tre fotografie, scattate dal
giovane Alberto Imperiali,
il
quale, con il padre, era in contatto con la resistenza etiopica. Si
tratta di immagini nette,
inequivocabili,
terrificanti, riprese nella zona di Gullalè, tra la chiesa dei Santi
Pietro e Paolo e il Ghebì
di
ras Hailù Tecla Haimanot. Il terreno, ondulato, è letteralmente
coperto da cumuli di stracci bianchi.
Ma
non si tratta di una immensa lavanderia indigena, bensì di cadaveri
avvolti in fute bianche scaricati
alla
rinfusa, con molta probabilità da autocarri. Soltanto qualche testa,
qualche braccio, emergono dai
cumuli
di stracci bianchi, a confermare che siamo di fronte a uno dei più
odiosi eccidi della storia.
Proviamo
a contare le vittime. Cento, duecento. Impossibile continuare... 385
Veniva
dato alle fiamme anche l’interno della chiesa di San Giorgio,
costruita ai tempi di
Menelik
dall’ingegnere italiano Sebastiano Castagna. Un particolare che
forse era sfuggito al federale
Cortese
che aveva, di persona, impartito l’ordine di incendiare l’edificio.
E solo l’intervento di un
colonnello
dei granatieri impediva che una cinquantina di diaconi venisse spinta
a scudisciate nel rogo
386.
Mentre i civili organizzavano la rappresaglia contro una popolazione
inerme e del tutto estranea
all’attentato,
i militari operavano arresti in massa, convogliando circa 4000
etiopici in improvvisati
campi
di concentramento. Ma dove la ritorsione assumeva le dimensioni di un
genocidio era negli
agglomerati
di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano
la città da nord a sud. Presi
d’assalto
a tarda sera e dati alle fiamme, ardevano per tutta la notte
illuminando a giorno l’immensa
città-foresta.
«Da
Piazza 5 maggio all’Ospedale americano se ne erano salvati ben
pochi di tucul» ricordava a
sua
volta il vercellese Alfredo Godio, che l’indomani mattina
attraversava il quartiere. «E fra le
macerie
c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada
per Ambò, vidi passare molti
autocarri
“634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile
groviglio, decine di corpi di abissini
uccisi»
387.
«Per
tre giorni durò il caos» riferiva l’attore Dante Galeazzi, finito
in Etiopia per spirito
d’avventura,
«per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre
giorni in Addis Abeba,
città
di africani dove per un pezzo non si vide più un africano» 388. Il
21 febbraio, preoccupato per il
fatto
che i diplomatici stranieri presenti nella capitale si muovevano
armati di macchine fotografiche
per
riprendere le immagini più crudeli della strage, Graziani
autorizzava il colonnello Mazzi a inviare
al
federale Cortese questo fonogramma a mano: «S.E. il viceré intende
che cessino in modo assoluto le
rappresaglie»
389.
Il
federale acconsentiva e faceva diffondere nella mattinata un
volantino in carta lucida, delle
dimensioni
di 20 per 30 centimetri, con il bollo della Federazione dei Fasci di
combattimento di Addis
Abeba,
che diceva testualmente:
Camerati!
Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV cessi ogni e qualsiasi
atto di rappresaglia. Alle
ore
21.30 i fascisti debbono ritirarsi nelle proprie abitazioni.
SEVERISSIMI provvedimenti saranno
presi
contro i trasgressori. Le auto pubbliche, private, ed i camions (meno
quelli in servizio di Governo
e
Militare) debbono cessare la circolazione alle ore 21. Il Segretario
Federale 390
Il
commento di Ciro Poggiali era lapidario: «Evidentemente non vi sono
più né polli né talleri
da
razziare» 391. Quello di Dordoni rivelava una profonda indignazione:
«Lo lessi e lo rilessi. Non
credevo
ai miei occhi. Non credevo che, dopo una simile strage, si potessero
mettere in giro documenti
del
genere, che erano una palese autodenuncia» 392.
