Il comandante partigiano pluridecorato Mario Fiorentini il 7 novembre 2020 compie 102 anni. Auguri!!!!!
Il Comitato Provinciale dell'ANPI di Roma festeggia i 102 anni di Mario Fiorentini, partigiano pluridecorato e matematico di levatura internazionale.
La sua vita è "una odissea che avrebbe del leggendario se non fosse corroborata da incontestabili documentazioni" così Alfio Marchini e Giorgio Amendola riferendosi al periodo della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Ma questa "odissea leggendaria", trascorsa in gran parte a fianco dell'amatissima Lucia, venuta a mancare recentemente, dura tutt'ora e ci auguriamo possa durare ancora a lungo. Auguri Mario!!!
Abbiamo raggruppato alcuni articoli e interviste rilasciate da Mario sul periodo della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Sul web si trova molto altro materiale, anche di matematica (che è ciò a cui Mario tiene di più). Abbiamo aggiunto la descrizione delle gesta resistenziali fatta da Alfio Marchini e Giorgio Amendola come motivazione per richiedere una meritatissima medaglia d'oro (glie ne assegnarono tre d'argento).
Un grande protagonista della Resistenza, il partigiano Mario Fiorentini, racconta una straordinaria storia personale e collettiva di lotta al fascismo. E invita i giovani a «non dare per scontata la Costituzione e i suoi valori democratici»
«Provenivo da una famiglia di origine ebraica, durante gli anni dell’adolescenza per fortuna – non avendo fatto il liceo – non ero stato assorbito dal regime e dalla sua propaganda manipolatoria», racconta il partigiano Mario Fiorentini che il 7 novembre compie 102 anni. E ci immergiamo subito nella sua storia. Quando e perché il giovane Mario Fiorentini, nome di battaglia Giovanni, decise di entrare nella Resistenza e di far parte dei Gap? I fatti avvennero in modo molto precipitoso e ci trovammo in guerra. Io ero stato chiamato al servizio militare, ma una enterocolite mi aveva tenuto mesi a letto, altrimenti mi avrebbero spedito in Africa. La caduta del regime l’8 settembre 1943, risvegliò molte coscienze dal torpore imposto con la forza dal fascismo: quell’inevitabile indottrinamento dei giovani, era un atto deliberato per piegarne la coscienza ai voleri del regime. Dopo l’8 settembre crebbe la consapevolezza della necessità di agire, di non essere complici, anche sfidando le imposizioni dovute allo stato di guerra. Vivevamo in un clima di pericolo continuo: cercarono di portare via i miei genitori per deportarli ad Auschwitz e solo l’eroismo di mia madre salvò mio padre da morte certa, era la dimostrazione che dovevamo combattere per riconquistare una nuova dignità, una presa di coscienza personale della necessità di ribellarsi, non solo alle ingiustizie contro noi ebrei, ma soprattutto contro la barbarie della guerra in cui ci avevano trascinato con l’inganno.
Lo storico Claudio Pavone ha scritto che la Resistenza fu: guerra civile, guerra di liberazione e guerra di classe; secondo lei sono valide tutte e tre le interpretazioni? Sì certo, soprattutto fu una guerra di liberazione da un regime oppressivo le cui astute menzogne, diffuse tramite la pervadente propaganda di regime, con la crisi successiva agli anni di guerra, mostrarono tutte le proprie incoerenze e fragilità e misero in luce gli inganni abilmente nascosti al popolo.
Come si viveva e si moriva a Roma, durante i nove mesi dell’occupazione, sotto i bombardamenti, e perché i romani odiavano così tanto i tedeschi? Quando l’esercito nazista entrò a Roma, sfilarono silenziosamente nella città; io e Lucia, il giorno del loro arrivo in via Zucchelli, li vedemmo entrare quasi solenni, minacciosi e determinati, mi ricordo che dissi: “Siamo in un cul de sac, siamo in trappola, poiché i rischi che correvamo, avendo questo temibile nemico dentro casa”. Era un pericolo tangibile da cui non si poteva più scappare. Sapevamo che finire nelle loro mani equivaleva a essere torturati e uccisi, mi ricordo ad esempio un giorno, io e Trombadori che era il mio comandante, eravamo in un appartamento in via Giulia dove, in clandestinità, alcuni artificieri che facevano parte della Resistenza, confezionavano bombe rudimentali e altre armi, con cui avremmo potuto attaccare e difenderci dai nazisti. Quel giorno uscimmo giusto in tempo da quello stabile, dove, forse per colpa di qualche delatore, i nostri compagni vennero catturati e portati via. Sapemmo in seguito che, dopo essere stati torturati, vennero uccisi dai fascisti rimasti nella Capitale.
Questione di minuti… Per puro caso c’eravamo salvati: aleggiava questo pericolo incombente e oppressivo, per puro caso potevamo venir catturati, torturati e uccisi. Noi eravamo poco e male armati, anche perché, fino ai momenti difficili dello sbarco di Anzio non era visto bene il fornire di armi delle forze autoctone di Resistenza con fede politica comunista; poi la necessità ci fece superare questa iniziale diffidenza. La città era divisa in zone, per fortuna la popolazione era dalla nostra parte e ci dimostrò solidarietà in molti episodi; se li avessimo avuta contro, molti di noi sarebbero stati catturati. Combattevamo una guerra impari con un nemico armato fino ai denti e educato alla crudeltà spietata e marziale della disciplina militare nazista, dovevamo, seguendo le indicazioni anche degli alleati, cercare di colpire duramente per fiaccare le retrovie tedesche che spesso transitavano a Roma, dopo periodi al fronte impegnati nella guerra contro le forze alleate. Io credo che la città, ormai indebolita e terrorizzata dalle bombe, consapevole del cambio repentino rispetto alle bugie del regime fascista, non tollerasse più questi soldati che spadroneggiavano per Roma, ci fu una presa di coscienza, alcuni romani decidessero di ribellarsi e combattere nemico.
Come ha conosciuto Lucia Ottobrini, l’amore della sua vita? Con Lucia ci siamo conosciuti a un concerto di musica classica, che durante il fascismo erano tenuti a Roma all’aperto. Lei e la sorella Delia parlavano francese, ci siamo conosciuti che era giovanissima per un colpo del destino. Lei ricordava sempre che, dopo avermi conosciuto pensò «questo è il mio ragazzo» e infatti quel nostro amore, nato fra un conflitto e momenti di paura, affrontati con un coraggio incredibile, ci ha poi legato per tutta la vita avendo vissuto una guerra terribile e la morte di un figlio ventunenne.
Siete stati insieme più di 72 anni… Lucia è stata la persona più importante della mia vita, e mi ha permesso, non solo di combattere e rimanere salvo in una guerra straziante e terribile come la Resistenza, ma anche dopo, mi ha permesso di diventare l’uomo e il matematico che sono; credo di dovere a lei e ai suoi sacrifici tutto quello che ho ottenuto nella vita e soprattutto la consapevolezza che l’umanità che era nel suo cuore, ti permettono di restare umani e veri anche dopo aver affrontato tutte le tragicità, l’alsaziana che amava i tedeschi e combatteva i nazisti. «La guerra è morte» diceva sempre, perché per lei, cattolica, era impensabile per sopravvivere, dover combattere e difendersi da altri esseri umani, uomini che avevano scelto di essere soldati, che obbediscono agli ordini e forse anche per questo lei non amava parlare delle azioni che abbiamo dovuto compiere in quegli anni terribili.
