I diritti costituzionali dei lavoratori e delle lavoratrici nella crisi sanitaria ed economica.
La pandemia ha aggravato una pesante crisi economica. Quali conseguenze sul mondo del lavoro e quanta distanza ancora dai precetti costituzionali? Ne parliamo con 4 lavoratori e lavoratrici di settori in crisi, con il sindacato e la Casa delle donne. Le donne sono infatti drammaticamente le più colpite dalla crisi.
Intervengono:
Alessandra Cocevar - Società Multiservizi;
Samuel Salvati - Driver di Amazon;
Celeste Guadagnolo - Artista;
Manola Benedetti - Lavoratrice aeroportuale;
Ne discutono
Michele Azzola - Segretario generale CGIL Roma e Lazio;
Maura Cossutta - presidente Casa Internazionale delle Donne;
Fabrizio De Sanctis - Presidente Anpi Provinciale di Roma.
In diretta sul canale Youtube dell'ANPI provinciale di Roma
L’attacco di via Rasella. La catena di menzogne per giustificare il massacro. La verità al processo. Le responsabilità dei fascisti.
L’ordine è stato eseguito
«Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito in Via Rasella. In seguito a questa imboscata, trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi a incitamento angloamericano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito».
Riepiloghiamo brevemente i fatti.
Il 23 marzo, anniversario della nascita del fascismo, nel primo pomeriggio un commando partigiano aveva fatto esplodere un ordigno in Via Rasella mentre passava una colonna di militari tedeschi e l’aveva successivamente attaccata. I nazisti persero complessivamente 33 uomini con numerosi feriti. Per rappresaglia, i tedeschi uccisero alle Cave Ardeatine 335 italiani prelevati dalle carceri o rastrellati dopo l’esplosione. Tra questi c’erano 75 ebrei.
Il comunicato che abbiamo riprodotto in apertura fu emanato intorno alle 22.55 del giorno successivo, 24 marzo, dall'Agenzia “Stefani” e rappresenta la prima notizia pubblica dell’azione di Via Rasella e del massacro delle Fosse Ardeatine. I romani ne vennero a conoscenza il giorno dopo, 25 marzo, con l’arrivo dei giornali alle edicole e con la trasmissione da parte di Radio Roma, che mise in onda il dispaccio soltanto alle ore 16.
Sono dati ormai definitivamente accertati che fanno giustizia delle molte tutt'altro che disinteressate leggende nate intorno a quei tragici eventi.
Innocui territoriali?
La prima leggenda riguarda le truppe tedesche colpite. Si è detto che quella di Via Rasella non era un’unità combattente, come se i suoi appartenenti fossero dei “veci alpìn” in disarmo, buoni per qualche parata domenicale. La realtà è ben diversa. La formazione in questione era l'11ª compagnia del Polizie regiment “Bozen”, costituita di alto-atesini, in pieno assetto di guerra, dotata di armamento pesante, con al seguito un veicolo corazzato su cui era montata una mitragliatrice. Il suo compito – e l’addestramento dei suoi uomini – era rivolto al controllo della popolazione e all'intervento in caso di sommosse e insurrezioni. Stranamente, ma non troppo se si tiene conto dell’impatto dissuasivo che l’unità in questione doveva imprimere sulla popolazione da un punto di vista anche psicologico, l’addestramento prevedeva il pieno apprendimento di una canzone che nella fattispecie era “Hupf, mein mädel” (salta, ragazza mia).
Questi presunti innocui territoriali il 23 marzo sfilarono per le strade di Roma con il colpo in canna (testimonianza di Franz Bertagnoll). Apparteneva al “Bozen” il motociclista che il 3 marzo aveva ucciso a sangue freddo a Viale Giulio Cesare Teresa Gullace, la popolana rievocata con l’indimenticabile interpretazione di Anna Magnani in “Roma città aperta” di Roberto Rossellini.
Ma il nome del “Bozen” risuonerà sinistramente a lungo nei mesi successivi. Ecco come ne ha ricostruito la criminale attività Cesare De Simone in Roma città prigioniera: «Dopo la liberazione della città, le compagnie 9ª e 10ª (l’11ª era stata praticamente annientata a Via Rasella) vennero inviate al Nord e nell’inverno 1944-’45 presero parte, insieme alla Divisione SS “Herman Göring” e alla Brigata Nera “Ettore Muti” (quella di cui il fascista Giorgio Pisanò ha scritto che era costituita da «avanzi di galera» – nota nostra) ai feroci rastrellamenti antipartigiani nel Nord-est. La 9ª operò in Istria, la 10ª nella vallate del Bellunese. Furono bruciati decine di villaggi, intere popolazioni passate per le armi come in Val di Bois e a Forcà; i fucilati e gli impiccati nei rastrellamenti cui partecipò il “Bozen” saranno 800, tra combattenti garibaldini e civili inermi fra i quali donne e bambini».
Le manipolazioni della verità
L’altra leggenda riguarda la diffusione delle notizie. Ci si sono esercitati in molti, compresa persino Edda Mussolini, la quale in un’intervista a La Stampa dell’8 maggio 1994 ebbe a dire: «Ma in ogni modo dopo l’attentato i tedeschi avevano fatto appendere i manifesti in tutta la città di Roma, ed eravamo in tempo di guerra!». Per proseguire: «Ma sì, voglio dire che dopo Via Rasella se i gappisti che avevano fatto esplodere i camion delle SS si fossero presentati entro le ventiquattr'ore alle forze di polizia tedesche, non vi sarebbe stata nessuna strage. La rappresaglia tedesca era legata a una convenzione di guerra, credo. In particolare, credo che si trattasse di un trattato stipulato all'Aja. Insomma non capisco perché oggi debbano accusare quell'ufficiale che in fondo faceva il suo dovere di soldato e probabilmente nient’altro». L’ufficiale in questione era Erich Priebke, che sta scontando l’ergastolo per i crimini commessi alle Ardeatine.
Nessuno stupore che la figlia del duce la pensasse in questo modo. È incomprensibile invece che il giornalista non le facesse rilevare che le cose da lei dette erano assolutamente false.
In primo luogo perché i tedeschi non affissero alcun manifesto. In secondo luogo perché non rivolsero alcun invito a consegnarsi agli autori dell’azione di Via Rasella. In terzo luogo perché la rappresaglia nei confronti della popolazione civile non è mai stata contemplata da nessuna convenzione internazionale, se non in circostanze particolarissime.
Ma il castello di menzogne costruito attorno ai fatti del marzo 1944 è duro a morire. Abbiamo già detto che il comunicato della “Stefani” riprodotto in apertura costituì la prima notizia sull'azione partigiana e sulla rappresaglia. A cose fatte, come diceva chiaramente la nota.