Volendo
dimostrare, ancora una volta, che lui era il più intransigente di
tutti, il 21 febbraio 1937
Mussolini
inviava a Graziani questo telegramma: «Nessuno dei fermi già
effettuati e di quelli che si
faranno
deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi
comunque sospetti devono
essere
passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma» 393. Il 26
febbraio, dopo che l’avvocato
militare
Bernardo Olivieri aveva rimesso a Graziani una relazione sul
complotto, secondo la quale
l’attentato
era maturato tra gli allievi della Scuola militare di Olettà (ma noi
sappiamo invece che era
stato
ideato e realizzato da tre sole persone), il viceré inviava a
Mussolini questo dispaccio:
Duce,
questa mattina sono stati passati per le armi quarantacinque fra
notabili e gregari risultati
colpevoli
manifesti dell’attentato del giorno 19. Sono ancora trattenuti al
ghebì circa duecentocinquanta
notabili
e rappresentanti del clero, per i quali mi riservo farvi proposte
394.
Ancora
oggi, nonostante il più facile accesso agli archivi italiani ed
etiopici, è impossibile
stabilire
il numero esatto delle vittime di quei tre giorni di repressione. Nel
memorandum presentato dal
governo
etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri delle potenze
vincitrici riunito a Londra nel
settembre
1945, si parla di «30.000 uccisi durante la strage del 1937» 395.
Ma è probabile che questa
cifra
comprenda anche le successive uccisioni di patrioti, religiosi,
indovini, cantastorie, eremiti legate
in
qualche modo all’attentato a Graziani. I giornali inglesi, francesi
e americani dell’epoca forniscono
cifre
che oscillano fra 1400 e 6000 morti. Quanto a Graziani, il 22
febbraio tracciava per Mussolini
questo
primo bilancio, che era estremamente riduttivo:
In
questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con
ordine di passare per le armi
chiunque
fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative
fossero incendiate. Sono
state
in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati
quasi altrettanti tucul 396.
Dietro
l’attentato del 19 febbraio 1937 non c’era alcun vasto complotto,
di lunga gestazione,
come
assicurava l’avvocato militare Olivieri. Ma l’affrettato e falso
responso di Olivieri faceva comodo
a
Graziani, che doveva portare a termine quel «radicale ripulisti»
ordinatogli da Mussolini, e che lui
stesso,
del resto, aveva suggerito. Come si è visto, il 26 febbraio faceva
fucilare 45 «fra notabili e
gregari
risultati colpevoli manifesti» 397. Altri 26 venivano assassinati
nei quattro giorni successivi. Con
queste
esecuzioni, Graziani liquidava parte dell’intellighenzia etiopica:
alti funzionari governativi,
giovani
ufficiali, stretti collaboratori dell’imperatore, giovanissimi che
si erano da poco laureati in Gran
Bretagna,
Francia, Stati Uniti a spese di Hailè Selassiè.
Non
era che l’inizio della repressione. Tra le varie proposte di
Graziani a Mussolini c’era anche
quella
«di radere al suolo tutta la vecchia città indigena e accampare
tutta la popolazione in un campo
di
concentramento» 398. Mussolini, una volta tanto, si opponeva al
mostruoso progetto, non perché gli
ripugnasse,
ma perché «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima
e non
raggiungerebbe
lo scopo» 399. Approvava invece la proposta del viceré di deportare
in Italia i notabili
che
erano ancora ammassati, dal giorno dell’attentato, nei sotterranei
del palazzo vicereale. Trasferiti in
volo
ad Asmara, il 7 marzo 187 notabili, 8 donne e 2 bambini venivano
imbarcati a Massaua sul
piroscafo
Toscana . Nei mesi successivi, con quattro navi, erano
deportati in Italia altri 200 aristocratici,
portando
così il numero complessivo a 400 400. «Gli elementi di scarsa
importanza ma comunque
nocivi»
401 venivano invece rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra,
in Eritrea, e di Danane, in
Somalia,
dove circa la metà moriva per malattia o per la scarsa e cattiva
alimentazione 402.