Come ricorda Rosario Bentivegna (Paolo) e Carla Capponi (Elena) suoi compagni dei Gap? Di Bentivegna potrei dire tanto: all’inizio era osteggiato da alcuni nostri compagni in quanto trotskista, poi si è distinto in tante azioni insieme a noi, anche quella dall’esito tragico di via Rasella: in quell’azione, io ero contrario all’utilizzo del carretto e di quella quantità di esplosivo, pensavamo più a un’ azione dimostrativa, il comando invece insistette a procedere con quelle modalità, poi le bombe a mano legate alle cinture del battaglione Bozen ampliarono notevolmente l’esplosione. Si è parlato tanto di quell’azione e dei suoi effetti, col rastrellamento e l’eccidio delle Ardeatine; spesso s’è voluto far apparire una azione legittima, contro un nemico implacabile e determinato come un’azione di cui noi partigiani non volevamo prenderci la responsabilità; la verità fu che il comando tedesco dovette, per ordine di Hitler, compiere l’eccidio di nascosto, come reazione alle perdite di soldati tedeschi, con la famosa proporzione 10 italiani per ogni tedesco, compiendo un arbitrio e cercando poi di dipingerci come dei vigliacchi che non si erano presentati, mentre fu un’ azione premeditata da parte loro, fatta in segreto per evitare una sommossa popolare.
E Carla Capponi? Lei entrò nella Resistenza in seguito a delle riunioni tenute in casa sua: veniva da una famiglia borghese antifascista, loro vivevano vicino a piazza Venezia e in quella casa spesso si discuteva animatamente fino a tarda notte. Anche lei partecipò a molte azioni e fu molto coraggiosa, in una di queste, ci si erano inceppate le pistole e lei salvò la vita a me e Lucia colpendo a morte un ufficiale nazista; questo è solo un piccolo esempio di come, entrando nella Resistenza, le nostre vite erano legate ai nostri compagni e al proteggerci l’un l’altro.
L’azione di via Rasella fu atto di guerra riconosciuto da tutti i tribunali, ciò nonostante è stata oggetto di polemiche, soprattutto da certa stampa di destra che parla di responsabilità dei Gap nell’eccidio delle Fosse Ardeatine; vuole confermare ai nostri lettori quanto è già stato appurato sulla questione, perché ancora oggi molti parlano di manifesti e di inviti a presentarsi al Comando tedesco? La Resistenza e tutte le attività del Cln evitarono al Paese un numero ben maggiore di bombardamenti con molte più vittime fra i civili, quando l’esercito alleato risalì dal Meridione e poi con lo sbarco di Anzio. Il fatto di avere il nemico tedesco impegnato sia sul fronte alleato e anche in attività di contrasto alla guerriglia urbana interna, risparmiò dai bombardamenti gran parte della popolazione civile: spesso di questo non si tiene conto; quelli che parlano di questi inviti nazisti, cadono in un tranello molto abile messo a punto dagli occupanti. Fu un’attività di abile propaganda, nata per screditare le nostre legittime azioni di guerra e farci passare per terroristi, incuranti delle conseguenze delle nostre azioni, non fu diramato nessun comunicato, perché si sarebbero presentati moltissimi parenti dei rastrellati. Sulla legittimità del diktat imposto dai nazisti, lanciato per scoraggiare qualsiasi nostra azione con la minaccia della repressione sanguinosa, penso che chi dà per scontata una tale imposizione abbia dei pregiudizi di fondo. Per noi che ci eravamo ribellati al regime e vedevamo questo nemico invasore crudele e implacabile, c’era il rischio tangibile di venir imprigionati, torturati e uccisi e quindi non potevamo accettare quel diktat, era una necessità combatterlo, per sopravvivere. Tutta l’operazione di ritorsione brutale venne fatta di nascosto soprattutto per motivi militari e cercava di scongiurare che quell’ordine sanguinario potesse far rivoltare l’intera città contro di loro.
La mancata Norimberga italiana, cioè la mancata condanna dei fascisti, responsabili di crimini di guerra, ha ostacolato il ripristino della democrazia? Io sono stato insignito dal governo americano della medaglia Donovan, col grado di maggiore, come ufficiale coordinato dell’esercito americano di Liberazione per le numerose azioni soprattutto al Nord. Ma la Resistenza, che voleva ridare dignità alla nostra patria, non poteva cancellare l’errore dell’alleanza dei fascisti con i nazisti tedeschi. In seguito agli accordi di Parigi, l’Italia, come Paese sconfitto, avrebbe salvaguardato, sul piano legale e processuale, tutte le azioni compiute dai gruppi partigiani in guerra, in quanto ispirate alla collaborazione fra esercito di liberazione e alleati nel combattere i nazisti e liberarci dal fascismo. Questa risoluzione poneva però dei problemi sul piano pratico e anche politico. Innanzitutto occorreva creare un clima di riappacificazione e collaborazione nell’ottica di ricostruire un Paese distrutto da una guerra persa, e dovevamo ispirarci a quei valori di coesione sociale ed eguaglianza solidale, che erano stati manipolati dal corporativismo fascista sin dalle origini. I padri Costituenti avevano in mente il ripristino di tutti quei diritti che erano stati cancellati di fatto dal regime e che poi ispirarono le linee guida della nostra Costituzione . In secondo luogo l’Italia aveva vissuto per vent’anni in un regime che aveva imposto uomini nei ruoli chiave della gestione del Paese e una epurazione tout court, sarebbe stata complicata e irrealizzabile.
Ritenne giusta l’amnistia voluta da Togliatti nel 1946? Si è scelto, nella gestione della ricostruzione, di non guardare indietro e non cercare i colpevoli, eccezion fatta per le azioni più gravi, s’è cercato di credere alla buona fede che in futuro avrebbe animato le coscienze dei singoli e della collettività, tutti insieme per condividere pacificamente questa realtà nuova, non più sudditi di un regime, ma uniti per un bene comune: occorreva capire il cambiamento e Togliatti preferì cercare di mettere pace in un Paese dilaniato da una guerra civile, guardando al futuro e confidando che, tolte le storture del regime, la nostra nuova Repubblica avrebbe reso efficienti le nuove regole e più giusta la società. D’altronde gli ideali di progresso materiale, ispirati alle idee socialiste di evoluzione industriale di un Paese moderno, dovevano, col benessere materiale, creare le condizioni politiche per le scelte dei nuovi governi che dovevano guidare il Paese.
Lei è stato grande combattente ma anche un matematico di fama internazionale; quale importanza ha avuto questa scienza nella sua vita? La matematica è stato l’inizio della mia terza vita dopo l’amore per la cultura, la frequentazione degli ambienti artistici italiani e la lotta di Resistenza fatta per salvaguardare la nostra patria. La mia nuova vita da matematico fu una vera avventura: devo a mia moglie Lucia, oltre che ai miei sforzi, il fatto di aver potuto studiare in quegli anni difficili, mentre lei si occupava della famiglia e lavorava. Ero uno studente lavoratore con famiglia, i maestri di quegli anni mi fecero scoprire un modo nuovo di vedere il mondo e la bellezza della logica matematica; mi sono inoltrato nel campo della geometria algebrica, venendo a conoscenza delle teorie matematiche allora all’avanguardia del gruppo dei Bourbaki e di Groethendiek. E ho impegnato tutta la mia vita, dal dopoguerra in poi, nello studio, scrivendo teoremi e incontrando professori e studenti impegnati nella comprensione di questa affascinante materia. “La serva padrona”, la definisco scherzando, poiché la logica che la sottende e i risultati puntuali che si cerca di ottenere permettono una visione più ampia e di intersezione con il pensiero umano. Viviamo in un’epoca di collaborazione e scambio di conoscenze e aver studiato e poi insegnato matematica mi ha permesso di vivere questo nuovo clima di collaborazione fruttifera anche fra Paesi, dopo gli anni bui del fascismo e dei suoi baroni universitari: è stata una fortuna poter incontrare e scambiare esperienze con tanti professori di studi matematici, in ambito internazionale, forse uno degli arricchimenti maggiori della mia vita.
