23 marzo 1944: l'attacco partigiano di Via Rasella,
Brano tratto dal libro di Rosario Bentivegna "Achtung Banditen!"
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Via Rasella è una
strada stretta, che si arrampica, parallela al Tritone, nel centro di Roma,
verso la Villa Barberini. Era allora una strada di poco traffico e, nella parte
alta, priva di negozi e con pochi portoni.
Fu
in via Rasella che portammo a termine la più importante azione di guerra che i
partigiani abbiano condotto a Roma, senza dubbio una delle più importanti, d'Europa.
Avevamo
notato, nei mesi precedenti, come la città fosse talvolta percorsa da un
reparto con le divise della polizia nazista.
Il
reparto veniva dal Flaminio, passava per via del Babuino, per piazza di Spagna,
per le zone più belle della nostra città. Attraversava il Tritone e su per via
Rasella si avviava al Viminale.
Era
composto da 160 uomini, con gli elmetti di acciaio e le pistole mitragliatrici sul
ventre; lo precedeva una pattuglia di avanguardia ed era seguito da un carretto
trainato da un mulo su cui era appostata una mitragliatrice pesante. Mario
Fiorentini li vide sfilare, un giorno di febbraio, quando io ero ancora a
Centocelle e subito pensò di attaccarli. Carlo Salinari, con l'assenso dei
comandi superiori, compreso Giorgio Amendola, approvò l'iniziativa e furono quindi
elaborati piani diversi per diverse evenienze.
Il
primo progetto prevedeva che l'attacco al reparto nazista venisse condotto in
via Quattro Fontane, con ritirata dei partigiani per via dei Giardini. Il punto
dello scontro sarebbe stato sulla via Quattro Fontane, tra gli sbocchi di via Rasella
e di via dei Giardini, e mentre il grosso della colonna era ancora impegnato in
via Rasella.
L'esecuzione
di tale piano doveva essere affidata a Mario Fiorentini, Fernando Vitagliano e
Franco Di Lernia che, armati ciascuno di uno «spezzone» da un chilo di tritolo,
appostati dietro l'angolo di via Quattro Fontane, avrebbero affrontato la testa
della colonna, scagliando su di essa le loro bombe e quindi fuggendo nei due
sensi per via Quattro Fontane o per via dei Giardini. L'azione in questo modo
si presentava abbastanza rischiosa e l'effetto, sia pur rilevante, non sarebbe
stato però notevolissimo. D'altro canto sorgeva una preoccupazione: come ho detto,
la colonna era preceduta e seguita da una pattuglia di avanguardia e da una di retroguardia.
Attaccare la pattuglia di avanguardia, composta di pochi uomini, avrebbe dato
un risultato piuttosto modesto.
Attaccare
il grosso subito dopo avrebbe potuto incastrare i partigiani tra due fuochi.
Attaccare contemporaneamente il reparto e la pattuglia di avanguardia era cosa
di non facile attuazione. Conveniva, dunque, studiare un piano più attento e
dettagliato che permettesse tra l'altro di imbottigliare tutto il reparto nella
strettoia di via Rasella in modo da poterlo praticamente distruggere.
Mario
Fiorentini era già pronto, con i suoi, ad attaccare, ma la colonna per qualche
giorno non passò più per quella via. D'altra parte Salinari comunicò a
«Giovanni» che il comando aveva deciso di dare in via Rasella una grande
battaglia. Fu quindi messo a punto un secondo piano, che si sarebbe sviluppato
in via Rasella con diverse direttrici d'attacco. Due coppie (Borghesi e Marisa
Musu, Mario Fiorentini e Lucia) avrebbero fatto esplodere due ordigni lungo la colonna
in marcia; subito dopo le esplosioni una squadra avrebbe attaccato la colonna
dall'alto e un'altra dal basso.
In
questi piani, preparati qualche settimana prima del 23 marzo, non era prevista
la mia partecipazione all'attacco perché io ero ancora impegnato a Centocelle.