Risolto,
con la deportazione, il problema dei notabili scioani infidi,
Graziani poteva dedicarsi
con
maggiore impegno al «radicale ripulisti», cioè alla eliminazione
di ogni oppositore, vero o presunto
che
fosse. Si veda, per esempio, l’incredibile vicenda della strage di
indovini e cantastorie. Il 19 marzo
Graziani
notificava al ministro Lessona che gli organi di polizia gli avevano
«concordemente
segnalato»
che tra i «più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico»
erano da annoverarsi i
cantastorie,
gli indovini, gli stregoni, gli eremiti, che diffondevano ad arte
notizie false o catastrofiche,
come
l’imminente fine della dominazione italiana in Etiopia. «Convinto
della necessità di stroncare
radicalmente
questa mala pianta» continuava il viceré, «ho ordinato che tutti i
cantastorie, indovini e
stregoni
della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A
tutt’oggi ne sono stati rastrellati
ed
eliminati settanta» 403. «Approvo quanto è stato fatto circa
stregoni e ribelli» si affrettava a
rispondere
Mussolini. «Occorre insistere sino a che la situazione non sia
radicalmente e definitivamente
tranquilla»
404.
Graziani
non lo avrebbe deluso. «Dal 19 febbraio ad oggi» riferiva il 21
marzo a Mussolini
«sono
state eseguite 324 esecuzioni sommarie, tuttavia con colpabilità
sempre discriminata e
comprovata.
Ripeto 324, senza naturalmente comprendere in questa cifra le
repressioni dei giorni 19 e
20
febbraio» 405. Il 30 aprile i «provvedimenti di rigore» salivano a
710 406. Il 5 luglio, a 1686 407. Il 25
luglio,
a 1878 408. Il 3 agosto, a 1918 409. Poi il viceré cessava di tenere
questa macabra e ripugnante
contabilità,
ma da altre fonti sappiamo che le esecuzioni non conoscevano sosta ed
erano compiute
nella
più totale illegalità, senza istruttorie né processi, e spesso
senza la minima prova, qualche volta
per
vendetta, altre invece per coprire furti e rapine. Da una relazione
del colonnello dei carabinieri
Azolino
Hazon, apprendiamo che i soli carabinieri avevano passato per le armi
2509 etiopici tra
febbraio
e maggio 1937 410.
Analizzando
i dispacci che si sono scambiati Mussolini, Graziani, Lessona,
Cortese, e i
documenti
redatti dagli avvocati militari Olivieri e Franceschino e dal
colonnello dei carabinieri Hazon,
riflettendo
sul loro linguaggio, nel quale le espressioni più ricorrenti sono
«passare per le armi»,
«liquidazioni»,
«ripulisti», «rappresaglia», c’è da chiedersi quale Etiopia
stessero edificando e a chi
pensavano
di consegnare questo sterminato cimitero. Se qualche governatore,
come il generale Nasi,
tentava
di limitare l’entità delle stragi, veniva immediatamente
bacchettato da Graziani, che giudicava
insopportabile
l’indulgenza del sottoposto: «Ordino che i 54 elementi di cui al
comma primo siano
passati
senz’altro per le armi. […] Ugualmente siano passati per le armi
tutti gli indovini e gli stregoni.
[…]
Prego darmi assicurazione con la parola “liquidazione”» 411.
Ma
il peggio doveva ancora venire.
Dopo
aver esercitato la sua vendetta sulla nobiltà amhara, sugli
esponenti di spicco
dell’intellighenzia
etiopica, sui cadetti della Scuola militare di Olettà, sulla folla
anonima e miserabile
di
indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, nell’ultima decade di
maggio Graziani prendeva come
bersaglio
il clero cristianocopto e, in modo particolare, la città conventuale
di Debrà Libanòs.
L’incarico
di impartire questa nuova lezione veniva affidato al generale Pietro
Maletti, il quale, a
differenza
di Nasi, era un perfetto esecutore di ordini. Partito il 6 maggio
1937 da Debrà Berhàn,
attraversava
il Mens, dove la resistenza era capeggiata dal degiac Auraris Dullu,
comportandosi come
un
nuovo Attila. Se prestiamo fede ai rapporti da lui redatti, in due
settimane le sue truppe
incendiavano
115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael
(dopo averne fucilato i
monaci),
e sterminavano 2523 arbegnuoc . Era tale il terrore che Maletti
diffondeva che l’intera
popolazione
del Mens si dava alla macchia. «Non una persona venne a presentarsi
per atto di omaggio»
riferiva
il generale a Graziani; «tutti i non combattenti erano fuggiti col
bestiame e con le loro
masserizie,
occultandosi nei valloni, nelle pieghe del terreno, negli anfratti e
nelle numerose grotte
della
regione. I preti, spogliate le chiese, smesso l’abito talare, si
erano mescolati alla popolazione» 412.