Lo studio della storia e una corretta informazione, potrebbero contrastare questa sciagurata avanzata delle destre nel nostro Paese? È molto difficile dirlo, probabilmente sì. Il regime democratico e la situazione internazionale hanno in sé gli anticorpi e le regole per contrastare questi populismi nazionalisti che stanno facendo proseliti, occorre avere delle chiavi di lettura della storia il più possibile complete e approfondite, le motivazioni che indussero un popolo a cedere progressivamente libertà, diritti e democrazia ad un regime fascista. L’Italia del tempo doveva scongiurare il rischio bolscevico, ma un filo che lega i totalitarismi europei del ’900 fu costituito da un insieme di fattori: innanzitutto aderirono alle dittature tutti quei Paesi in mano alle monarchie più retrive e belligeranti, le nazioni democraticamente meno sviluppate e dove un certo tipo di coscienza di classe e lo status quo erano più forti, inoltre sia i ceti militari in Russia, che i reduci in Italia, appartenenti ai Fasci di combattimento, furono fra i protagonisti di questi attacchi alla democrazia rappresentativa; poi ci furono la guerra civile in Spagna e le lotte fra socialisti e fascisti in Italia, in particolare l’inganno semantico operato dal regime con il Manifesto del fascismo, cercò di illudere il popolo che le istanze egalitarie collettiviste si sarebbero sposate con lo status quo dei ceti elevati. Questa menzogna veicolava un concetto usato ancora oggi dalla propaganda. Il nazionalismo pone l’individuo sempre nella difesa del suo passato, della sua identità, è una logica che guarda indietro. Se si pensa invece a figure come Giorgio Marincola, un partigiano di origine somala che ha combattuto per la liberazione dal fascismo, pagando con la vita, negli ultimi giorni di guerra, si capisce quanto siano universali le lotte per la libertà di tutti e lo sguardo al futuro.
Come possiamo avvicinare i ragazzi e le ragazze di oggi, ai valori resistenziali e della sinistra? Innanzitutto occorrerebbe applicare la nostra Costituzione, i valori democratici che essa rappresenta e che spesso le nuove generazioni danno per scontata. Per questa nostra Carta sono morti molti compagni e compagne. Bisogna studiare la storia cancellando l’idea fasulla che il fascismo rappresenti l’anno zero del nostro Paese. L’Italia ha vissuto gli anni più bui, dopo le lotte risorgimentali e la guerra mondiale, sotto il fascismo; il sacrificio di Matteotti, di Gramsci e di tutti i partigiani torturati e uccisi dovrebbero far riflettere molto di più i giovani e magari avvicinarli a figure come quella di Calamandrei.
Oggi in molti si battono per l’ambiente, la pace, i diritti umani, contro le disuguaglianze, e il razzismo; sono questi i nuovi partigiani? Le nuove sfide che ci attendono in questa crisi sono più complesse e impegnative che mai. La pandemia di oggi ha mostrato che una società deve coniugare solidarietà e rispetto delle regole, se vuole superare integramente gli sconvolgimenti di una crisi sanitaria. Nella crisi pandemica attuale, un regime dittatoriale sembra uscirne indenne con le condizioni sanitarie imposte; credo sia questo un segno tangibile dei rischi che corriamo, ancora una volta, come un secolo fa. La grande sfida delle democrazie occidentali oggi, è quella di non farsi accecare dalla falsa sicurezza di una dittatura, dal potere dell’uomo forte, ma di cercare una forma di sviluppo e cooperazione, che non porti le potenze mondiali al confronto militare per l’egemonia delle risorse materiali e dei mezzi di produzione.
Recente intervista di Fabrizio Rostelli su il Manifesto del 4 novembre 2017:
Mario Fiorentini, le memorie
Intervista. Incontro con l'ultimo gappista romano che compie 99 anni il 7 novembre
Via Rasella, gli attacchi al cinema Barberini, alla caserma Giulio Cesare e all’hotel Flora, il carcere di via Tasso, l’incursione a Regina Coeli, via Margutta, le Fosse Ardeatine. Mario Fiorentini è ancora lì, con la sua memoria, noncurante del tempo e delle primavere che si susseguono. Lo incontro a casa sua, a pochi metri da quella via Rasella che ha segnato indelebilmente la storia d’Italia. Non ci vediamo da un paio d’anni, Mario è seduto su una poltrona, nel suo studio zeppo di libri introvabili, di foto e di appunti; mi scruta con curiosità con i suoi occhi azzurri e mi domanda con la sua tipica cordialità: cosa vuoi sapere da me? In un attimo ho la sensazione di trovarmi al cospetto di un oracolo. “Lo sai che sono l’ultimo dei gappisti romani ancora in vita? Eravamo 48, ora sono rimasto solo io”.
Mario Fiorentini, classe 1918, la storia dell’ultimo secolo non l’ha vista solo scorrere, come quando a 4 anni fu testimone della marcia su Roma, lui è uno dei pochi che può affermare di averla attraversata, scritta e di custodirne un vivo ricordo. Sembra tenere sulle spalle il peso dell’intero ‘900. Come il marziano di Flaiano – suo caro amico – sembra un essere al di fuori del tempo che si aggira tra le strade di Roma. Chi lo conosce sa quanto sia difficile contenere le conversazioni negli argini di un solo tracciato narrativo poiché i ricordi, ancora lucidissimi, portano la memoria a compiere dei salti logici e temporali che solo chi possiede una discreta conoscenza dei fatti storici può seguire.
Fiorentini ama definirsi “l’uomo dalle tre vite”: l’intellettuale, il partigiano gappista e il matematico. Prima della resistenza armata al nazifascismo, di cui è stato un rappresentante di spicco, Fiorentini frequenta l’ambiente culturale e intellettuale romano degli anni ’30 e ’40. Via Margutta, Villa Strhol Fern ma anche le serate di cultura cinematografica a Palazzo Braschi (sede del Partito Fascista) e i littoriali della poesia. “Frequentavo scrittori e poeti come Pratolini e Penna, pittori del calibro di Vedova, Turcato e Guttuso, registi come Visconti, Petri e Lizzani, che era un amico di famiglia. Discutevamo di attualità politica e sociale. Se culturalmente il franchismo e l’hitlerismo sono state due storie ignobili, la cultura italiana non è stata negletta dal fascismo”. Riesce, da autodidatta, a costruirsi una cultura umanistica invidiabile che lo porta a costituire con Plinio De Martiis “una compagnia di teatro che si proponeva di portare il teatro d’impegno in ambienti dove non era conosciuto. Solitamente si andava all’Argentina, al Valle, noi siamo andati in periferia. Una volta abbiamo fatto irruzione al sindacato fascista professionisti ed artisti che aveva sede in via Sicilia. Ho letto un proclama ‘a nome del teatro rivoluzionario’ perché volevamo portare l’innovazione sul palcoscenico, eravamo contrari al fatto che il teatro fosse il regno dei primi attori come Benassi, Zacconi, Musco o Ricci. Rivendico inoltre di aver messo in orbita come attore professionista Vittorio Gassman che al cinema Mazzini, con la nostra compagnia, fu protagonista di una meravigliosa interpretazione dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello”. Il progetto non decolla e viene allestito solo un altro spettacolo di Cechov al Teatro delle Arti. “Gassman avrebbe dovuto saltare sopra un tavolo e cantare l’Internazionale in francese”. Della compagnia facevano parte tra gli altri: Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Mario Landi, Lea Padovani, Vittorio Caprioli e Ave Ninchi. La coscienza antifascista di Fiorentini cresce progressivamente. “Il mio impegno antifascista resistenziale è iniziato nel ’38, quando, con la promulgazione delle leggi razziali, è scattata la macchina infernale delle persecuzioni anti-ebraiche. Mio padre era ebreo ma non di osservanza, era un libero pensatore come me. I miei genitori decidono di lasciare a me la scelta religiosa e non mi circoncidono né mi battezzano. Io, un po’ donchisciottesco, quando vengo a sapere delle persecuzioni contro gli ebrei mi reco dal rabbino capo di Roma Sacerdoti e chiedo di diventare ebreo. Il rabbino mi dice che dovevo essere per prima cosa circonciso e mi fa desistere, salvandomi dalle deportazioni. In seguito i miei anziani genitori vengono catturati dalle SS ma riescono a fuggire”. Fiorentini entra in contatto con il circolo di Giustizia e Libertà, dal quale poi nascerà il Partito d’Azione, grazie all’amico Fernando Norma. L’Italia entra in guerra e gli eventi precipitano.