Le risultanze processuali
Lo stesso Kesselring, comandante delle forze tedesche in Italia, che rientrò a Roma alle sette di sera del 23 marzo dal fronte di Anzio, messo al corrente, dopo essersi consultato ripetutamente con Berlino, emanò l’ordine: «Uccidete dieci italiani per ogni tedesco. Esecuzione immediata». Questa affermazione fu fatta in sede processuale e ripetutamente ribadita: «Domanda della corte: faceste qualche appello alla popolazione romana o ai responsabili dell’attentato prima di ordinare le rappresaglie? Kesselring: Prima no. Domanda: avvisaste la popolazione romana che stavate per ordinare rappresaglie nelle proporzioni di uno a dieci? Kesselring: no. […] Domanda: ma voi avreste potuto dire: se la popolazione romana non consegna entro un dato termine il responsabile dell’attentato fucilerò dieci romani per ogni tedesco ucciso? Kesselring: ora, in tempi più tranquilli dopo tre anni passati, devo dire che l’idea sarebbe stata molto buona. Domanda: ma non lo faceste? Kesselring: no, non lo feci».
Quest’ultima domanda della corte è molto importante. Infatti le convenzioni internazionali adombrano la possibilità di ritorsioni sulla popolazione civile soltanto nel caso sia dimostrato che la popolazione stessa è complice degli attentatori e rifiuta la loro consegna. Neppure questo remoto fumus può essere invocato per sostenere la legittimità della repressione.
Quindi, gli autori dell’azione di Via Rasella non ebbero alcuna possibilità di consegnarsi ai tedeschi. D’altra parte, si trattava di un’unità combattente che obbediva al CLN e al legittimo governo italiano, il quale aveva ordinato a «tutti gli italiani dei territori occupati, uomini e donne, di attaccare ovunque e dovunque il nemico invasore nazifascista».
Un’altra speculazione ignobile è quella relativa alla sfortunata circostanza che portò alla morte di un giovinetto in conseguenza dell’azione. I gappisti fecero di tutto, fino a mettere a rischio se stessi e l’esito dell’impresa, per allontanare alcuni ragazzini che giocavano a pallone e altri civili dal luogo dell’esplosione. Purtroppo, il ragazzo in questione sopraggiunse quando ormai era impossibile sia avvertirlo sia fermare l’esplosione.
Un sacerdote sulla via Ardeatina
Padre Libero Raganella era stato contattato da uomini della Resistenza ed invitato a recarsi verso Porta San Sebastiano, poi sull'Ardeatina dove stava accadendo qualcosa di strano. Ecco cosa scrisse nel suo diario: «Le raffiche di mitra ora si sentono a breve distanza, ad intervalli, unite a grida disperate e strazianti. L’SS mi è ormai di fronte e in un italiano quasi perfetto (capisco subito che è uno dell’Alto Adige che ha optato per la grande Germania) mi fa notare che è proibito proseguire per quella strada o sostare, essendovi in corso un’azione di guerra. Mentre parla, più che ascoltare lui ascolto le mitragliatrici che a brevi intervalli scattano in canto rabbioso, e tra quel fragore infernale più distinte e chiare le urla, i lamenti ed ogni verso umano, ma reso disumano dal terrore. Come in sogno afferro la tragedia. “Là stanno morendo. Io sono sacerdote, vorrei assisterli, benedirli” riesco a dire con un filo di voce. “Non è possibile, nessuno può passare. E se pure io la facessi passare – dice quello, voltandosi e accennando agli altri soldati – lei non tornerebbe indietro e noi faremmo la stessa fine di quelli là dentro. Vada via. Vada via subito prima che sia troppo tardi”».
L’allucinante sequenza delle fucilazioni era stata studiata con grande zelo da Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma: «Calcolai quanti minuti erano necessari per la fucilazione d’ognuna delle trecentoventi vittime (che poi diventarono, nella concitazione dei calcoli e delle liste, 335, 5 in più rispetto alla stessa proporzione di uno a dieci – nota nostra). Calcolai anche le armi e le munizioni necessarie. Cercai di rendermi conto di quanto tempo avessi a mia disposizione. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solamente un colpo, specificando che la pallottola doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea».
«Un certo Montezemolo»
Joseph Raider, un disertore austriaco che riuscì a scappare nella confusione e che, riconosciuto, fu risparmiato, ha così descritto uno dei momenti più toccanti: «Di fronte c’era un colonnello, credo un certo Montezemolo, dal volto già gonfio per le percosse e i colpi ricevuti, con un’enorme borsa sotto l’occhio destro, il cui aspetto stanco, ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze. Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assaliti dal terrore o colti da improvvisa pazzia. In mezzo al frastuono udii esclamare una voce mesta e supplichevole: “Padre, benediteci!”. In quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio perché don Pietro (Pappagallo, altra vittima delle Ardeatine – nota nostra) riuscì a liberarsi dai suoi vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua paterna benedizione!».
Alle 20 del 24 marzo il massacro era concluso e i tedeschi, come sempre in preda all'ossessione della segretezza, fecero esplodere gli imbocchi delle Cave.
25 aprile 2019 - prima dell'inizio del tradizionale corteo, l'omaggio alle vittime della strage delle Fosse Ardeatine
Il provvidenziale intervento dei fascisti
Nulla fecero per tentare di dissuadere i nazisti e di evitare la strage di tanti innocenti le autorità della repubblica sociale. Anzi collaborarono pienamente. Il questore Pietro Caruso, al quale i nazisti avevano chiesto 50 nomi da inserire nella lista delle persone da giustiziare si rivolse al ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi. Ecco il suo resoconto: «Kappler pretende da me 50 prigionieri da far fucilare per rappresaglia. Cosa devo fare? Mi rimetto a voi, Eccellenza. Speravo che il ministro volesse trattare direttamente con Kappler. Lui mi rispose: “Che posso fare? Sei costretto a darglieli. Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere. Sì, sì, dateglieli!”. Avendo ottenuto l’autorizzazione, o per meglio dire l’ordine, mi sentii sollevato». Questo era il comportamento dei rappresentanti di quella repubblica che, si sostiene da taluno, sarebbe stata creata per limitare i danni che i tedeschi potevano causare alla popolazione italiana.
Nulla seppero le famiglie delle vittime. Le prime notizie furono date a partire dal 9, 10 aprile, con lettere scritte in tedesco, in cui ci si limitava a dire che il loro congiunto era morto. Giovanni Gigliozzi ricorda che la moglie del cugino Romolo portò per un mese il pranzo al marito a Regina Coeli, senza che nessuno le dicesse nulla. Anzi, «Un gentile soldato tedesco assicurava che glielo avrebbe consegnato».
Le vittime di quella tremenda giornata furono 336. Fedele Rasa, una popolana di 74 anni, fu uccisa mentre raccoglieva erba sul prato di Via delle Sette Chiese, vicina all’Ardeatina. Forse le fu fatale la sordità per non aver risposto all’intimazione di un soldato tedesco.
«La capitale che ci ha dato più filo da torcere»
Non vogliamo soffermarci sull'orrore della scoperta dell’eccidio e sulle sue modalità.
