L'esplosione delle bombe causò sette vittime, ma riuscì soltanto a ferire lievemente Graziani, i generali Aurelio Liotta e Italo Gariboldi, il vice-governatore Armando Petretti, il governatore della capitale Alfredo Siniscalchi e alcune decine di persone. Graziani venne prontamente trasportato in ospedale, mentre soldati e carabinieri, con l'ausilio di militi delle truppe coloniali, chiusero gli accessi del recinto e aprirono il fuoco sulla folla, massacrando decine di persone. Ciò non fu che il preludio ad una vera e propria "caccia al moro", come fu successivamente definita da Antonio Dordoni, testimone del massacro: centinaia di civili italiani, organizzati in squadre armate di spranghe e manganelli su precisa disposizione del federale Guido Cortese, compirono violentissime incursioni nei quartieri più poveri di Addis Abeba, unendosi ai militari, impiccando, bruciando vivi, massacrando di botte e fucilando chiunque incontrassero.
La ritorsione fu particolarmente feroce negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano Addis Abeba da nord a sud. La ritorsione fu particolarmente feroce negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano Addis Abeba da nord a sud. «Per ogni abissino in vista – scrive lo storico del colonialismo italiano Angelo Del Boca – non ci fu scampo in quei terribili tre giorni ad Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano». I corpi dei civili massacrati vennero gettati in fosse comuni: secondo le stime più recenti, le vittime della selvaggia mattanza italiana furono circa 19.000.
L'eccidio di Yekatit 12, uno dei più efferati crimini mai compiuti nella storia coloniale dell'Italia, è a malapena conosciuto nel nostro paese, ove simili atrocità sono rimaste sostanzialmente impunite, mentre è commemorato ogni anno ad Addis Abeba con una cerimonia presso il monumento che lo ricorda.