Nel 1942, durante un concerto, avviene l’evento che più di altri sconvolgerà la sua vita: l’incontro con Lucia Ottobrini. Da quel momento Mario e Lucia non si sono più lasciati “ci siamo tenuti sempre per mano. Ci chiamavano le volpi argentate perché insieme abbiamo quattro medaglie d’argento al valor militare”. Lucia è venuta a mancare il 26 settembre 2015. Nel ’43, prima dell’armistizio, insieme ad altri antifascisti costituisce il movimento degli Arditi del Popolo, ispirandosi agli Arditi che per primi si erano opposti in armi alle violenze fasciste negli anni ’20.
L’8 settembre inizia formalmente la seconda vita di Mario. “Hanno scritto che i tedeschi, quando sono entrati a Roma, sono stati rumorosi. Non è vero. I carri armati sfilavano ed i tedeschi avanzavano in silenzio, sembrava uno spettacolo di teatro. Lucia era alsaziana, veniva dalla Francia e aveva visto l’entrata di Hitler. Eravamo in via Zucchelli, sgomenti, la prendo per mano e le dico: ‘Nous sommes dans un cul de lampe’. Sinisgalli ha descritto magnificamente la nostra impotenza. Prendo Lucia e saliamo di corsa fino ad arrivare a Piazzale Flaminio. Capiamo che il nostro obiettivo è reperire armi. C’era una catastrofe, l’esercito si era sciolto. All’epoca si trovavano ancora le caserme con le armi dentro, abbiamo la fortuna di recuperare una cassa di bombe a serramanico tedesche (ride ndr), erano perfette, non erano come quelle italiane che facevano un po’ di botto e potevano ferire una persona, queste erano più potenti. Nascondiamo le armi nelle case, questo è stato il primo armamento”.
Alla fine di settembre il Partito Comunista costituisce i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) operanti in ognuna delle otto zone in cui il movimento della Resistenza aveva diviso Roma. “Io ero il vice comandante dei GAP della IV zona- centro storico, Lucia agiva con me. A metà ottobre, dopo un incontro con Nicli, Salinari e Cortini, decidiamo di fondare i GAP centrali: elementi particolarmente arditi, che già si erano distinti in azione, si dovevano isolare, staccandosi dalle zone per compiere le azioni più rischiose e difficili. Io assumo la direzione della formazione Antonio Gramsci. Trombadori, che aveva il comando militare, dopo aver visto in azione me e Lucia capisce che i gappisti devono agire in coppie uomo-donna e così si costituiranno altre tre coppie: Calamandrei e Regard, Bentivegna e Capponi, Borghesi e Musu”.
Da quel momento iniziano a vivere in clandestinità, ad andare in giro sempre armati e ad assumere nomi di battaglia. Fiorentini assumerà quattro nomi diversi durante la Resistenza: Giovanni, Fringuello, Gandi e Dino. “Siamo stati i primi in Italia ad organizzare la guerriglia urbana, inizialmente attaccavamo dall’alto lanciando bombe, istruiti dal prof. Gesmundo. Abbiamo colpito a Colle Oppio e al Muro Torto ad esempio. Il nostro obiettivo era impedire che i tedeschi si sentissero padroni di Roma, che spadroneggiassero. Ho avuto più contatti di altri con Bandiera Rossa perché non avevo una visione ristretta della Resistenza ma la ritenevo un fatto corale. A livello di gappismo, noi abbiamo rappresentato l’episodio storicamente più rilevante e anche più illuminante. La mia storia è completamente diversa da quella di Pesce. Lui vedeva la guerra in ottica rivoluzionaria, come uno scontro tra comunismo e fascismo, aveva una componente anticapitalista e di lotta di classe, per noi i nemici erano soprattutto i nazisti”.
I GAP centrali organizzano decine di azioni militari e Fiorentini rischia la vita più volte, come quando attacca il carcere di Regina Coeli in bicicletta. “Dovevamo far sentire la nostra voce a Pertini, Saragat e agli altri antifascisti in carcere. Il piano era lanciare, in corsa, uno spezzone di esplosivo davanti all’ingresso del carcere, durante il cambio della guardia. Decido di agire da solo per non far rischiare la vita anche agli altri. Ho sfidato la morte tante volte e la fortuna mi ha sempre assistito”. È il 28 dicembre 1943. Subito dopo l’attacco viene emanata un’ordinanza che vieta la circolazione delle biciclette ma “i romani aggirano il divieto aggiungendo una terza ruota, trasformando le bici in tricicli”.
Con lo sbarco degli Alleati ad Anzio i GAP centrali vengono sciolti e Mario e Lucia continuano ad operare nei quartieri popolari del Quadraro e del Quarticciolo. Ottobrini ripeteva spesso che la guerriglia urbana è stata “fame, freddo, umidità e sudiciume”.
Tra arresti e fucilazioni i GAP centrali si ricostituiscono nel febbraio ’44 e riprendono le azioni. “I gappisti romani hanno neutralizzato tre battaglioni. Il battaglione Onore e Combattimento, il Barbarico e il Bozen. Il primo lo abbiamo attaccato a via Tomacelli, con bombe da mortaio Brixia modificate per essere lanciate a mano. Su Il Messaggero c’era un articolo in cui si diceva che chi avesse consegnato gli autori dell’attacco avrebbe ricevuto una ricompensa di 500mila lire. Nessuno ci ha denunciato”.