Mario
Fiorentini si era battuto perché si attuasse l'attacco in via Quattro Fontane:
infatti egli poteva essere riconosciuto in via Rasella, perché frequentava una
sua cugina che abitava lì, e la casa di un vecchio compagno operaio della Breda
che egli conosceva era proprio davanti a palazzo Tittoni.
Nel
frattempo la colonna riprese a percorrere via Rasella, e Salinari avvertì che
occorreva predisporre l'azione per il 23 marzo, contemporaneamente a un attacco
che andava effettuato al teatro Adriano, contro i fascisti che colà dovevano
riunirsi per celebrare l'anniversario della fondazione del loro partito.
Io
avevo lasciato, ai primi di marzo, i miei compagni di Centocelle ed ero
rientrato nelle file dei GAP, che intanto si erano unificati.
Un
giorno Mario Fiorentini e Lucia invitarono Carla e me a mangiare qualcosa in
una bottiglieria all'angolo di via del Lavatore, che dall'altra parte di via
del Traforo fronteggia via Rasella. Mentre mangiavamo, egli mi fece vedere dalla
porta della bottiglieria i tedeschi che passavano. Cantavano. Le loro canzoni,
la loro voce, il loro passo cadenzato, l'orgoglio del nazismo, il loro incedere
da occupatori sprezzanti, suscitavano in chiunque si trovasse a passare di lì
un brivido di paura.
«Bisogna
colpirli, quelli lì», dissi a Mario. Egli sorrise. Aveva una sua aria sorniona
di ridere: con gli occhi stretti, si umettava un paio di volte le labbra con la
lingua e rovesciava un poco la testa all'indietro. «Per questo siamo qui», mi
rispose. «Tu come faresti?»
Cominciammo
tutti e quattro a discutere animatamente. Egli aveva già una sua idea che ci
sembrò eccellente. Mario aveva una mente molto fertile in fatto di idee e di
piani: era riuscito a trovare soluzioni audaci e brillanti che ci avevano permesso
di portare a termine un gran numero di azioni. I suoi piani erano sempre ben
elaborati, e le situazioni e i mezzi da lui escogitati erano impensabili e
originali. Anche in questa occasione aveva già ideato ed elaborato un progetto che
mi sembrava valido: un partigiano vestito da spazzino avrebbe dovuto attestarsi
nella parte superiore di Via Rasella, nella quale il traffico era meno intenso.
Là, giunto il momento, avrebbe fatto esplodere il suo carrettino carico di tritolo.
Questo
attacco, condotto sulla parte alta della strada, avrebbe respinto indietro i
tedeschi i quali ritirandosi avrebbero incontrato un altro gruppo di partigiani
appostato dietro l'angolo della via del Boccaccio che avrebbe completato l'azione
con un lancio di bombe a mano. Grande importanza avevano per noi i crocicchi e
gli angoli. Erano i nostri capisaldi, i nostri camminamenti e le casematte
della nostra guerra. Via Rasella si prestava anche in questo senso, fornendoci un'ottima
protezione per via del Boccaccio che la interseca verso il terzo inferiore.
Ci
preparammo studiando esattamente i tempi, cronometrando i minuti che i tedeschi
impiegavano, nel raggiungere da un punto determinato (che avremmo usato come traguardo
di partenza e di segnalazione) il luogo dove avremmo messo il carrettino, davanti
all'ingresso di palazzo Tittoni. Lo spazio tra i due punti veniva coperto dalla
colonna in 50 secondi.
Il
posto ci sembrava interessante anche dal punto di vista «storico» perché
palazzo Tittoni era stato la sede del primo governo Mussolini. Volevamo che
anche i tedeschi se lo ricordassero, quel punto: si stava avvicinando il 23
marzo e potevamo celebrare insieme, davanti alla sede del primo governo Mussolini,
l'anniversario della fondazione del fascio.
Anche
i fascisti pensavano di celebrare quell' anniversario e a nostra volta, come ho
detto, decidemmo di ricordarci anche di loro. Volevamo accomunarli, in quella
giornata, ai loro camerati germanici.