L’enormità dell’accaduto creò problemi anche al CLN, nell'ambito del quale si svolse un dibattito piuttosto acceso. Ma, in conclusione, tutti i contrasti furono superati e lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale assunse piena responsabilità per l’azione di Via Rasella con l’approvazione di questo documento: «Italiani e italiane, un delitto senza nome è stato commesso nella vostra capitale. Sotto il pretesto di una rappresaglia per un atto di guerra di patrioti italiani, in cui esso aveva perso trentadue dei suoi SS, il nemico ha massacrato trecentoventi innocenti, strappandoli dal carcere dove languivano da mesi. Uomini di non altro colpevoli che di amare la patria – ma nessuno dei quali aveva parte alcuna né diretta né indiretta in quell'atto – sono stati uccisi il 24 marzo 1944 senza forma alcuna di processo, senza assistenza religiosa né conforto di familiari: non giustiziati ma assassinati.
Roma è inorridita per questa strage senza esempio. Essa insorge in nome dell’umanità e condanna all'esecrazione gli assassini come i loro complici e alleati. Ma Roma sarà vendicata. L’eccidio che si è consumato nelle sue mura è l’estrema reazione della belva ferita che si sente vicina a cadere. Le forze armate di tutti i popoli liberi sono in marcia da tutti i continenti per darle l’ultimo colpo. Quando il mostro sarà abbattuto e Roma sarà al sicuro da ogni ritorno barbarico essa celebrerà sulle tombe dei suoi martiri la sua liberazione.
Italiani e italiane, il sangue dei martiri non può scorrere invano. Dalla fossa ove i corpi di trecentoventi – di ogni classe sociale, di ogni credo politico – giacciono affratellati per sempre nel sacrificio si leva un incitamento solenne a ciascuno di voi. Tutto per la liberazione della patria dall'invasione nazista! Tutto per la ricostruzione di un’Italia degna dei suoi figli caduti!».
Come si vede, ancora non si conosceva neppure l’esatta entità del massacro.
È in rapporto soprattutto con questi drammatici eventi che Eugen Dollmann, il raffinato rappresentante di Himmler in Italia, ha lasciato scritto: «Roma è stata la capitale che ci ha dato più filo da torcere».
Vogliamo celebrare la Memoria delle Fosse Ardeatine in piazza Bartolomeo Romano, apponendo lì una targa che sarà la voce di una comunità di donne e uomini che non ha dimenticato. La musica e la lettura dei 335 nomi accompagneranno la cerimonia, che terminerà con la proiezione dei tantissimi video e foto raccolti lo scorso anno.
La condizione drammatica in cui versa il Nostro Paese ci impone di ripensare le commemorazioni per i caduti delle Fosse Ardeatine. Consapevoli dell'importanza che questa ferita rappresenta, vogliamo ugualmente mantenere viva la fiamma della Memoria collettiva.
La Città di Roma ha impressa nelle sue strade la spinta antifascista che diede anima e forza ai quartieri e alle borgate in quei mesi di occupazione nazifascista e di Resistenza.
Per coloro che il 24 marzo 1944 diedero la vita per la libertà di ognuno di noi, per una società giusta e democratica, terremo viva la fiamma della Memoria di una storia che appartiene a tutte e tutti i cittadini di Roma.
"Ci hanno seppellito,
ma eravamo semi".
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L'evento sarà trasmesso live sulle pagine social delle realtà promotrici.
In Piazza Bartolomeo Romano, dalle ore 17:00:
> Una targa ad Enrico Mancini e tutti i 335
> Omaggio musicale a cura della "Roma Balkan Lab Orchestra" diretta dal M° Francesco Pascucci
> Flash Mob con la partecipazione dei condomini della Scala M&N del Palladium
> "335 storie camminano con noi" - proiezioni audiovisive sui palazzi di Garbatella
RICORDIAMO INSIEME I CADUTI DELLE FOSSE ARDEATINE
Ci hanno seppellito,
ma eravamo semi.
77 anni dall'Eccidio delle Fosse Ardeatine
1944 - 2021
La condizione drammatica in cui versa il Nostro Paese e le nuove disposizioni normative per il contenimento del virus ci impongono di ripensare le commemorazioni per i caduti delle Fosse Ardeatine. Consapevoli dell'importanza che questa ferita rappresenta, vogliamo ugualmente mantenere viva la fiamma della Memoria collettiva.
Per il secondo anno consecutivo, non sarà possibile svolgere la manifestazione che vede le ragazze e i ragazzi delle scuole del Municipio VIII di Roma, al fianco delle Istituzioni, dell’ANPI e delle associazioni del territorio, attraversare i quartieri di Garbatella e Tor Marancia per arrivare al Sacrario, dove centinaia di fiori rossi vengono deposti sulle tombe dei caduti. Lo scorso anno, grazie alla diffusione di un appello sui social e alla grande rete dell’ANPI, centinaia di persone hanno ricordato dai propri balconi i caduti. Una candela, un fazzoletto rosso e Bella Ciao.
Il 24 marzo 1944 l'esercito nazista, che dal settembre '43 occupava l'intera città al comando del tenente colonnello Herbert Kappler, per ordine del capitano delle SS Erich Priebke, giustiziò 335 uomini all'interno delle Cave Ardeatine, per poi farle detonare al fine di impedire il ritrovamento e il riconoscimento dei corpi martoriati.
Un anno fa, proprio mentre la pandemia iniziava a prendere il sopravvento sulle nostre vite, in Piazza Bartolomeo Romano, davanti allo storico Teatro Palladium, un bellissimo mural è stato dedicato ad Enrico Mancini: militante del Partito d’Azione alla Garbatella, dove abitava al Lotto 43, e attivo nella Resistenza, che venne fucilato alle Fosse Ardeatine. L’opera, realizzata da Francesco Pogliaghi, non è potuta essere inaugurata a causa del lockdown che poco dopo è seguito.
Vogliamo celebrare la Memoria delle Fosse Ardeatine in quella piazza, apponendo lì una targa che sarà la voce di una comunità di donne e uomini che non ha dimenticato. La musica e la lettura dei 335 nomi accompagneranno la cerimonia, che terminerà con la proiezione dei tantissimi video e foto raccolti lo scorso anno a testimonianza della larga partecipazione alla Memoria. L’evento sarà trasmesso sulle pagine social delle realtà promotrici e purtroppo non potrà prevedere un pubblico.
La Città di Roma ha impressa nelle sue strade la spinta antifascista che diede anima e forza ai quartieri e alle borgate in quei mesi di occupazione nazifascista e di Resistenza. Per coloro che il 24 marzo 1944 diedero la vita per la libertà di ognuno di noi, per una società giusta e democratica, terremo viva la fiamma della Memoria di una storia che appartiene a tutte e tutti i cittadini di Roma.
Non possiamo invitare alla partecipazione fisica, come vorremmo. Ciò che possiamo chiedere è di sottoscrivere questa lettera, inviando una mail a ricordo.fosseardeatine@gmail.com e dedicare una candela, un ricordo, ai 335 caduti delle Fosse Ardeatine il 24 marzo 2021.