Via Rasella. L’episodio e le sue conseguenze sono state raccontate in modo ineccepibile da Alessandro Portelli nel libro “L’ordine è già stato eseguito”. Fiorentini è il primo ad avvistare il battaglione Bozen sfilare per il centro di Roma e su indicazione di Salinari predispone un attacco in Via delle Quattro Fontane. “Il mio piano era molto astuto e scaltro. Il comando decide però che l’attacco doveva avvenire in via Rasella. Ero contrariato perché quella era una zona che frequentavo, lì avevo avuto addirittura delle riunioni con elementi della sinistra cristiana e di Bandiera Rossa. C’era una cellula di operai comunisti. E poi non volevo che altri decidessero le nostre azioni. Non si è mai capito esattamente da dove fosse venuta la decisione di cambiare il modo di attacco, io sospetto ci fosse una talpa nel comando cittadino. Preparo un nuovo piano con delle cassette di esplosivo ma il partito voleva colpire il 23 marzo perché era l’anniversario della costituzione dei Fasci di combattimento. Gli spezzoni però non erano ancora pronti, a quel punto si è deciso di utilizzare il carretto con l’esplosivo”. L’attacco è eseguito con successo senza alcuna perdita tra i gappisti, il battaglione viene sbaragliato ed i nazisti rispondono immediatamente con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. “Gli Alleati ci avevano inviato dei segnali, ci avevano detto ‘colpite duro’ perché siamo in gravi difficoltà sul fronte di Anzio. L’azione con il carretto ha avuto effetti più devastanti del piano ideato da me. Quando Kappler viene informato dal questore che l’azione era stata eseguita da ragazzi e ragazze, che avevano attaccato con delle bombe a mano e non con dei mortai, rimane sconvolto. Non pensava alle donne, non c’è una donna alle Fosse Ardeatine”. Quella di via Rasella è la più audace azione di guerriglia partigiana in Europa ed ha effetti sconvolgenti sull’opinione pubblica e sul comando tedesco. “Da quel momento le truppe tedesche non sfilano più all’interno della città e per questo potevano essere attaccate più facilmente sulle strade provinciali”. Chiedo a Mario perché non ci siano mai state rappresaglie prima di questo attacco. “Non volevano far sapere che c’era una resistenza armata. I tedeschi hanno spesso compiuto eccidi sulla gente inerme, non perché i partigiani attaccavano”.
Dopo una nuova ondata di repressione, dovuta anche al tradimento di Guglielmo Blasi, i GAP centrali si sciolgono di nuovo. Fiorentini prima opera in Sabina organizzando attacchi contro le autocolonne tedesche e poi inizia a collaborare con l’Office of Strategic Services – OSS americano, realizzando azioni di intelligence. Dopo la liberazione di Roma Fiorentini decide di continuare la lotta contro i nazifascisti nel Nord Italia, arruolandosi nell’OSS. Viene paracadutato tra Liguria ed Emilia. “Lucia confezionerà il suo vestito da sposa con la seta del mio paracadute”. Fiorentini è un narratore instancabile e con entusiasmo mi racconta gli episodi più arditi delle sue missioni, l’evasione rocambolesca dal carcere di San Vittore, le amicizie con i compagni di lotta, il tentativo di liberare Mussolini dai partigiani per conto degli Alleati.
Il 7 novembre di quest’anno ricorre il centenario della rivoluzione russa e Mario, nato ad un anno esatto dallo scoppio dell’insurrezione bolscevica, ricorda i suoi compleanni durante la guerra: “Nel ’43 ci siamo ritrovati in una trattoria a Roma. Abbiamo cantato i cori partigiani francesi con Bentivegna, festeggiando il 7 novembre sovietico come nazione in guerra contro i tedeschi. È stata una nottata fantastica. Nel ’44 ero al San Gottardo, al comando della 52 brigata Garibaldi, quella che ha arrestato e fucilato Mussolini. Abbiamo fatto una grande festa e io ho cantato una canzone partigiana in russo. C’erano anche Gianna (Giuseppina Tuissi ndr) e Neri (Luigi Canali ndr), la coppia partigiana più infelice e sfortunata d’Italia, uccisi dai partigiani comunisti perché coinvolti negli avvenimenti di Dongo. Nel ’45 invece ho festeggiato a Roma. Il Partito Comunista ha organizzato una grande festa a via Gaeta dove sono stato invitato insieme a tutti i politici”.
Dopo la guerra Fiorentini si laurea, “nel ’71 senza l’appoggio dei baroni ottengo la cattedra di professore ordinario di Geometria superiore all’Università di Ferrara” e successivamente diventa un matematico di fama internazionale. Qui inizia la terza vita, ma questa è un’altra storia.
Prima di salutarmi, Mario apre il blocco dei suoi appunti per leggermi un passo, scritto prima della scomparsa di Lucia, che credo sintetizzi al meglio la sua umanità. “Mi chiedete se la felicità fa parte del mio presente. Nel rapporto con la compagna della mia vita posso parlare di felicità realizzata. 70 anni di matrimonio d’amore con Lucia Ottobrini, ci siamo tenuti per mano fino all’ultimo giorno. Se mi guardo intorno, se rifletto sulle guerre provocate dagli uomini, sull’avidità dei reggitori dei Paesi opulenti, sui disastri provocati da una politica ambientale suicida, su quanto è avvenuto in Asia e soprattutto in Africa negli ultimi decenni, allora mi sento pervaso da una grande e sfuggente infelicità. Non sono felice ma sono sereno perché mi sono realizzato come studioso molto al di sopra delle mie aspettative e anche perché Lucia ed io abbiamo sempre remato affinché il battello della nostra vita e degli altri avanzasse. Per quanto abbiamo potuto abbiamo sempre aiutato il nostro prossimo. Su questo punto Lucia ed io non abbiamo nulla da rimproverarci, tutto quello che abbiamo avuto lo abbiamo conquistato con l’atteggiamento di chi ritiene che nulla ci era dovuto. Lucia ed io ci avviciniamo al capolinea con grande serenità”.
Se dovessi sintetizzare, direi che sono una persona normale che in due periodi della mia vita, per effetto di una straordinaria volontà, sono riuscito a realizzare cose per me importanti, e mi riferisco ai venti mesi della guerra di liberazione in Italia e agli anni del mio impegno scientifico e accademico come matematico. La mia storia politica inizia nel 1941. Del fascismo conoscevo soltanto quello che allora veniva rappresentato pubblicamente non avendo, come quasi tutti, la benché minima cultura politica per capire già allora cosa realmente fosse. Anch’io come tutti i ragazzi del tempo fui condizionato dalla propaganda patriottarda; ricordo una professoressa che ci recitava spesso: «… non vedo più relegato nelle lontananze dell’avvenire il giorno in cui i gonfaloni dei combattenti precederanno le bandiere lacere e gloriose…» e via dicendo. I fascisti sostenevano che avevano salvato il paese dal baratro in un momento di grande confusione, quando le istituzioni non funzionavano. Questa propaganda, unita a orientamenti e a venature di stampo sociale, in una prima fase apparentemente molto sentite e successivamente sacrificate dagli stessi fascisti all’esigenza di conservare il potere, faceva sì che il fascismo riscuotesse un consenso generalizzato.
Premetto che il fascismo a mio avviso non può essere giudicato in blocco, innanzitutto perché ci sono stati tanti fascismi. Per intenderci: il fascismo italiano, quello rumeno, quello portoghese sono tre esperienze differenti.
Nel 1941, come dicevo, ho avuto i primi contatti che risulteranno poi fondamentali per la mia esperienza politica. Innanzitutto con Fernando Norma, che aveva uno studio di ebanista nel quartiere romano di Prati ed abitava in via Arco della Ciambella, singolare strada romana alla quale è dedicato un suggestivo romanzo autobiografico di Giovanni Gaglioffi. Poi Paolo Emilio Manacorda e, a Positano, con Sibilla Aleramo e Franco Matacotta, poeta e più tardi partigiano a Roma e nelle Marche. Nella seconda metà del 1941, partecipai attivamente alle vicende politiche; conobbi Fabrizio Onofri, Valentino Gerratana, Mario, Enrico e Carlo Socrate, Mario e Carlo Lizzani, Ruggero Iacobbi, Ennio de Conciasi, Giuseppe de Santis, Gerardo Guerrieri, Giuseppe Antonella e tanti altri.