Era
stato annunciato, infatti, che all'Adriano ci sarebbe stata una grande
manifestazione del fascio repubblichino di Roma. Ci preparammo a essere presenti:
fuori del teatro, alla fine dell'adunata, una donna con una carrozzina da
bambini avrebbe dovuto avvicinare i fascisti che uscivano, lasciare la
carrozzina in mezzo a loro e far esplodere, con un sistema a tempo, il tritolo
disposto sul fondo del veicolo.
Qualche
giorno prima del 23, il 10 marzo, noi avevamo condotto un duro attacco a una
manifestazione fascista in via Tomacelli.
(…)
Dopo
questa vicenda, i tedeschi impedirono ai «camerati romani» di uscire da soli.
Niente più manifestazioni pubbliche e quindi niente più adunate all'Adriano per
il 23 marzo.
Anche
i nostri piani, di conseguenza, furono rivisti e decidemmo di attaccare solo i
tedeschi.
Dopo
la verifica e l'approvazione del comando militare passammo alla realizzazione
pratica del nostro piano di attacco al reparto della polizia nazista.
Un
carrettino di immondizie carico di tritolo sarebbe stato posto all'altezza di
palazzo Tittoni. L'attuazione di questa prima parte dell'attacco, che era senza
dubbio la più importante, suscitò tra noi vivaci discussioni per la scelta del gappista
che avrebbe dovuto portarla a termine. Ognuno di noi si era offerto e aveva
insistito perché gli fosse affidato quel compito.
Dopo
un'ampia consultazione individuale con tutti noi sentito anche il comando militare
di Roma, Salinari decise che al «carrettino» ci fossi io.
Salinari
e Calamandrei, che avrebbero presenziato all'azione e l'avrebbero diretta personalmente,
indicarono anche gli altri compagni che dovevano effettuare la seconda parte dell'attacco,
non meno importante e non meno rischiosa: si trattava infatti di lanciare alcune
bombe a mano sui tedeschi colpiti dall'esplosione del mio carretto. Furono scelti
per questo Raoul Falcioni, Francesco Curreli e Silvio Serra.
Raoul
Falcioni era un tassinaro romano, che già si era distinto in numerose azioni a fuoco.
Francesco Curreli era un sardo; ex pastore, ex muratore, ex emigrato
antifascista in Algeria, aveva fatto la guerra di Spagna nelle file dei
garibaldini e la Resistenza in Francia. Era un uomo meraviglioso e modesto,
asciutto e duro ma semplice e gentile come sanno esserlo i sardi. Anche Silvio
Serra era un sardo; giovanissimo - aveva18 o 19 anni- si occupava di poesia.
Era sensibile e colto: morì più tardi, in uno scontro a fuoco presso Alfonsine,
come fante del gruppo di combattimento «Cremona».
Gli
altri gappisti, Pasquale Balsamo, Fernando Vitagliano, Guglielmo Blasi (che solo
pochi giorni dopo ci avrebbe traditi), Carlo Salinari, Franco Calamandrei, avevano
compiti vari di coordinamento e di copertura.
L'ordigno
da introdurre nel carrettino delle immondizie fu preparato, come al solito, da
Giulio Cortini da sua moglie, Laura Garroni; Carla e io li aiutammo. Il
carrettino era stato rubato da Raoul Falcioni in un deposito che i netturbini
romani tenevano presso il Colosseo e portato di notte nella cantina di Duilio
in via Marco Aurelio. La divisa da spazzino ci fu data da un compagno della
nettezza urbana.