Via Rasella è una
strada stretta, che si arrampica, parallela al Tritone, nel centro di Roma,
verso la Villa Barberini. Era allora una strada di poco traffico e, nella parte
alta, priva di negozi e con pochi portoni.
Fu
in via Rasella che portammo a termine la più importante azione di guerra che i
partigiani abbiano condotto a Roma, senza dubbio una delle più importanti, d'Europa.
Avevamo
notato, nei mesi precedenti, come la città fosse talvolta percorsa da un
reparto con le divise della polizia nazista.
Il
reparto veniva dal Flaminio, passava per via del Babuino, per piazza di Spagna,
per le zone più belle della nostra città. Attraversava il Tritone e su per via
Rasella si avviava al Viminale.
Era
composto da 160 uomini, con gli elmetti di acciaio e le pistole mitragliatricisul
ventre; lo precedeva una pattuglia di avanguardia ed era seguito da un carretto
trainato da un mulo su cui era appostata una mitragliatrice pesante. Mario
Fiorentini li vide sfilare, un giorno di febbraio, quando io ero ancora a
Centocelle e subito pensò di attaccarli. Carlo Salinari, con l'assenso dei
comandi superiori, compreso Giorgio Amendola, approvò l'iniziativa e furono quindi
elaborati piani diversi per diverse evenienze.
Il
primo progetto prevedeva che l'attacco al reparto nazista venisse condotto in
via Quattro Fontane, con ritirata dei partigiani per via dei Giardini. Il punto
dello scontro sarebbe stato sulla via Quattro Fontane, tra gli sbocchi di via Rasella
e di via dei Giardini, e mentre il grosso della colonna era ancora impegnato in
via Rasella.
L'esecuzione
di tale piano doveva essere affidata a Mario Fiorentini, Fernando Vitagliano e
Franco Di Lernia che, armati ciascuno di uno «spezzone» da un chilo di tritolo,
appostati dietro l'angolo di via Quattro Fontane, avrebbero affrontato la testa
della colonna, scagliando su di essa le loro bombe e quindi fuggendo nei due
sensi per via Quattro Fontane o per via dei Giardini. L'azione in questo modo
si presentava abbastanza rischiosa e l'effetto, sia pur rilevante, non sarebbe
stato però notevolissimo. D'altro canto sorgeva una preoccupazione: come ho detto,
la colonna era preceduta e seguita da una pattuglia di avanguardia e da una di retroguardia.
Attaccare la pattuglia di avanguardia, composta di pochi uomini, avrebbe dato
un risultato piuttosto modesto.
Attaccare
il grosso subito dopo avrebbe potuto incastrare i partigiani tra due fuochi.
Attaccare contemporaneamente il reparto e la pattuglia di avanguardia era cosa
di non facile attuazione. Conveniva, dunque, studiare un piano più attento e
dettagliato che permettesse tra l'altro di imbottigliare tutto il reparto nella
strettoia di via Rasella in modo da poterlo praticamente distruggere.
Mario
Fiorentini era già pronto, con i suoi, ad attaccare, ma la colonna per qualche
giorno non passò più per quella via. D'altra parte Salinari comunicò a
«Giovanni» che il comando aveva deciso di dare in via Rasella una grande
battaglia. Fu quindi messo a punto un secondo piano, che si sarebbe sviluppato
in via Rasella con diverse direttrici d'attacco. Due coppie (Borghesi e Marisa
Musu, Mario Fiorentini e Lucia) avrebbero fatto esplodere due ordigni lungo la colonna
in marcia; subito dopo le esplosioni una squadra avrebbe attaccato la colonna
dall'alto e un'altra dal basso.
In
questi piani, preparati qualche settimana prima del 23 marzo, non era prevista
la mia partecipazione all'attacco perché io ero ancora impegnato a Centocelle.
Mario
Fiorentini si era battuto perché si attuasse l'attacco in via Quattro Fontane:
infatti egli poteva essere riconosciuto in via Rasella, perché frequentava una
sua cugina che abitava lì, e la casa di un vecchio compagno operaio della Breda
che egli conosceva era proprio davanti a palazzo Tittoni.
Nel
frattempo la colonna riprese a percorrere via Rasella, e Salinari avvertì che
occorreva predisporre l'azione per il 23 marzo, contemporaneamente a un attacco
che andava effettuato al teatro Adriano, contro i fascisti che colà dovevano
riunirsi per celebrare l'anniversario della fondazione del loro partito.
Io
avevo lasciato, ai primi di marzo, i miei compagni di Centocelle ed ero
rientrato nelle file dei GAP, che intanto si erano unificati.
Un
giorno Mario Fiorentini e Lucia invitarono Carla e me a mangiare qualcosa in
una bottiglieria all'angolo di via del Lavatore, che dall'altra parte di via
del Traforo fronteggia via Rasella. Mentre mangiavamo, egli mi fece vedere dalla
porta della bottiglieria i tedeschi che passavano. Cantavano. Le loro canzoni,
la loro voce, il loro passo cadenzato, l'orgoglio del nazismo, il loro incedere
da occupatori sprezzanti, suscitavano in chiunque si trovasse a passare di lì
un brivido di paura.
«Bisogna
colpirli, quelli lì», dissi a Mario. Egli sorrise. Aveva una sua aria sorniona
di ridere: con gli occhi stretti, si umettava un paio di volte le labbra con la
lingua e rovesciava un poco la testa all'indietro. «Per questo siamo qui», mi
rispose. «Tu come faresti?»
Cominciammo
tutti e quattro a discutere animatamente. Egli aveva già una sua idea che ci
sembrò eccellente. Mario aveva una mente molto fertile in fatto di idee e di
piani: era riuscito a trovare soluzioni audaci e brillanti che ci avevano permesso
di portare a termine un gran numero di azioni. I suoi piani erano sempre ben
elaborati, e le situazioni e i mezzi da lui escogitati erano impensabili e
originali. Anche in questa occasione aveva già ideato ed elaborato un progetto che
mi sembrava valido: un partigiano vestito da spazzino avrebbe dovuto attestarsi
nella parte superiore di Via Rasella, nella quale il traffico era meno intenso.
Là, giunto il momento, avrebbe fatto esplodere il suo carrettino carico di tritolo.
Questo
attacco, condotto sulla parte alta della strada, avrebbe respinto indietro i
tedeschi i quali ritirandosi avrebbero incontrato un altro gruppo di partigiani
appostato dietro l'angolo della via del Boccaccio che avrebbe completato l'azione
con un lancio di bombe a mano. Grande importanza avevano per noi i crocicchi e
gli angoli. Erano i nostri capisaldi, i nostri camminamenti e le casematte
della nostra guerra. Via Rasella si prestava anche in questo senso, fornendoci un'ottima
protezione per via del Boccaccio che la interseca verso il terzo inferiore.