Ebbi qualche contatto con Guido Carli con il quale intrattenni alcune discussioni su argomenti letterari, economici e politici. Con Ennio de Concini portammo avanti discorso di rinnovamento del Cinema italiano auspicando l’apertura verso temi sociali e di forte impegno civile e di rinnovamento della Chiesa. Ebbi vari contatti con Luchino Visconti al quale proponemmo soggetti cinematografici che non furono realizzati, ma credo su di lui qualche influsso lo ebbero certamente anche a giudicare dal favore che sempre mi accordò più tardi, quando iniziai la guerra clandestina. Ruggero Iacobbi allora fu un personaggio chiave al centro del mondo della letteratura, delle arti figurative, del teatro, del cinema, e della musica. Poi Vasco Pratolini e Franco Calamandrei che furono inquadrati nelle file della Resistenza romana e svolsero la loro attività di Gappisti soprattutto nella Terza zona. Le idee politiche che circolavano allora? Fernando Norma, che fu ucciso alle Fosse Ardeatine, era un repubblicano di antica tradizione poi passato a Giustizia e Libertà. Paolo Manacorda, in un primo tempo era liberale con influenze risorgimentali e socialiste; poi insieme simpatizzammo per il nuovo Partito Comunista.
Come ha vissuto la notte del 25 luglio del 1943, quando cadde Mussolini?
Appena appresa la notizia alla radio ero in piazza a manifestare nelle vie di Roma con Plinio de Martis. Eravamo pochissimi, al centro della città, gridavamo slogans contro Mussolini e la guerra. Fu un crescendo fantastico. Dapprima credevamo di trovare una resistenza da parte dei fascisti, ma le case del fascio o erano chiuse o furono attaccate e danneggiate.
Poi ci fu l’otto settembre, l’Armistizio. Furono settimane di grande incertezza e confusione. Ci furono incontri febbrili di gruppetti e non sapevamo come comportarci soprattutto nei confronti dei militari visto che eravamo in regime militare e di guerra. Con Antonio Cicalini e Antonello Trombadori, Fernando Norma e qualche militare che agiva sotto stretto incognito e qualche cristiano sociale come Rodano, Tatò, e Ossicini costituimmo gli «Arditi del Popolo». Era importante sottolineare il carattere popolare e interpartitico di questa organizzazione, il cui principale obiettivo era quello di riscattare l’Italia dalla vergogna del fascismo. Ricordo anche che effettuammo una specie di parata militare in Viale Giulio Cesare. Noi sfilavamo in gruppetti, Lucia Ottobrini, unica donna, era al mio fianco, dietro di noi c’erano elementi del partito d’azione e altri. Non eravamo armati, ma aleggiava in noi un po’ lo spirito dell’alleanza popolare antifascista in Francia, e in Spagna del Fronte Popolare.
Nella giornata del 9 settembre ero nella zona ostíense mentre infuriavano i combattimenti a Porta San Paolo. In quella giornata, mentre si stava compiendo lo sfacelo dell’esercito italiano col Re in fuga, Roma tentò di resistere ai tedeschi con una straordinaria unità ira militari (in particolare granatieri ma anche nuclei di carabinieri e popolazione civile. Il ricordo di Porta San Paolo è per me soprattutto il ricordo di volti. La figura allampanata di Alcide Moretti, operaio antifascista altissimo dal volto scavato; accanto a lui Adriano Ossicini e anche Tonino Tatò e Giuseppe Gozzer.
Quello stesso giorno attaccammo una piccola caserma in Via Rasella dove erano custodite delle armi e alcuni fucili. La caserma era presidiata da un colonnello in divisa e tre militari che si opposero energicamente. Ci fu una colluttazione furibonda tra me e i militari e nel frattempo i miei compagni rapinarono il grosso delle armi. Proprio di fronte alla caserma abitava un operaio della Breda con la sua famiglia e nella sua casa Tonino Tatò ed io avevamo fatto delle riunioni clandestine. Quell’uomo mi disse che la folla che assisteva tutto intorno era rimasta impressionata dal fatto che io, nonostante fossi magrissimo e pallido in viso essendo in convalescenza, avevo dimostrato un’energia impensabile lottando con quei militari, fisicamente più robusti di me.
Ricorda l’entrata dei tedeschi a Roma?
È stato questo uno dei momenti più drammatici. Ero in via del Tritone e una colonna imponente di carri armati prendeva possesso della capitale. Fui colto da una furia incontenibile a cui però seguì una fase di lucidità. Pensai che eravamo come in fondo a un pozzo, immersi nella melma fino alla cintola. Inglesi e francesi ci avversavano perché avevamo assecondato Hitler in una guerra sciagurata; i tedeschi ci odiavano perché si ritenevano traditi. L’unica strada da seguire era schierarsi decisamente nel fronte degli alleati combattendo una guerra senza quartiere contro i tedeschi. Non attesi che la colonna terminasse di sfilare, presi per mano Lucia (Ottobrini) e con lei mi recai alla periferia di Roma, alla Madonna del Riposo, sulla Via Flaminia, alla Pineta Sacchetti, a Monte Mario a fare incetta di armi. Fu una mia idea quella di concentrare gli sforzi per impossessarci di bombe di ogni tipo. A parte le bombe tedesche e italiane che erano più o meno conosciute, ricordo che ci procurammo anche bombe cecoslovacche di cui non conoscevamo l’uso e alcune mine. Smistammo poi questo materiale nei luoghi più impensati.
Ci furono azioni armate prima della costituzione dei Gap? Cosa successe nelle prime settimane, della Resistenza armata romana?
Io cominciai, insieme a Lucia Ottobrini e Franco di Lernia ad usare queste armi soprattutto contro automezzi tedeschi in transito o in sosta. Ricordo che per queste azioni mi forni il materiale esplosivo un impiegato del Banco di Roma, Mario Pressenda, che era un funzionario di grande qualità, un oratore elegante con notevoli qualità professionali e che fu purtroppo emarginato a ruoli e compiti secondari ai tempi di Scelba.
Lei si incontrò nei primi giorni di ottobre del 1943 a Ponte Sisto con altri antifascisti. Cosa avvenne in quell’incontro?
Occorreva superare la tendenza attendista di rinviare la lotta armata a un’ipotetica ora x, cioè l’ora dell’insurrezíone che doveva scattare solo al momento dell’arrivo degli Alleati. L’attendismo si manifestava in forme differenti; c’era soprattutto il timore di rappresaglie e perciò c’era chi diceva che non bisognava compiere azioni in città, soprattutto se potevano assumere rilevanza militare; c’era chi sosteneva che non bisognava attaccare i fascisti perché erano italiani anche loro. Pensate che c’era addirittura una frangia anarchica che arrivava all’assurdo affermando che attaccando i tedeschi si diventava uno strumento degli imperialisti anglo-americani, posizione, questa, spesso fomentata e fatta circolare dagli si essi nazifascisti. In quella riunione a Ponte Sisto venne ribadito con energia che bisognava indebolire il potenziale bellico nazista attaccando con azioni improvvise gli obiettivi militari, bisognava che Roma non fosse utilizzata per il transito delle colonne di rifornimenti dirette al fronte. Bisognava minare seriamente il morale delle truppe tedesche di guarnigione nella città, oppure quelle operanti al fronte facendo sentire la presenza di un esercito, quello partigiano, insidioso e pericoloso. Si dovevano rendere più efficienti ed aggressive le formazioni patriottiche, demolendo la fama di invincibilità della Wehrmacht, con azioni fulminee di piccoli gruppi che colpivano duramente i reparti tedeschi. Infine bisognava attaccare senza respiro militi e ufficiali della Milizia fascista. Eravamo al tramonto di una calda giornata d’ottobre, qualche giorno prima avevo ricevuto l’ordine da Fabrizio Onofri di recarmi in quel posto, lì, a Ponte Sisto incontrai Carlo Salinari che già conoscevo, Danilo Nicli e Giulio Cortini. Decidemmo che bisognava staccare dall’organizzazione militare delle zone, alcuni elementi particolarmente arditi, preparati, i quali avrebbero attaccato i tedeschi senza tregua. Quell’incontro fu decisivo: nacquero i Gap centrali.