Il
tritolo ci era stato fornito, come tutte le altre volte, dalla organizzazione
del Centro Militare che, per i suoi contatti con l'esercito, aveva più facilità
di noi nel procurarsi l'esplosivo. Dodici chili di tritolo furono introdotti
dentro una cassetta di ferro che era stata preparata nelle officine della Romana
Gas. Insieme all'esplosivo furono introdotti nella cassetta parecchi spezzoni
di ferro e questa infine fu serrata con un coperchio scorrevole che la rendeva
in pratica a chiusura ermetica. Vi fu innescato un detonatore al fulminato di
mercurio con una miccia lunga 50 cm, che durasse cioè i 50 secondi che avevamo
calcolato.
Le
bombe che dovevano servire alla squadra che avrebbe condotto il secondo attacco
sulla colonna tedesca erano bombe da mortaio Brixia forniteci dagli ufficiali
del Centro Militare e modificate come bombe a mano.
Il23
marzo era una magnifica giornata. Il sole splendeva alto quando mettemmo a punto
le ultime disposizioni e gli ultimi elementi per condurre l'attacco.
(…)
Mi
cambiai rapidamente nella cantina di Duilio. Indossai sopra i miei abiti un
camice rozzo di tela grezza, blu scuro. M'ero messo sotto un paio di calzoni
vecchi e delle vecchie scarpe di coppale, molto rovinate, allacciate con uno
spaghetto rosso. Calcai sulla testa un berretto alto con la visiera nera. I
netturbini, allora, portavano appunto un berretto di panno blu simile a quello
grigioverde dei soldati della Prima guerra mondiale.
Sollevammo
con cura il carrettino, con l'ordigno già preparato, e lo trasportammo per le
scale che dalla cantina portavano al pianterreno. Salutai i compagni e mi
avviai.
All'ultimo
momento, intorno alla cassetta di ferro contenente i dodici chili di tritolo,
ne avevamo collocati altri sei chili sfusi che ci erano avanzati. Il tutto era
stato coperto da un po' di immondizia. Nel carrettino un corto pezzo di legno, che
dal fondo saliva verso l'apertura, serviva da supporto alla miccia che gli si arrotolava
intorno come un ramo secco.
Il
carrettino traballava sulle strade e sul selciato. Mi avviai verso il Colosseo.
Mi
poteva accadere, tra l'altro, e ne ero stato messo in guardia, che gli spazzini
delle zone che avrei attraversato non conoscendomi, mi rivolgessero domande
imbarazzanti. Anche gli ispettori della NU avrebbero potuto fermarmi per
controllare le ragioni del mio dislocamento. Infatti ogni spazzino aveva un giro
ben preciso e gli ispettori conoscevano personalmente e controllavano i
lavoratori del loro giro.
Avevo
preparato una risposta: «Mi hanno chiesto di fare un carico di cemento e lo vado
a fare; mi guadagno qualche lira».
Il
carrettino era molto pesante. Era di metallo con un doppio bidone quadrangolare.
Il tritolo era stato disposto nel bidone posteriore. Sotto il camiciotto di
tela blu avevo caldo; sudavo per l'emozione e per la fatica.
Appena
imboccata la piazza del Colosseo capitai quasi addosso a una mia amica. Voltai
di colpo la testa. Sono certo che non pensò neppure un momento che sotto quel
travestimento ci potessi essere io. Continuai a camminare, a spingere quel
pesante ordigno. Di lontano, Raoul Falcioni mi scortava. Attraversai via dell'Impero
e per il Foro Traiano e la via Tre Cannelle, mi arrampicai verso il Quirinale.
Tra
l'altro, mi dicevo, avremmo potuto utilizzare un carrettino con un bidone solo.
Avrei faticato di meno. Che bisogno c'era di due bidoni?
Quante
salite ci sono a Roma! E quelle salite, che ero abituato a fare di slancio in
bicicletta senza fatica, in quella tensione, in quell'occasione, in quel primo
caldo di primavera, mi pesavano come uno sforzo inumano. Poi c'erano le selci,
i sampietrini, che facevano bella la mia città, più che l'asfalto anonimo, ma
che rendevano malcerto e più faticoso il cammino del veicolo che mi spingevo
davanti.
Al
Quirinale due spazzini mi diedero una voce. «Aho! Macché fai da 'ste parti?»