Per
l’operazione contro Debrà Libanòs, che circondava nella serata
del 19 maggio, Maletti
rinunciava
a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da
cristiani, e utilizzava ascari libici e
somali,
di fede musulmana, e soprattutto
– sono
parole sue – «i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan:
1500 uomini armati di
pugnale,
di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni
vincolo formale tattico e guidati
dal
loro istinto infallibile» 413.
Situato
nello Scioa del Nord, il grande monastero di Debrà Libanòs era
stato fondato nel XIII
secolo
dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in
muratura, un migliaio di
tucul
abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un
centinaio di tombe di illustri capi
abissini,
a guardia delle quali stavano monaci e cascì (sacerdoti).
Mentre Maletti completava
l’occupazione
della città conventuale, riceveva da Graziani un telegramma che
diceva:
QUESTO
AVVOCATO MILITARE MI COMUNICA PROPRIO IN QUESTO MOMENTO CHE HA
RAGGIUNTO
LA PROVA ASSOLUTA DELLA CORREITÀ DEI MONACI DEL CONVENTO DI
DEBRÀ
LIBANÒS CON GLI AUTORI DELL’ATTENTATO. PASSI PERTANTO PER LE ARMI
TUTTI
I MONACI INDISTINTAMENTE, COMPRESO IL VICE-PRIORE. PREGO DARMI
ASSICURAZIONE
COMUNICANDOMI NUMERO DI ESSI. DIA PUBBLICITÀ AT RAGIONI
DETERMINANTI
PROVVEDIMENTO 414.
Per
la verità, le prove scoperte dal maggiore Franceschino erano
estremamente vaghe e, al
massimo,
avrebbero potuto riguardare uno o più monaci e non l’intera
comunità. Ma il viceré, da
tempo,
era persuaso che il convento fosse «un covo di assassini, briganti e
monaci assolutamente a noi
avversi»
415. Pertanto non provava alcuno scrupolo a ordinarne lo sterminio.
Poiché
Graziani aveva assicurato al ministro delle Colonie Lessona che «le
esecuzioni disposte
in
conseguenza del citato attentato saranno effettuate in luoghi isolati
e che nessuno
– ribadisco:
nessuno – può esserne testimone» 416, Maletti provvedeva nella
stessa giornata del
19
maggio a cercare un luogo adatto per il massacro. Lo scopriva a pochi
chilometri da Debrà Libanòs,
nella
località di Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da un anfiteatro di
cinque colline e a est dal
fiume
Finche Wenz, che defluiva nel burrone di Zega Wedem. Il luogo era
ideale perché disabitato e
per
di più era accessibile agli autocarri che avrebbero trasportato le
vittime.
Dopo
alcuni sommari accertamenti e la separazione dei religiosi dagli
occasionali pellegrini,
nella
giornata del 21 maggio Maletti trasferiva nella piana di Laga Wolde i
monaci selezionati. Nella
loro
precisa ricostruzione dei fatti, i due docenti universitari Ian L.
Campbell e Degife Gabre-Tsadik
riferiscono:
Le
vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte
allineare, con il viso a nord e la
schiena
volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila
lungo l’argine meridionale del
fiume,
che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli
ascari presero quindi un
lungo
telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui
prigionieri come una stretta
tenda
formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro 417.
Si
procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un
ufficiale italiano provvedeva a
sparare
il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari
toglievano il telone nero dai cadaveri
per
utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del
pomeriggio tutto era finito e
Graziani
poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale
Maletti «ha destinato al
plotone
di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti
di connivenza. Sono stati
risparmiati
i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che
verranno tradotti e trattenuti nelle
chiese
di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso
definitivamente» 418.
Ma
tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di
ras Hailù Tecla Haimanot,
il
più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e
inviava a Maletti questa nuova direttiva:
«Confermo
pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino
pertanto di passare
immediatamente
per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le
parole: “Liquidazione
completa”»
419. Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a
far scavare due profonde
fosse
in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella
mattinata del 26 maggio faceva
sfilare
davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la
cristianità non ricorda e non
piange
perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la
cifra dei giustiziati saliva a 449»
420.