Già nel mese di settembre un primo nucleo formato da me, Lucia Ottobrini e Franco di Lernia e altri tra cui Giuseppe Regis e Luciano Vella avevamo portato a termine numerose azioni sia contro le pattuglie di fascisti e di tedeschi sia contro gli automezzi in transito. Tuttavia la stampa e la radio non citavano le nostre azioni e questo fatto diffondeva tra noi un senso di incertezza. Dovette trascorrere almeno un mese dalla riunione di Ponte Sisto prima di formare definitivamente i Gap centrali. Verso la fine di ottobre si aggiunsero a noi Rosario Bentivegna e Carla Capponi, che mi fu segnalata da Enrico de Angelis in via Piave. Non ho mai dimenticato gli occhioni grandi e sgranati, il viso pallido fortemente incipriato, la figura snella e svelta e il modo spontaneo di parlare di Carla. Chi avrebbe potuto immaginare che Carla sarebbe diventata forse la partigiana più ardimentosa e popolare della guerra di Liberazione? Carla fu un acquisto importantissimo dei Gap, fu al fianco mio e di Lucia nelle prime due azioni dei Gap contro automezzi tedeschi. Tra Carla e Lucia si strinse un affetto e una stima rimasti inalterati nel tempo.
Il comando regionale era diretto da Antonio Cicalini e Pompilio Molinari. Talvolta ci furono tra me e il comando diversità di vedute e dissensi come per l’azione del teatro Adriano dove, il 18 novembre del 1943 si svolse un’adunata di autorità fasciste e alti ufficiali tedeschi. Era stato annunciato che un corteo avrebbe sfilato per la città e io avevo studiato un piano che comprendeva due azioni, una all’interno del teatro e l’altra contro il corteo nel caso in cui il primo attacco non fosse riuscito; in quell’occasione disponevo anche di un mitra che mi era stato fornito da Enzo Russo, uno studente di medicina. Nel palazzo all’ultimo piano adiacente al teatro Adriano abitava Emanuele Rocco, figlio del giurista fascista che poi sarebbe diventato giornalista della Rai. Con il suo aiuto, io e Sasà ispezionammo le terrazze per organizzare un’irruzione dall’alto. Il mio progetto di attaccare il corteo fu però rifiutato. Fu così collocato un estintore con otto chili di tritolo sotto il palcoscenico. Ma come tutti sanno la bomba non esplose e i gerarchi fascisti e i generali tedeschi sfilarono indisturbati per la capitale. Ma quel piano fu ripreso più tardi, il 10 marzo del 1944, quando, nello stesso luogo in cui era previsto l’attacco al corteo una squadra di 12 gappisti tra cui due donne, Marisa Musu e Lucia Ottobrini, in via Tomacelli, attaccò un corteo di fascisti preceduto da una colonna di centocinquanta giovani della Guardia Nazionale. In quattro attaccarono frontalmente la colonna e gli altri, dislocati in vari punti della strada crearono lo scompiglio tra i partecipanti al corteo. Io facevo parte del quartetto con Raul, Furio e Paolo. Quell’azione fu molto importante non solo perché destò grande impressione, tanto che fu istituita una taglia di cinquecentomila lire su di noi, ma soprattutto perché proprio in virtù di quell’azione così temeraria i tedeschi proibirono ai fascisti di sfilare per la città. Fu un duro colpo. Soltanto tredici giorni più tardi, il 23 marzo, si sarebbe dovuta svolgere a Roma la grande manifestazione di celebrazione del venticinquesimo anniversario della fondazione dei fasci di combattimento che i fascisti avevano preparato con grande cura e quella manifestazione non si svolse.
Che può dirci dell’azione in via Rasella?
Nella seconda quindicina di febbraio del 1944, vidi passare una colonna della gendarmeria tedesca che in pieno assetto di guerra sfilava per il centro della Capitale. Rividi sfilare la colonna di soldati tedeschi il quattro marzo. Subito mi venne in mente il piano d’attacco. Chiesi a Spartaco (nome di battaglia di Carlo Salinari) che aveva assunto il comando dei Gap centrali dopo l’arresto di Giacomo (Antonello Trombadori), di autorizzarmi ad attaccare, la colonna in via Quattro Fontane, di fronte al museo Barberini. Salinari si riservò di interpellare il comando regionale. Finalmente giunse l’ordine di attaccare ma i soldati tedeschi non passarono. Successivamente mi incontrai di nuovo con Carlo Salinari e questi mi riferì che il comando aveva riconsiderato l’azione ed aveva disposto la sua realizzazione non più in via Quattro Fontane, ma in via Rasella e con forze più consistenti. Questa decisione mi trovò contrario per una serie di ragioni di natura strategica. Non sapemmo mai con precisione i veri motivi che determinarono il cambiamento del luogo dell’attentato ma la decisione fu presa quasi sicuramente dal comando regionale.
Lei è stato, quindi l’ideatore e il regista di quella azione, come valutò, il C.N.L., l’azione di via Rasella? E come reagì alla strage delle Fosse Ardeatine?
Inizialmente ci fu un forte sbandamento, poi furono solidali con i garibaldini i liberali (Manlio Brosio) e Giustizia e Libertà (Riccardo Bauer). Pertini protestò perché voleva essere informato prima, ma fu solidale. Le Brigate del Popolo, almeno in un primo tempo, mostrarono smarrimento. I militari erano distrutti. Quando poi le radio alleate, e non solo Radio Londra, esaltarono il coraggio e lo stoicismo del popolo romano la situazione fu più chiara.
Quando ha conosciuto il professor Gesmundo, figura centrale della lotta di Liberazione a Roma, assassinato alle fosse Ardeatine nel marzo del 1944?
L’ho conosciuto a metà settembre del 1943, quando mi occupavo di organizzare la quarta zona delle brigate Garibaldi. Ricordo perfettamente i nostri incontri nella libreria Bertoni in via Sant’Agostino dove l’otto settembre, in una botola, io e Roberto Forti avevamo nascosto parte dei moschetti che il generale Carboni aveva consegnato alla popolazione.
Qual era l’atteggiamento di Gesmundo sul modo di condurre la lotta partigiana?
Ci fu tra noi una mirabile intesa su quello che era l’imperativo categorico del momento. Gesmundo convenne sull’opportunità di costruire speciali unità cospirative, Formate da pochi elementi, con il compito di attaccare i nazífascísti: quelli che poi si chiamarono i Gap. Gesmundo era d’accordo con me che gli attacchi dovevano essere compiuti sia contro i fascisti che contro i tedeschi.
Gesmundo ebbe chiarissima la consapevolezza che le azioni dei Gap centrali erano un avvenimento di estrema importanza. A Roma la polizia politica in quel periodo, e mi riferisco a Rotondano e a Quagliotta e agli altri dirigenti dell’Ovra, ha lavorato a ritmi ridotti. Se avessero dato un giro di vite le cose per noi sarebbero andate diversamente. Io credo, e questa è una cosa che dico per la prima volta, che prima dello sbarco di Anzio la polizia politica controllava L’Unità e il quotidiano di Ginsburg e degli altri di G.L. Gesmundo fu arrestato proprio mentre lavorava al giornale.