«Che
te frega», risposi, «carico cemento.» Si misero a ridere.
«Ma
piantala, facce vede' li preciutti!» Si erano avvicinati. Sfottenti, si
accingevano a alzare il coperchio di uno dei bidoni, convinti che facessi il
borsaro nero. Li trattai male, che si facessero i cavoli loro. Ripresero a
ridere e mi lasciarono andare. Raoul si era rapidamente avvicinato, ma quando
vide che tutto si era risolto, si allontanò di nuovo. Imboccai la via del
Quirinale: stavo per giungere a destinazione.
La
discesa di via Quattro Fontane mi fece faticare forse più delle salite che
avevo affrontato. Il carrettino aveva voglia di mettersi a correre e io dovevo trattenerlo
per non lasciarmelo sfuggire. Abbordai la curva fra via Quattro Fontane e via
Rasella a una discreta andatura e riuscii a frenare, davanti a palazzo Tittoni,
con gli appoggi del carrettino stesso.
Disposi
il carrettino non contro il muro, ma verso il centro della strada, cosicché la colonna
tedesca sopraggiungendo fosse costretta a fare un gomito intorno a esso, e
aspettai. Erano le 2 del pomeriggio. In genere i nazisti arrivavano verso le
2,15.
Giù
in basso e nelle strade adiacenti i compagni avevano disposto la loro
formazione.
Mentre
mi allontanavo dalla cantina di Duilio con il mio traballante carretto, Giulio
e la moglie erano tornati indietro a mettere un po' d'ordine. Il loro compito
si era esaurito. Li avrei rivisti un'ora dopo l'azione all'appuntamento che
avevamo fissato in piazza Vittorio. Raoul Falcioni mi seguiva a poca distanza,
mentre Carla si diresse verso il Colosseo dove avrebbe incontrato Guglielmo
Blasi.
Per
un po', Carla e Guglielmo mi seguirono. Al Foro Traiano presero una strada diversa
dalla mia e si diressero, ciascuno per proprio conto, verso il Tritone per via
della Pilotta e Fontana di Trevi.
Raoul
mi scortò fino al momento in cui ebbi piazzato il carretto davanti a palazzo
Tittoni, poi scese giù per via Rasella e si appostò all'ingresso dei Traforo
con Fernando Vitagliano e Pasquale Balsamo.
Silvio
Serra aspettava più lontano, insieme a Marisa Musu che fungeva da staffetta,
sull'angolo del palazzo di Propaganda Fides tra via Due Macelli, via Fratina e
piazza di Spagna. Suo compito era avvistare per primo i tedeschi che sarebbero
venuti da via del Babuino e recarsi a incontrare al Traforo Raoul e Fernando.
Marisa Musu manteneva il contatto con i due comandanti, Salinari e Calamandrei.
Questa mossa sarebbe stato il primo segnale dell'arrivo del nemico.
Francesco
Curreli stava invece nell'angolo del Tritone con la via del Traforo, là dove la
strada si allarga in uno spiazzo. All'altro angolo, sotto il palazzo del
Messaggero, era Pasquale Balsamo, che intanto aveva lasciato Raoul e Silvio.
Il
passaggio di Silvio Serra avrebbe dovuto richiamare anche Curreli a incontrarsi
con Raoul e lo stesso Silvio all'imboccatura del Traforo. Di lì sarebbero
risaliti per la via dei Giardini, che costeggia il Quirinale, fino a via del
Boccaccio, di dove avrebbero condotto la seconda parte dell'attacco al reparto
nazista.
Carla
aspettava, davanti all'ingresso del «Messaggero», che Pasquale Balsamo l'avvertisse
del passaggio di Silvio. Calamandrei e Salinari erano fermi invece in via del
Traforo: Cola all'angolo di via Rasella e Spartaco all'angolo di via del
Lavatore.
Alle
2 in punto il nostro dispositivo era pronto a scattare. Cominciava un'attesa
che avevamo previsto breve, e i nostri nervi erano già tesi all'azione
imminente.