Ci
preparammo studiando esattamente i tempi, cronometrando i minuti che i tedeschi
impiegavano, nel raggiungere da un punto determinato (che avremmo usato come traguardo
di partenza e di segnalazione) il luogo dove avremmo messo il carrettino, davanti
all'ingresso di palazzo Tittoni. Lo spazio tra i due punti veniva coperto dalla
colonna in 50 secondi.
Il
posto ci sembrava interessante anche dal punto di vista «storico» perché
palazzo Tittoni era stato la sede del primo governo Mussolini. Volevamo che
anche i tedeschi se lo ricordassero, quel punto: si stava avvicinando il 23
marzo e potevamo celebrare insieme, davanti alla sede del primo governo Mussolini,
l'anniversario della fondazione del fascio.
Anche
i fascisti pensavano di celebrare quell' anniversario e a nostra volta, come ho
detto, decidemmo di ricordarci anche di loro. Volevamo accomunarli, in quella
giornata, ai loro camerati germanici.
Era
stato annunciato, infatti, che all'Adriano ci sarebbe stata una grande
manifestazione del fascio repubblichino di Roma. Ci preparammo a essere presenti:
fuori del teatro, alla fine dell'adunata, una donna con una carrozzina da
bambini avrebbe dovuto avvicinare i fascisti che uscivano, lasciare la
carrozzina in mezzo a loro e far esplodere, con un sistema a tempo, il tritolo
disposto sul fondo del veicolo.
Qualche
giorno prima del 23, il 10 marzo, noi avevamo condotto un duro attacco a una
manifestazione fascista in via Tomacelli.
(…)
Dopo
questa vicenda, i tedeschi impedirono ai «camerati romani» di uscire da soli.
Niente più manifestazioni pubbliche e quindi niente più adunate all'Adriano per
il 23 marzo.
Anche
i nostri piani, di conseguenza, furono rivisti e decidemmo di attaccare solo i
tedeschi.
Dopo
la verifica e l'approvazione del comando militare passammo alla realizzazione
pratica del nostro piano di attacco al reparto della polizia nazista.
Un
carrettino di immondizie carico di tritolo sarebbe stato posto all'altezza di
palazzo Tittoni. L'attuazione di questa prima parte dell'attacco, che era senza
dubbio la più importante, suscitò tra noi vivaci discussioni per la scelta del gappista
che avrebbe dovuto portarla a termine. Ognuno di noi si era offerto e aveva
insistito perché gli fosse affidato quel compito.
Dopo
un'ampia consultazione individuale con tutti noi sentito anche il comando militare
di Roma, Salinari decise che al «carrettino» ci fossi io.
Salinari
e Calamandrei, che avrebbero presenziato all'azione e l'avrebbero diretta personalmente,
indicarono anche gli altri compagni che dovevano effettuare la seconda parte dell'attacco,
non meno importante e non meno rischiosa: si trattava infatti di lanciare alcune
bombe a mano sui tedeschi colpiti dall'esplosione del mio carretto. Furono scelti
per questo Raoul Falcioni, Francesco Curreli e Silvio Serra.
Raoul
Falcioni era un tassinaro romano, che già si era distinto in numerose azioni a fuoco.
Francesco Curreli era un sardo; ex pastore, ex muratore, ex emigrato
antifascista in Algeria, aveva fatto la guerra di Spagna nelle file dei
garibaldini e la Resistenza in Francia. Era un uomo meraviglioso e modesto,
asciutto e duro ma semplice e gentile come sanno esserlo i sardi. Anche Silvio
Serra era un sardo; giovanissimo - aveva18 o 19 anni- si occupava di poesia.
Era sensibile e colto: morì più tardi, in uno scontro a fuoco presso Alfonsine,
come fante del gruppo di combattimento «Cremona».
Gli
altri gappisti, Pasquale Balsamo, Fernando Vitagliano, Guglielmo Blasi (che solo
pochi giorni dopo ci avrebbe traditi), Carlo Salinari, Franco Calamandrei, avevano
compiti vari di coordinamento e di copertura.
L'ordigno
da introdurre nel carrettino delle immondizie fu preparato, come al solito, da
Giulio Cortini da sua moglie, Laura Garroni; Carla e io li aiutammo. Il
carrettino era stato rubato da Raoul Falcioni in un deposito che i netturbini
romani tenevano presso il Colosseo e portato di notte nella cantina di Duilio
in via Marco Aurelio. La divisa da spazzino ci fu data da un compagno della
nettezza urbana.
Il
tritolo ci era stato fornito, come tutte le altre volte, dalla organizzazione
del Centro Militare che, per i suoi contatti con l'esercito, aveva più facilità
di noi nel procurarsi l'esplosivo. Dodici chili di tritolo furono introdotti
dentro una cassetta di ferro che era stata preparata nelle officine della Romana
Gas. Insieme all'esplosivo furono introdotti nella cassetta parecchi spezzoni
di ferro e questa infine fu serrata con un coperchio scorrevole che la rendeva
in pratica a chiusura ermetica. Vi fu innescato un detonatore al fulminato di
mercurio con una miccia lunga 50 cm, che durasse cioè i 50 secondi che avevamo
calcolato.
Le
bombe che dovevano servire alla squadra che avrebbe condotto il secondo attacco
sulla colonna tedesca erano bombe da mortaio Brixia forniteci dagli ufficiali
del Centro Militare e modificate come bombe a mano.
Il23
marzo era una magnifica giornata. Il sole splendeva alto quando mettemmo a punto
le ultime disposizioni e gli ultimi elementi per condurre l'attacco.
(…)
Mi
cambiai rapidamente nella cantina di Duilio. Indossai sopra i miei abiti un
camice rozzo di tela grezza, blu scuro. M'ero messo sotto un paio di calzoni
vecchi e delle vecchie scarpe di coppale, molto rovinate, allacciate con uno
spaghetto rosso. Calcai sulla testa un berretto alto con la visiera nera. I
netturbini, allora, portavano appunto un berretto di panno blu simile a quello
grigioverde dei soldati della Prima guerra mondiale.
Sollevammo
con cura il carrettino, con l'ordigno già preparato, e lo trasportammo per le
scale che dalla cantina portavano al pianterreno. Salutai i compagni e mi
avviai.
All'ultimo
momento, intorno alla cassetta di ferro contenente i dodici chili di tritolo,
ne avevamo collocati altri sei chili sfusi che ci erano avanzati. Il tutto era
stato coperto da un po' di immondizia. Nel carrettino un corto pezzo di legno, che
dal fondo saliva verso l'apertura, serviva da supporto alla miccia che gli si arrotolava
intorno come un ramo secco.
Il
carrettino traballava sulle strade e sul selciato. Mi avviai verso il Colosseo.
Mi
poteva accadere, tra l'altro, e ne ero stato messo in guardia, che gli spazzini
delle zone che avrei attraversato non conoscendomi, mi rivolgessero domande
imbarazzanti. Anche gli ispettori della NU avrebbero potuto fermarmi per
controllare le ragioni del mio dislocamento. Infatti ogni spazzino aveva un giro
ben preciso e gli ispettori conoscevano personalmente e controllavano i
lavoratori del loro giro.