Lei ha conosciuto anche Giorgio Labò, l’artificiere dei Gap, cosa ricorda di lui?
Ho conosciuto Giorgio Labò nella seconda metà del dicembre del 1943. Era iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano ed anche sergente del Genio minatori. Si era trasferito a Roma con Gianfranco Mattei e aveva organizzato la Santa Barbara di Via Giulia. Grazie alla sua collaborazione l’attività dei Gap subì una forte impennata, soprattutto per quanto riguarda l’efficacia delle azioni… Entrambi avevamo vissuto il dramma dell’Armistizio, quando l’esercito italiano si era sfaldato per i colpi di maglio della Wermacht e soprattutto per il disorientamento dei militari badogliani. La nostra collaborazione iniziò dopo avergli raccontato la mia avventura della sera dell’11 dicembre del ’43 quando tentai di lanciare un ordigno esplosivo contro i tedeschi che uscivano dal Cinema Barberini e si apprestavano a salire sui camion militari. Quella sera la miccia dello «spezzone» confezionato da un marmista del Verano non si accese, nonostante i miei ripetuti tentativi, anzi, cadde per terra con frastuono. Ma i tedeschi non si accorsero di nulla e potei mettermi in salvo riportando con me lo spezzone inesploso. Giorgio mi disse che ero stato protetto dalla dea bendata e che per la prossima azione avrebbe preparato lui l’ordigno. Il 18 settembre l’azione al Barberini andò a segno, lo spezzone di Giorgio funzionò alla perfezione. L’ultima volta che vidi Labò fu a Piazza Navona dove discutemmo seduti su una panchina di marmo. Con Giuseppe Felici e Lucia Ottobrini avevamo effettuato un sopralluogo per le strade intorno a via Arenula dove abitavano e avevano depositi di commercio molte famiglie ebree. Il giorno prima, nella piazzetta della fontanella delle tartarughe, dietro il ghetto, Trombadori, Felici ed io avevamo discusso un piano d’appoggio alla comunità ebraica nel caso che i tedeschi in ritirata avessero fatto razzie. Poche settimane più tardi Felici fu catturato dopo uno scontro a fuoco sul monte Tancia, era ferito, ma contro ogni legge di guerra i tedeschi lo fucilarono ugualmente.
È vero che lei è stato inviato in Svizzera per arrestare Mussolini? Ci può raccontare quell’episodio?
Dopo una pericolosa impresa solitaria – avevo marciate per venti chilometri sulla neve con le racchette ai piedi percorrendo la Valle del Saas, in Svizzera – ero giunto a metà aprile 1945 a Macugnaga. Avevo la febbre ed ero ustionato a causa del riverbero del sole sulla neve. Fui curato amorevolmente dalle suore di un convento. Poi passai in Valsesia dai garibaldini di Cino (Moscatelli) e Ciro (Eraldi) con l’intento di prendere contatti con il tenente americano Aldo Icardi. Il capitano Emilio Daddario era partito dalla Svizzera, si era unito a Icardi, che guidava la missione Chrisler dell’O.S.S. (Office service strategie), insieme si erano diretti in Lombardia con l’intento di catturare Mussolini. Io conoscevo bene i luoghi e le persone del comasco, e se fossi giunto in tempo a raggiungere i due ufficiali italo-americani avremmo preceduto Lampredi e Valerio, i due giustizieri del Duce. Tuttavia penso che sarebbe stato comunque difficile sottrarre Mussolini e i suoi compagni di fuga al furore popolare.
Qualcuno ha detto che Mussolini è stato il più grande statista del secolo…
Mussolini, in alcuni momenti, era riuscito a creare intorno all’Italia un notevole consenso da parte delle diplomazie internazionali e in settori consistenti dell’opinione pubblica non solo italiana. Come si spiegherebbe altrimenti le pubbliche dichiarazioni di elogio a lui indirizzate da Ghandi e Churchill? L’avere associato l’Italia alle criminose imprese belliche di Hitler, a partire dalla guerra di Spagna, ha portato al nostro paese soIo lutti e sciagure.
Giorgio Bocca ha scritto che Roma è stata l’unica grande città italiana che mancò l’occasione insurrezionale, perché?
Roma l’insurrezione l’ha fatta, eccome! Subito dopo il 22 gennaio 1944, quando lo sbarco alleato di Anzio aveva fatto credere in una rapida liberazione della città. Le organizzazioni clandestine in Roma pagarono allora un prezzo molto alto in termini di arresti, torture, fucilazioni. Noi dei Gap centrali fummo mandati nelle retrovie e ogni notte attaccavamo le truppe e i mezzi che i tedeschi spostavano per evitare che dalla testa di ponte di Anzio gli alleati dilagassero verso la Capitale. C’è chi sostiene oggi che nella strategia della guerra lo sbarco in Normandia fu decisivo, mentre lo sbarco di Anzio era un diversivo per attirare forze consistenti tedesche distogliendole dal fronte principale. Le frasi di Giorgio Bocca sono state scritte trent’anni fa e rilette oggi mostrano la frettolosità di un giudizio incompleto e approssimativo. Occorre aggiungere che i romani erano corsi, armati come potevano, a Ostiense, alla Cecchignola, ad Acilia accanto ai granatieri e ai carabinieri nelle drammatiche ore seguite all’Armistizio, perciò Roma l’insurrezione l’ha fatta ben due volte.
Perché è stato partigiano? Cosa è stata la Resistenza e come bisogna parlarne oggi ai giovani?
Io posso rispondere per me, perché le motivazioni sono sempre personali. Ho fatto la guerra partigiana perché ho avvertito l’imperativo categorico di combattere a fianco degli alleati per risollevare l’Italia dalla disgrazia in cui era caduta e per fare questo, data la situazione, bisognava fare anche un certo tipo di guerra. Il risultato del mio impegno di gappista in città, e di combattente in montagna nel nord e di tutti quelli che hanno combattuto come me può essere riassunto da una foto: il Comando Generale del corpo dei Volontari della Libertà che sfila per Milano alla fine della guerra. C’era l’esercito, i liberali, i socialisti, gli azionisti, i garibaldini, i comunisti. C’erano tutti quelli che, pur con ispirazioni politiche e culturali diverse, avevano combattuto insieme per liberare l’Italia. Quella foto, in qualche modo, riassume la Resistenza, che per me rimane una delle pagine più belle della storia d’Italia. In quella-esperienza il popolo italiano fece emergere le sue qualità migliori. E tuttavia è un fatto della storia ormai passato; e non possiamo pretendere che continuamente dia i suoi frutti.
Come parlarne ai giovani?
Anni fa insegnavo in una scuola media a Roma. Era il 25 aprile e io stavo per iniziare la lezione quando entrò una professoressa che mi disse che era arrivato un fonogramma del Provveditore che disponeva di celebrare la ricorrenza in aula e mi chiese di lasciarle il posto. Le risposi che la lezione di celebrazione dell’anniversario della liberazione l’avrei tenuta io. Era un periodo in cui c’era una recrudescenza di nostalgia per il fascismo e anche in aula c’erano degli studenti che simpatizzavano per la destra, ma io la prima cosa che dissi fu: «io oggi parlerò della Resistenza per fascisti e antifascisti…». Parlai per due ore e tutti mi ascoltarono con grande attenzione.