I
tedeschi invece, proprio quel giorno, contrariamente alla loro proverbiale
puntualità, non si vedevano. Il tempo passava e i compagni che avrebbero dovuto
portarmi le notizie e l'allarme non si facevano vivi. Vennero le 2,15, le 2,20,
le 2,30, le 2,45: i tedeschi non arrivavano.
Io
avevo solo tre sigarette, dovevo accendere con una di quelle la miccia, ma per
essere certo che l'accensione sarebbe stata efficace ne avevo disposto il
tabacco dentro una pipa.
Cercavo
di ingannare il tempo passeggiando in su e in giù, ero preoccupato perché la
mia prolungata permanenza stava dando nell'occhio. Un tale, che era già passato
più volte davanti a me, mi disse con aria scherzosa: «Aho! Sta arrivando l'ispettore!».
Stavo lì senza far niente: ero uno spazzino che alle 3 del pomeriggio se ne sta
appoggiato contro il muro, con il carrettino fermo in mezzo alla strada, con la
scopa ai piedi, senza fare niente! Cercai di darmi un contegno, presi la scopa
e cominciai a spazzare. Era una ramazza da strada, dura e pesante, con un
manico lungo e ciuffi rigidi di rami all'estremità: non la sapevo usare. Mi
sentivo goffo, idiota, mentre manovravo quella scopa: pensai che forse era
meglio smetterla, perché la mia imperizia e la mia goffaggine avrebbero potuto
tradirmi.
Appoggiai
di nuovo la scopa al suo posto, su una specie di doppia mensola uncinata,
sistemata a uno dei lati del carrettino. Cercai di darmi di nuovo un contegno,
fischiettando.
C'era
anche un vecchio soldato della Croce Rossa, di guardia, a palazzo Tittoni. Anche
lui mi osservava incuriosito e anche lui sembrava voler attaccare discorso. Ma
io non potevo, non potevo proprio anche se ne avevo una gran voglia. Avrei
voluto parlare con lui, con due ragazzine che intanto si erano allontanate, con
la gente che passava, non soltanto quando avrei dovuto avvertirli di scappare
se non volevano morire. Volevo che almeno qualche compagno, di quelli che
intorno a via Rasella aspettavano i tedeschi insieme con me, mi passasse vicino,
mi rivolgesse una frase, un sorriso. Invece, ero solo, lì, e dovevo essere
solo. Quella gente, quel sole, gli altri, anche gli altri compagni, non c'erano
e non dovevano esserci, c'eravamo io e il mio carrettino, e il tritolo dentro,
e i tedeschi che dovevano venire, e il segnale che aspettavo. Poi c'era anche
il resto del mondo, c'era la mia città, c'erano i compagni nelle carceri, c'era
la guerra che infuriava in Europa. Poi c'erano, c'erano certamente, parti del
mondo in cui la gente era felice, e rideva, e non uccideva e non temeva di
essere uccisa. Ma tutto questo per me non doveva contare, non esisteva neppure.
Io aspettavo i tedeschi. E il segnale. Ma i tedeschi non arrivavano.
Non
riuscivo a capire il perché di questo ritardo. Per settimane i tedeschi erano
passati di lì puntualmente: oggi no. I miei compagni non si avvicinavano, io
rimanevo lì, solo, a attendere. Erano già le 3,15: fra un'ora, un'ora e mezzo
al massimo, bisognava senz' altro tornare indietro perché alle 6 iniziava il
coprifuoco. D'altra parte, il mancato arrivo dei tedeschi era così impensabile
che non lo avevamo previsto, e quindi non avevamo predisposto un piano di
ritirata nel caso che l'azione non si fosse potuta compiere.
Non
era possibile riportare il carrettino al deposito, nella cantina di Duilio.