Avevo
preparato una risposta: «Mi hanno chiesto di fare un carico di cemento e lo vado
a fare; mi guadagno qualche lira».
Il
carrettino era molto pesante. Era di metallo con un doppio bidone quadrangolare.
Il tritolo era stato disposto nel bidone posteriore. Sotto il camiciotto di
tela blu avevo caldo; sudavo per l'emozione e per la fatica.
Appena
imboccata la piazza del Colosseo capitai quasi addosso a una mia amica. Voltai
di colpo la testa. Sono certo che non pensò neppure un momento che sotto quel
travestimento ci potessi essere io. Continuai a camminare, a spingere quel
pesante ordigno. Di lontano, Raoul Falcioni mi scortava. Attraversai via dell'Impero
e per il Foro Traiano e la via Tre Cannelle, mi arrampicai verso il Quirinale.
Tra
l'altro, mi dicevo, avremmo potuto utilizzare un carrettino con un bidone solo.
Avrei faticato di meno. Che bisogno c'era di due bidoni?
Quante
salite ci sono a Roma! E quelle salite, che ero abituato a fare di slancio in
bicicletta senza fatica, in quella tensione, in quell'occasione, in quel primo
caldo di primavera, mi pesavano come uno sforzo inumano. Poi c'erano le selci,
i sampietrini, che facevano bella la mia città, più che l'asfalto anonimo, ma
che rendevano malcerto e più faticoso il cammino del veicolo che mi spingevo
davanti.
Al
Quirinale due spazzini mi diedero una voce. «Aho! Macché fai da 'ste parti?»
«Che
te frega», risposi, «carico cemento.» Si misero a ridere.
«Ma
piantala, facce vede' li preciutti!» Si erano avvicinati. Sfottenti, si
accingevano a alzare il coperchio di uno dei bidoni, convinti che facessi il
borsaro nero. Li trattai male, che si facessero i cavoli loro. Ripresero a
ridere e mi lasciarono andare. Raoul si era rapidamente avvicinato, ma quando
vide che tutto si era risolto, si allontanò di nuovo. Imboccai la via del
Quirinale: stavo per giungere a destinazione.
La
discesa di via Quattro Fontane mi fece faticare forse più delle salite che
avevo affrontato. Il carrettino aveva voglia di mettersi a correre e io dovevo trattenerlo
per non lasciarmelo sfuggire. Abbordai la curva fra via Quattro Fontane e via
Rasella a una discreta andatura e riuscii a frenare, davanti a palazzo Tittoni,
con gli appoggi del carrettino stesso.
Disposi
il carrettino non contro il muro, ma verso il centro della strada, cosicché la colonna
tedesca sopraggiungendo fosse costretta a fare un gomito intorno a esso, e
aspettai. Erano le 2 del pomeriggio. In genere i nazisti arrivavano verso le
2,15.
Giù
in basso e nelle strade adiacenti i compagni avevano disposto la loro
formazione.
Mentre
mi allontanavo dalla cantina di Duilio con il mio traballante carretto, Giulio
e la moglie erano tornati indietro a mettere un po' d'ordine. Il loro compito
si era esaurito. Li avrei rivisti un'ora dopo l'azione all'appuntamento che
avevamo fissato in piazza Vittorio. Raoul Falcioni mi seguiva a poca distanza,
mentre Carla si diresse verso il Colosseo dove avrebbe incontrato Guglielmo
Blasi.
Per
un po', Carla e Guglielmo mi seguirono. Al Foro Traiano presero una strada diversa
dalla mia e si diressero, ciascuno per proprio conto, verso il Tritone per via
della Pilotta e Fontana di Trevi.
Raoul
mi scortò fino al momento in cui ebbi piazzato il carretto davanti a palazzo
Tittoni, poi scese giù per via Rasella e si appostò all'ingresso dei Traforo
con Fernando Vitagliano e Pasquale Balsamo.
Silvio
Serra aspettava più lontano, insieme a Marisa Musu che fungeva da staffetta,
sull'angolo del palazzo di Propaganda Fides tra via Due Macelli, via Fratina e
piazza di Spagna. Suo compito era avvistare per primo i tedeschi che sarebbero
venuti da via del Babuino e recarsi a incontrare al Traforo Raoul e Fernando.
Marisa Musu manteneva il contatto con i due comandanti, Salinari e Calamandrei.
Questa mossa sarebbe stato il primo segnale dell'arrivo del nemico.
Francesco
Curreli stava invece nell'angolo del Tritone con la via del Traforo, là dove la
strada si allarga in uno spiazzo. All'altro angolo, sotto il palazzo del
Messaggero, era Pasquale Balsamo, che intanto aveva lasciato Raoul e Silvio.
Il
passaggio di Silvio Serra avrebbe dovuto richiamare anche Curreli a incontrarsi
con Raoul e lo stesso Silvio all'imboccatura del Traforo. Di lì sarebbero
risaliti per la via dei Giardini, che costeggia il Quirinale, fino a via del
Boccaccio, di dove avrebbero condotto la seconda parte dell'attacco al reparto
nazista.
Carla
aspettava, davanti all'ingresso del «Messaggero», che Pasquale Balsamo l'avvertisse
del passaggio di Silvio. Calamandrei e Salinari erano fermi invece in via del
Traforo: Cola all'angolo di via Rasella e Spartaco all'angolo di via del
Lavatore.
Alle
2 in punto il nostro dispositivo era pronto a scattare. Cominciava un'attesa
che avevamo previsto breve, e i nostri nervi erano già tesi all'azione
imminente.
I
tedeschi invece, proprio quel giorno, contrariamente alla loro proverbiale
puntualità, non si vedevano. Il tempo passava e i compagni che avrebbero dovuto
portarmi le notizie e l'allarme non si facevano vivi. Vennero le 2,15, le 2,20,
le 2,30, le 2,45: i tedeschi non arrivavano.
Io
avevo solo tre sigarette, dovevo accendere con una di quelle la miccia, ma per
essere certo che l'accensione sarebbe stata efficace ne avevo disposto il
tabacco dentro una pipa.
Cercavo
di ingannare il tempo passeggiando in su e in giù, ero preoccupato perché la
mia prolungata permanenza stava dando nell'occhio. Un tale, che era già passato
più volte davanti a me, mi disse con aria scherzosa: «Aho! Sta arrivando l'ispettore!».
Stavo lì senza far niente: ero uno spazzino che alle 3 del pomeriggio se ne sta
appoggiato contro il muro, con il carrettino fermo in mezzo alla strada, con la
scopa ai piedi, senza fare niente! Cercai di darmi un contegno, presi la scopa
e cominciai a spazzare. Era una ramazza da strada, dura e pesante, con un
manico lungo e ciuffi rigidi di rami all'estremità: non la sapevo usare. Mi
sentivo goffo, idiota, mentre manovravo quella scopa: pensai che forse era
meglio smetterla, perché la mia imperizia e la mia goffaggine avrebbero potuto
tradirmi.