Ma
la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte
superiore. Tra 1991 e 1994
i
due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell
e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik,
eseguivano
nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca,
interrogando monaci,
cascì ,
civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del
massacro. Dalle loro testimonianze
emergeva
che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600.
Successivamente, tra 1993 e
1998,
il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi
nella regione di Debrà Berhàn
per
trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto
riusciva a localizzare le due fosse
che
contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le
deposizioni di due testimoni oculari
che
avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta
di Campbell rivelava inoltre che
Graziani,
nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva
sostenuto il falso. Egli, infatti,
non
si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei
129 diaconi, ma gli aveva
ingiunto
di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di
teologia, monaci e sacerdoti che
appartenevano
ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs.
Per cui il bilancio
della
strage di Engecha saliva a 400 vittime 421 e quello complessivo della
rappresaglia contro la città
conventuale
di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e
2033 morti 422. Mai,
nella
storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno
sterminio di tali proporzioni.
A
differenza di altri massacri, dei quali Graziani cercherà in seguito
di scaricare la colpa su
Mussolini
e Lessona, oppure su alcuni suoi subalterni, quelli di Debrà Libanòs
e di Engecha non lo
inquietavano,
se ne assumeva l’intera responsabilità e se ne faceva anzi un
titolo di merito, anche se
mentiva
sul numero dei giustiziati. Scriveva in un suo memoriale:
Non
è millanteria la mia quella di rivendicare la completa
responsabilità della tremenda lezione data al
clero
intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debrà Libanòs,
che da tutti era ritenuto
invulnerabile,
e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei
monaci, a seguito delle
risultanze
emerse a loro carico. Ma è semmai titolo di giusto orgoglio per me
aver avuto la forza
d’animo
di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il
clero, dall’Abuna
all’ultimo
prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di
desistere dal loro
atteggiamento
di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente
distrutti 423.
Se
Graziani, con le selvagge repressioni del febbraio-maggio 1937,
contava di impartire agli
etiopici
una lezione durissima e indimenticabile, sbagliava i suoi calcoli. Le
violenze indiscriminate
ottenevano
al contrario l’effetto di spingere alla macchia tutti quelli che si
sentivano in qualche modo
minacciati,
di far cessare le sottomissioni, di convogliare nelle file degli
insorti anche le popolazioni
contadine,
che lamentavano i frequenti incendi dei loro villaggi. Con l’ingresso
nella resistenza di
nuovi
capi e di nuovi gregari, cambiavano radicalmente anche i metodi di
lotta. Era lo stesso Graziani
che
denunciava questo salto di qualità:
Le
formazioni ribelli si sono organizzate meglio dei reparti militari
regolari abissini che hanno preso
parte
alla guerra. Fra esse è stata instaurata una disciplina ferrea e
anche lievi negligenze e
disobbedienze
sarebbero punite con la morte. […] La tattica adottata dai ribelli
è di non farsi bloccare
dalle
nostre truppe, condurre la guerriglia in tutte le regioni allo scopo
di dimostrare che l’Etiopia non è
completamente
conquistata 424.
La
più vasta e indomabile rivolta si sviluppava nel Lasta. Nella
seconda metà di agosto del 1937
l’ex
governatore dell’Uag, degiac Hailù Chebbedè, invitava l’intera
popolazione della regione a
condurre
la “guerra santa” contro gli italiani e nel giro di pochi giorni
annientava il presidio di Amba
Uorc
e altri capisaldi vicini. L’incarico di braccare il degiac veniva
affidato al colonnello Tosti, al quale
il
generale Pirzio Biroli impartiva questi severissimi ordini: «Pertanto
catturi il capo ribelle Hailù
Chebbedè,
vivo o morto, impiccandolo poscia nella piazza di Socotà; passi per
le armi i capi secondari
importanti;
rada al suolo i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli»
425. Mussolini era furente.
Questo
impero che aveva tenacemente voluto e che ora minacciava di
travolgere le finanze dello Stato
per
il suo altissimo costo, era in perenne rivolta e disturbava i suoi
disegni in Europa. Il 15 settembre
inviava
pertanto a Graziani un telegramma dal tono poco amichevole e
ultimativo: «Io sono disposto a
mandare
battaglioni e aeroplani ma la rivolta deve essere stroncata con la
più grande energia e nel più
breve
tempo possibile. Non si perda altro tempo» 426.