Anche questo pensiero mi turbava per lo sforzo e per il rischio inutile che
avrebbe ancora significato. Oltre tutto non avremmo certo potuto abbandonare quell'ordigno
senza averlo reso innocuo. Molte volte, ricordavo, avevamo rischiato la vita,
dopo il fallimento di un attacco, per recuperare i nostri esplosivi, in modo
che non costituissero pericolo per i civili.
Questi
pensieri mi premevano dentro, spingevano fino alla paura la mia tensione.
Finalmente,
a un certo punto Pasquale Balsamo si avvicina, ammicca verso di me. «Bene»,
dico, «ci siamo». Accendo la pipa. Ma è un falso allarme. Pasquale si è
sbagliato.
L'attesa
snervante per me, non lo era di meno per gli altri.
Carla,
che aveva sul braccio il mio impermeabile e nella piccola borsetta una pistola
con due caricatori di ricambio, era rimasta a lungo davanti all'edicola del «Messaggero»
fingendo un interesse che non aveva verso i giornali che vi erano esposti. Dopo
un po' che stava lì, due poliziotti in borghese, che l'avevano notata,
l'abbordarono. Le chiesero i documenti. Ella non ne aveva: aveva la pistola
nella borsetta, se l'avessero fermata era finita per lei e tutta l'azione poteva
andare in aria.
I
due agenti, per fortuna, di fronte a una bella ragazza non dimenticarono il
loro gallismo meridionale: il loro tono rimase fatuo, superficiale, allegro.
Carla cercò di reggere il gioco, fece finta di considerarli corteggiatori
importuni e continuò a leggere il giornale esposto nell'edicola. I due dissero ancora
qualche parola, poi la lasciarono in pace.
Pasquale,
che intanto era tornato al suo posto e aveva assistito alla scena, si avvicinò
all'edicola e le bisbigliò una frase sfottente. Carla credette di capire che
fosse il segnale e partì. La vidi passare davanti a me per recarsi all'angolo
di via Rasella con via Quattro Fontane, dove mi doveva attendere.
Per
me fu il secondo segnale sbagliato. Accesi di nuovo la pipa e aspettai con
ansia rinnovata.
Nel
fornello della pipa, il tabacco continuava a consumarsi, ma i tedeschi non
arrivavano. Il cuore mi batteva forte, ma dei tedeschi nemmeno l'ombra.
Carla
si fermò in via Quattro Fontane, dinanzi al cancello di palazzo Barberini. I
due poliziotti l'avevano seguita e uno di essi l'avvicinò di nuovo, chiedendole
perché portava un impermeabile da uomo sul braccio: ella rispose che era per il
suo fidanzato, un ufficiale che in quel momento stava al Circolo militare di
palazzo Barberini e con il quale aveva un appuntamento. Poi, provvidenziale,
vide un'amica della madre. Le corse incontro e così riuscì a sganciare il
poliziotto.
Si
mise a chiacchierare con la signora, che non finiva mai di parlare e le
raccontava tanti inutili tediosi fatti di famiglia.
I
due poliziotti rimasero un po' più in là a osservarla.
Pasquale,
intanto, era tornato di sotto, verso il Traforo.
Si
avvicinò a Fernando e a Raoul. Con Fernando si mise a litigare per i falsi
allarmi e per la confusione che cresceva tra noi contemporaneamente al ritardo
dei tedeschi. Raoul seccamente zittì entrambi e li invitò a riprendere con
calma i loro posti.
Passavano
i minuti. I tedeschi non arrivavano. Calamandrei, che mi doveva dare il segnale
dal basso, non era ancora visibile per me. Non capivo cosa stesse succedendo.
Carla
era passata. Ella doveva raggiungere l'angolo di via Quattro Fontane con via
Rasella qualche minuto prima dell'arrivo dei tedeschi per attendermi, darmi
l'impermeabile e accompagnarmi, come scorta, verso la base. «Bene», avevo detto
quando l'avevo vista, «ci siamo. Questa volta ci siamo». Ma i tedeschi non arrivavano,
il tabacco si consumava e spensi di nuovo la pipa.