Appoggiai
di nuovo la scopa al suo posto, su una specie di doppia mensola uncinata,
sistemata a uno dei lati del carrettino. Cercai di darmi di nuovo un contegno,
fischiettando.
C'era
anche un vecchio soldato della Croce Rossa, di guardia, a palazzo Tittoni. Anche
lui mi osservava incuriosito e anche lui sembrava voler attaccare discorso. Ma
io non potevo, non potevo proprio anche se ne avevo una gran voglia. Avrei
voluto parlare con lui, con due ragazzine che intanto si erano allontanate, con
la gente che passava, non soltanto quando avrei dovuto avvertirli di scappare
se non volevano morire. Volevo che almeno qualche compagno, di quelli che
intorno a via Rasella aspettavano i tedeschi insieme con me, mi passasse vicino,
mi rivolgesse una frase, un sorriso. Invece, ero solo, lì, e dovevo essere
solo. Quella gente, quel sole, gli altri, anche gli altri compagni, non c'erano
e non dovevano esserci, c'eravamo io e il mio carrettino, e il tritolo dentro,
e i tedeschi che dovevano venire, e il segnale che aspettavo. Poi c'era anche
il resto del mondo, c'era la mia città, c'erano i compagni nelle carceri, c'era
la guerra che infuriava in Europa. Poi c'erano, c'erano certamente, parti del
mondo in cui la gente era felice, e rideva, e non uccideva e non temeva di
essere uccisa. Ma tutto questo per me non doveva contare, non esisteva neppure.
Io aspettavo i tedeschi. E il segnale. Ma i tedeschi non arrivavano.
Non
riuscivo a capire il perché di questo ritardo. Per settimane i tedeschi erano
passati di lì puntualmente: oggi no. I miei compagni non si avvicinavano, io
rimanevo lì, solo, a attendere. Erano già le 3,15: fra un'ora, un'ora e mezzo
al massimo, bisognava senz' altro tornare indietro perché alle 6 iniziava il
coprifuoco. D'altra parte, il mancato arrivo dei tedeschi era così impensabile
che non lo avevamo previsto, e quindi non avevamo predisposto un piano di
ritirata nel caso che l'azione non si fosse potuta compiere.
Non
era possibile riportare il carrettino al deposito, nella cantina di Duilio.
Anche questo pensiero mi turbava per lo sforzo e per il rischio inutile che
avrebbe ancora significato. Oltre tutto non avremmo certo potuto abbandonare quell'ordigno
senza averlo reso innocuo. Molte volte, ricordavo, avevamo rischiato la vita,
dopo il fallimento di un attacco, per recuperare i nostri esplosivi, in modo
che non costituissero pericolo per i civili.
Questi
pensieri mi premevano dentro, spingevano fino alla paura la mia tensione.
Finalmente,
a un certo punto Pasquale Balsamo si avvicina, ammicca verso di me. «Bene»,
dico, «ci siamo». Accendo la pipa. Ma è un falso allarme. Pasquale si è
sbagliato.
L'attesa
snervante per me, non lo era di meno per gli altri.
Carla,
che aveva sul braccio il mio impermeabile e nella piccola borsetta una pistola
con due caricatori di ricambio, era rimasta a lungo davanti all'edicola del «Messaggero»
fingendo un interesse che non aveva verso i giornali che vi erano esposti. Dopo
un po' che stava lì, due poliziotti in borghese, che l'avevano notata,
l'abbordarono. Le chiesero i documenti. Ella non ne aveva: aveva la pistola
nella borsetta, se l'avessero fermata era finita per lei e tutta l'azione poteva
andare in aria.
I
due agenti, per fortuna, di fronte a una bella ragazza non dimenticarono il
loro gallismo meridionale: il loro tono rimase fatuo, superficiale, allegro.
Carla cercò di reggere il gioco, fece finta di considerarli corteggiatori
importuni e continuò a leggere il giornale esposto nell'edicola. I due dissero ancora
qualche parola, poi la lasciarono in pace.
Pasquale,
che intanto era tornato al suo posto e aveva assistito alla scena, si avvicinò
all'edicola e le bisbigliò una frase sfottente. Carla credette di capire che
fosse il segnale e partì. La vidi passare davanti a me per recarsi all'angolo
di via Rasella con via Quattro Fontane, dove mi doveva attendere.
Per
me fu il secondo segnale sbagliato. Accesi di nuovo la pipa e aspettai con
ansia rinnovata.
Nel
fornello della pipa, il tabacco continuava a consumarsi, ma i tedeschi non
arrivavano. Il cuore mi batteva forte, ma dei tedeschi nemmeno l'ombra.
Carla
si fermò in via Quattro Fontane, dinanzi al cancello di palazzo Barberini. I
due poliziotti l'avevano seguita e uno di essi l'avvicinò di nuovo, chiedendole
perché portava un impermeabile da uomo sul braccio: ella rispose che era per il
suo fidanzato, un ufficiale che in quel momento stava al Circolo militare di
palazzo Barberini e con il quale aveva un appuntamento. Poi, provvidenziale,
vide un'amica della madre. Le corse incontro e così riuscì a sganciare il
poliziotto.
Si
mise a chiacchierare con la signora, che non finiva mai di parlare e le
raccontava tanti inutili tediosi fatti di famiglia.
I
due poliziotti rimasero un po' più in là a osservarla.
Pasquale,
intanto, era tornato di sotto, verso il Traforo.
Si
avvicinò a Fernando e a Raoul. Con Fernando si mise a litigare per i falsi
allarmi e per la confusione che cresceva tra noi contemporaneamente al ritardo
dei tedeschi. Raoul seccamente zittì entrambi e li invitò a riprendere con
calma i loro posti.
Passavano
i minuti. I tedeschi non arrivavano. Calamandrei, che mi doveva dare il segnale
dal basso, non era ancora visibile per me. Non capivo cosa stesse succedendo.
Carla
era passata. Ella doveva raggiungere l'angolo di via Quattro Fontane con via
Rasella qualche minuto prima dell'arrivo dei tedeschi per attendermi, darmi
l'impermeabile e accompagnarmi, come scorta, verso la base. «Bene», avevo detto
quando l'avevo vista, «ci siamo. Questa volta ci siamo». Ma i tedeschi non arrivavano,
il tabacco si consumava e spensi di nuovo la pipa.
D'improvviso,
dal basso, dalla via del Traforo, vidi sopraggiungere una pattuglia. Credetti
che fosse la pattuglia di avanguardia. «Eccoli», mi dissi, «questa è la volta
buona». Risalivano la strada, non cantavano, in un gruppetto allineato non
seguito dal grosso. Per la terza volta avevo acceso la pipa: per la terza volta
la dovetti spegnere.
Il
tempo passava terribilmente lento, sudavo, e la preoccupazione si stava
trasformando in ansia: i miei nervi stavano saltando.