Il
19 settembre, a più di un mese dall’inizio della rivolta, Graziani
riusciva finalmente a
completare
la radunata e a investire il territorio di Socotà con 13 battaglioni
di soldati nazionali ed
eritrei,
appoggiati da oltre 10.000 irregolari. Attaccato da più di 20.000
uomini, bombardato da terra e
dal
cielo, ipritato dalla 63ª squadriglia, Hailù Chebbedè, dopo un
aspro combattimento e un vano
tentativo
di rompere l’accerchiamento, veniva catturato dagli Uollo Galla del
colonnello Raugei e
immediatamente
passato per le armi. Ma non veniva «fucilato» come Mussolini
comunicava a re
Vittorio
Emanuele III. La sua fine era stata atroce, e il duce lo sapeva
benissimo perché Graziani la
descriveva
con macabra meticolosità in un dispaccio. Il degiac veniva in realtà
decapitato (ma il
chirurgo
Giuseppe Rotolo si era rifiutato di prestarsi alla bisogna) 427, e la
sua testa, infilzata su di una
picca,
veniva esposta nella piazza del mercato di Socotà e poi in quella di
Quoram.
Con
questo barbaro spettacolo, da solo in grado di demolire la
rispettabilità del vertice politico e
militare
del regime, si concludeva il vicereame di Graziani in Etiopia. L’11
novembre 1937 Mussolini
gli
inviava un lungo telegramma che aveva questo incipit: «Caro
Graziani, con la liquidazione ormai
sicura
e prossima dei conati di rivolta nell’Amhara e nello Scioa, ritengo
che il suo compito sia finito»
428.
Prima di lasciare Addis Abeba per fare ritorno in Italia, il
maresciallo inviava a Mussolini il suo
ultimo
rapporto, nel quale, per la prima volta, diceva la verità
sull’altissimo costo dell’impero in
uomini
e mezzi: «L’asprezza della lotta sostenuta in questi diciotto mesi
dalla occupazione della
capitale
[…] è sintetizzata nei 13.000 uomini perduti, tra nazionali e
coloniali, e 250 ufficiali, tre volte
cioè
le perdite avutesi nella grossa guerra» 429.
Mussolini
sostituiva Graziani con Amedeo di Savoia duca d’Aosta, un
personaggio di ben altro
spessore.
Ma sino all’ultimo era incerto se ritirare o no la sua fiducia in
quello che riconosceva come
l’italiano
nuovo, ardito, inflessibile, spietato. Il loro lungo sodalizio
verteva sul comune disprezzo per
gli
africani e sulla complicità nei più esecrabili crimini. Se non
avesse continuato a stimarlo, non si
spiegherebbe
perché lo avrebbe richiamato, nel 1940, per affidargli la difesa
della Libia. E perché,
dopo
la pessima prova nei combattimenti in Africa settentrionale, gli
avrebbe affidato il Ministero per
la
Guerra della Repubblica di Salò.
Ma
ancora una volta Graziani, l’italiano nuovo, lo avrebbe deluso.
Anziché condividere con
Mussolini
la fuga verso la Svizzera e la morte, si staccava dalla colonna dei
fuggiaschi e a Cernobbio si
consegnava
al capitano Emilio Daddario, dello stato maggiore dell’esercito
americano, salvando la vita.
Al
processo, fra le imputazioni, mancava ogni riferimento ai crimini
commessi in Africa. Inutilmente il
governo
etiopico avrebbe chiesto la sua estradizione. Oggi, a Filettino, suo
paese natale, è venerato
come
un santo 430.
370
B. Mussolini, Scritti e discorsi , vol. X, Scritti e
discorsi dell’impero, novembre 1935 - 4
novembre
1936 , Hoepli, Milano 1936, p. 118.
371
R. Carrieri, La più bella notte d’Italia , «Illustrazione
italiana», 17 maggio 1936.
372
DEPA, telegramma n. 5810 a Graziani, Addis Abeba.
373
Ivi, telegramma n. 6496, segreto, in data 5 giugno 1936.
374
Ivi, telegramma n. 6595, segreto, in data 6 giugno 1936.
375
Ivi, telegramma n. 8103, segreto, in data 8 luglio 1936.