Alle
3,45 passa di nuovo Pasquale Balsamo. Passa lentamente, molto vicino a me, parla
a mezza bocca: «Se alle 4 non sono arrivati prendi il carrettino e andiamo
via».
«Dove?»
gli chiesi con un cenno.
«Seguirai
uno di noi», mi disse, e si allontanò.
Carla,
intanto, aveva sganciato anche l'amica della madre ed era di nuovo all'angolo
di via Quattro Fontane. La vidi e ne ebbi sollievo.
Erano
le 3,50.
D'improvviso
ecco giungere Guglielmo Blasi che nel frattempo si era appostato in un
portoncino, sulla via Rasella, poco più in basso e di fronte a me. «Arrivano»,
mi fece, «stai pronto.» Io accesi di nuovo la pipa. Era comparso Cola, all'angolo
della strada, giù in fondo. Saliva lentamente a prendere posizione nel punto da
cui mi avrebbe dato il segnale. Ciascuno di noi era al suo posto.
Pasquale
ricomparve vicino a me, leggero e ironico, per la terza volta, e ammiccò.
Stavano veramente arrivando. Guardai in basso, verso la strada in discesa, e
all'angolo apparve la pattuglia di avanguardia, quella vera. Venivano su, verdi
nelle loro divise come ramarri, con i mitra sul ventre.
Era
un piccolo drappello di pochi uomini, che precedeva come gli altri giorni, il
grosso della compagnia. Gli altri li dovevano seguire a una ventina di metri.
Cola
intanto aveva raggiunto l'angolo di via del Boccaccio e si era fermato. I nazisti
lo superarono, e superarono anche me, mentre, in basso, spuntava la prima fila
della colonna.
Venivano
su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di
Hitler. 160 uomini della polizia nazista con le insegne dell'esercito nazista,
in tutto uguali a coloro che rastrellavano i cittadini inermi, agli assassini di
Teresa Gullace e di Giorgio Labò.
Le
divise, le armi puntate, il passo cadenzato, perfino la carretta su cui era
piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo
azzurro di Roma, agli intonachi, ai sampietrini, al verde che il parco di
palazzo Barberini riverberava dolce sulla via Rasella. Era un oltraggio che si
ripeteva, dai millenni e nei millenni; e il Vae
victis di Kesselring non aveva di fronte, a rintuzzarlo, che le armi e il
coraggio dei partigiani. Oggi il nostro tritolo.
Venivano
su cantando, macabri e ridicoli e i segni di morte che avevano indosso erano,
stavolta, i segni della loro condanna.
Avevano
superato Cola, egli si tolse il berretto. Si avvicinarono a me, ebbri di sicurezza
e di un sole usurpato, che non era il loro. Non erano loro quella primavera,
quei colori. Erano loro' il terrore, la morte che avevano seminato per le vie deserte
di Roma, la guerra che avevano portato dentro le case e nelle scuole, ma anche
la morte che era in agguato sulle montagne e dietro gli angoli delle nostre
strade, cui non servivano da freno il coprifuoco e la fame, le rappresaglie e
le torture, la morte che li colpiva improvvisa, che li terrorizzava e dava l'avviso
di una giustizia che non avrebbe tardato troppo a sopraggiungere.
Cola
si era tolto il berretto.
Alzai
a mia volta il coperchio del bidone dove era stato disposto il tritolo e
avvicinai il fornello della pipa alla miccia. C'era molta cenere, ormai, nella
mia pipa e la miccia tardò un poco a prendere. Poi la sentii sfrigolare, con un
rumore che mi era ormai consueto, e mi raggiunse, acre, l'odore del fumo.
Allora riabbassai il coperchio, mi tolsi il cappello e lo deposi sul
carrettino: era quello il segnale con il quale avvertivo i miei compagni che la
miccia era stata accesa. Tra 50 secondi esatti ci sarebbe stata l'esplosione.
Non
appena ebbi compiuto questo atto il vecchio soldato della Croce Rossa, che entrava
e usciva dal portone, tornò a uscire di nuovo. «Vattene», gli dissi, «vattene
subito qui tra poco ci sarà un macello: stanno arrivando i tedeschi.» Non so se
capì, comunque scappò via. Lo rividi dopo la Liberazione, mi venne a
ringraziare accompagnato dalla moglie per l'avviso che gli avevo dato e che era
valso a salvargli la vita.
Mi
avviai lentamente, molto lentamente, cercando di non essere notato, verso via
Quattro Fontane, verso Carla che mi aspettava all'angolo con via Rasella.
Sentivo
i tedeschi avanzare. Il loro passo si faceva sempre più vicino, le loro voci si
facevano sempre più alte. Una ventina di metri oltre il carrettino c'era un
camion dal quale tre o quattro operai scaricavano materiale di risulta da una
casa in restauro. «Andatevene», dissi anche a loro «stanno arrivando i tedeschi!»
Non so se capirono, forse non si resero conto di quello che stava per accadere.
Tuttavia se la squagliarono.
Raggiunsi
Carla sull'angolo e quasi contemporaneamente mi infilai l'impermeabile per
coprire il mio camiciotto da spazzino. Impugnai, nella tasca, la pistola già
libera della sicura.
Il
boato dell'esplosione, enorme, squassò il centro della città. Un filobus che
scendeva lungo via Quattro Fontane, sbandò un momento, come se l'esplosione
avesse fatto sobbalzare il conducente.
Guardai
dietro di me. La compagnia nazista era tutta a terra. Mi avvicinai verso l'alto,
verso via Nazionale. Subito dopo sentii le esplosioni delle bombe a mano che i
compagni scagliavano sui tedeschi a terra, ad annientare il reparto, e
contemporaneamente, da palazzo Barberini, gruppi di guardie di Finanza uscirono
correndo e disposero i cordoni.
Facemmo
appena in tempo a passare.
Quando
i tedeschi furono investiti dalla esplosione del mio carrettino, Raoul, Silvio e
Francesco erano balzati fuori dell'angolo di via del Boccaccio, dove si erano
appostati, e avevano scagliato le loro bombe. Ma intanto era sopraggiunta la
pattuglia di retroguardia, con la quale avevano dovuto impegnare subito uno scambio
di colpi di arma da fuoco per sganciarsi e allontanarsi verso il Traforo.
Con
loro c'erano anche Carlo Salinari e Franco Calamandrei.
(…)
Lo
stato di isolamento in cui vivevamo impedì che ci rendessimo conto del
turbamento che aveva colpito le autorità germaniche. Nella città, tutto sembrava
tranquillo, né trapelava sentore della ritorsione che qualche ora dopo i
tedeschi avrebbero condotto a termine. Prima ancora che scadessero le 24 ore
dall'attentato e senza che nessun avviso o comunicazione fossero dati alla cittadinanza
e alle forze della Resistenza, i tedeschi cominciarono a uccidere alle Fosse Ardeatine
335 italiani.
Il
24 marzo era passato per noi senza avvenimenti particolari.