376
F. Serra, La conquista integrale dell’impero , Unione
Editoriale d’Italia, Roma 1938, p. 138.
377
ASMAI, AOI, pos. 181/40, f. 195.
378
Governo Generale dell’Africa Orientale, Stato Maggiore, Il 1°
anno del-l’Impero , Tipolitografia
dell’Ufficio
superiore topocartografico, Addis Abeba 1939, telegramma n. 750/24,
allegato
1157,
p. 377.
379
«La Gazzetta del Popolo», 24 febbraio 1937. Pallotta era poco
informato. Ras Destà non fu
fucilato
a Buttagèra, ma impiccato, come ci ha rivelato un testimone
dell’esecuzione, il bresciano
Andrea
Callisto Scotti: «Ras Destà è stato impiccato e poi lasciato
penzolare dalla forca per un’intera
giornata.
Ho scattato della scena una fotografia» (TaA raccolta a Brescia il
10 febbraio 1980).
380
DEPA, telegramma n. 5007, segreto, cifrato.
381
Si veda R. Pankhurst, Nuove rivelazioni sull’attentato alla vita
di Graziani del 19 febbraio
1937 ,
«Studi piacentini», n. 36, 2004, pp. 141-144. Sino al 2004 il nome
di Semeon Adefres non era
mai
stato fatto.
382
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», telegramma n. 53956
del 19 febbraio 1937.
383
C. Poggiali, Diario AOI. 15 giugno 1936 - 4 ottobre 1937 ,
Longanesi, Milano 1971, p. 182.
384
TaA di Antonio Dordoni, raccolta a Addis Abeba il 26 marzo 1965.
385
Copie delle foto, donatemi da Alberto Imperiali nel 1980, sono
custodite nel mio archivio
fotografico.
386
Poggiali, Diario AOI , cit., p. 183.
387
TaA di Alfredo Godio, raccolta a Borgosesia (Vercelli) il 13 novembre
1979.
388
D. Galeazzi, Il violino di Addis Abeba. Uomo sulla soglia ,
Gastaldi, Milano 1959, p.105.
389
ACS, FG, b. 33, fonogramma n. 2296.
390
Un esemplare del volantino è conservato in ACS, FG, b. 33.
391
Poggiali, Diario AOI , cit., p. 186.
392
TaA di Dordoni, cit.
393
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
93980 del 21 febbraio 1937.
394
ACS, FG, b. 48.
395
Parte del memorandum, con tutte le cifre sulle uccisioni compiute
dagli italiani in Etiopia dal
1935
al 1941 e le richieste di risarcimento, è pubblicato in A. Del Boca,
La guerra d’Abissinia, 1935-
1941 ,
Feltrinelli, Milano 1965, pp. 283-284.
396
ACS, FG, b. 33, telegramma n. 9170.
397
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
9894 del 26 febbraio 1937.
398
Ivi, telegramma n. 10362.
399
ACS, FG, b. 34, telegramma n. 54599 del primo marzo 1937.
400
Sulla deportazione dei notabili etiopici in Italia si vedano ASMAI,
AOI, pos. 181/54, f. 250;
ACS,
FG, b. 34; A. Sbacchi, Italy and the Treatment of Ethiopian
Aristocracy, 1937-1940 , «The
International
Journal of African Historical Studies, X (1977), n. 2; P. Borruso,
L’Africa al confino. La
deportazione
etiopicain Italia, 1937-39 , Lacaita, Manduria 2003; M. Nasibù,
Le memorie di una
principessa
etiope , Neri Pozza, Milano 2005.
401
ACS, FG, b. 34, telegramma n. 20650 del 18 aprile 1937 di Graziani al
generale Santini.
402
Sul lager di Danane, si veda M. Dominioni, Le fotografie di Danane
nel contesto
dell’immagine
coloniale , «Studi piacentini», n. 36, 2004, pp. 213-226.
403
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
14044.
404
Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement
Impérial d’Éthiopie, La
Civilisation
de l’Italie fasciste en Éthiopie , vol. I, Berhanena Selam
Printing Press, Addis Abeba 1945,
telegramma
n. 27/M, segreto, del 20 marzo 1937, p. 64. Questo documento
governativo costituisce il
più
preciso e completo atto di accusa contro l’Italia fascista. Il
primo volumetto, di 144 pagine,
raccoglie
i telegrammi operativi che certificano gli arresti, le rappresaglie e
gli eccidi. Il secondo
volumetto,
di 62 pagine, raccoglie invece le fotografie allucinanti delle
esecuzioni in massa, delle fosse
colme
di cadaveri, delle forche a più posti, del-l’esposizione ostentata
di teste mozze. Pochissime righe
di
commento: «Non abbiamo voluto commentare questi documenti. Essi, da
soli, testimoniano ciò che
il
popolo etiopico ha sofferto a causa dell’Italia fascista. Noi li
sottoponiamo, nella loro aridità, al
giudizio
delle coscienze oneste, ed abbiamo il sacro dovere di chiedere, a
nome di tutte le vittime
innocenti,
la punizione per i colpevoli».
405
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
14440.
406
ASMAI, AOI, pos. 181/56, f. 267. Graziani a Lessona, telegramma n.
22583, segreto.
407
Ivi, telegramma n. 33911, segreto, del 7 luglio 1937.
408
Ivi, telegramma n. 36920, segreto, del 27 luglio 1937.
409
Ivi, telegramma n. 37784, segreto, del 4 agosto 1937.
410
ACS, FG, b. 30, f. 6, documento del 2 giugno 1937 dal titolo:
«Statistica dell’attività
dell’arma
dell’AOI nel 1° anno dell’Impero».
411
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
6246.
412
ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», b. 60, parte VI, cap. 2, p.
12.
413
Ivi, p. 14.
414
Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement
Impérial d’Éthiopie, La
Civilisation
de l’Italie fasciste , cit., p. 128, telegramma n. 25876.
415
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma di
Graziani a Lessona, n.
23260,
del 21 maggio 1937.
416
Ministry of Justice, Documents on Italian War Crimes Submitted to
the United Nations War
Crimes
Commission by the Imperial Ethiopian Government , vol. I, Italian
Telegrams and Circulars,
Addis
Abeba 1949, telegramma di Graziani a Lessona, 19 marzo 1937,
documento n. 28.
417
I.L. Campbell e D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in
Etiopia. La ricostruzione del
massacro
di Debrà Libanòs , «Studi piacentini», n. 21, 1997, p. 100.
418
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma di
Graziani a Lessona, n.
23260,
del 21 maggio 1937.
419
Département de la Presse et de l’Information du Gouvernement
Impérial d’Éthiopie, La
Civilisation
de l’Italie fasciste , cit., vol. I, telegramma n. 26609, p.
132.
420
ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», cit., parte VI, cap. 3, p.
29.
421
I.L. Campbell, La repressione fascista in Etiopia: il massacro
segreto di Engecha , «Studi
piacentini»,
n. 24-25, 1999, pp. 23-46.
422
Campbell e Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia ,
cit., p. 111.
423
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit.
424
ACS, FG, «Il 2° anno dell’Impero», cit., parte VII, cap. 1,
telegramma di Graziani al
Ministero
dell’Africa italiana, n. 32841, s.d.
425
Ivi, parte II, cap. 3, p. 39, telegramma n. 4450 del 30 agosto 1937.
426
Ivi, parte II, cap. 3, p. 72, telegramma n. 69335.
427
TaA di Giuseppe Rotolo, raccolta a Milano il 20 aprile 1984. Si
vedano in A. Del Boca, I
gas
di Mussolini. Il fascimo e la guerra d’Etiopia , Editori
Riuniti, Roma 1996, pp. 113-116, quattro
immagini
del corpo straziato del degiac Hailù Chebbedè riprese dal fotografo
Angelo Dolfo.
428
ACS, FG, «I primi venti mesi dell’Impero», cit., telegramma n.
72058, segreto, dell’11
novembre
1937.
429
DEPA, telegramma n. 58999 del 21 dicembre 1937.
430
Per un giudizio complessivo sul maresciallo Graziani si veda la voce
«Rodolfo Graziani» di
A.
Del Boca in Dizionario biografico degli italiani , vol. LVIII,
Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma
2002, pp. 829-835. Si veda anche I. Kali-Nyah, Italy’s War
Crimes in Ethiopia, 1935-1941 , The
Ethiopian
Holocaust Remembrance Committee, Chicago 2001.