D'improvviso,
dal basso, dalla via del Traforo, vidi sopraggiungere una pattuglia. Credetti
che fosse la pattuglia di avanguardia. «Eccoli», mi dissi, «questa è la volta
buona». Risalivano la strada, non cantavano, in un gruppetto allineato non
seguito dal grosso. Per la terza volta avevo acceso la pipa: per la terza volta
la dovetti spegnere.
Il
tempo passava terribilmente lento, sudavo, e la preoccupazione si stava
trasformando in ansia: i miei nervi stavano saltando.
Alle
3,45 passa di nuovo Pasquale Balsamo. Passa lentamente, molto vicino a me, parla
a mezza bocca: «Se alle 4 non sono arrivati prendi il carrettino e andiamo
via».
«Dove?»
gli chiesi con un cenno.
«Seguirai
uno di noi», mi disse, e si allontanò.
Carla,
intanto, aveva sganciato anche l'amica della madre ed era di nuovo all'angolo
di via Quattro Fontane. La vidi e ne ebbi sollievo.
Erano
le 3,50.
D'improvviso
ecco giungere Guglielmo Blasi che nel frattempo si era appostato in un
portoncino, sulla via Rasella, poco più in basso e di fronte a me. «Arrivano»,
mi fece, «stai pronto.» Io accesi di nuovo la pipa. Era comparso Cola, all'angolo
della strada, giù in fondo. Saliva lentamente a prendere posizione nel punto da
cui mi avrebbe dato il segnale. Ciascuno di noi era al suo posto.
Pasquale
ricomparve vicino a me, leggero e ironico, per la terza volta, e ammiccò.
Stavano veramente arrivando. Guardai in basso, verso la strada in discesa, e
all'angolo apparve la pattuglia di avanguardia, quella vera. Venivano su, verdi
nelle loro divise come ramarri, con i mitra sul ventre.
Era
un piccolo drappello di pochi uomini, che precedeva come gli altri giorni, il
grosso della compagnia. Gli altri li dovevano seguire a una ventina di metri.
Cola
intanto aveva raggiunto l'angolo di via del Boccaccio e si era fermato. I nazisti
lo superarono, e superarono anche me, mentre, in basso, spuntava la prima fila
della colonna.
Venivano
su cantando, nella loro lingua che non era più quella di Goethe, le canzoni di
Hitler. 160 uomini della polizia nazista con le insegne dell'esercito nazista,
in tutto uguali a coloro che rastrellavano i cittadini inermi, agli assassini di
Teresa Gullace e di Giorgio Labò.
Le
divise, le armi puntate, il passo cadenzato, perfino la carretta su cui era
piazzata la mitragliatrice, le voci straniere, tutto era un oltraggio al cielo
azzurro di Roma, agli intonachi, ai sampietrini, al verde che il parco di
palazzo Barberini riverberava dolce sulla via Rasella. Era un oltraggio che si
ripeteva, dai millenni e nei millenni; e il Vae
victis di Kesselring non aveva di fronte, a rintuzzarlo, che le armi e il
coraggio dei partigiani. Oggi il nostro tritolo.
Venivano
su cantando, macabri e ridicoli e i segni di morte che avevano indosso erano,
stavolta, i segni della loro condanna.
Avevano
superato Cola, egli si tolse il berretto. Si avvicinarono a me, ebbri di sicurezza
e di un sole usurpato, che non era il loro. Non erano loro quella primavera,
quei colori. Erano loro' il terrore, la morte che avevano seminato per le vie deserte
di Roma, la guerra che avevano portato dentro le case e nelle scuole, ma anche
la morte che era in agguato sulle montagne e dietro gli angoli delle nostre
strade, cui non servivano da freno il coprifuoco e la fame, le rappresaglie e
le torture, la morte che li colpiva improvvisa, che li terrorizzava e dava l'avviso
di una giustizia che non avrebbe tardato troppo a sopraggiungere.
Cola
si era tolto il berretto.
Alzai
a mia volta il coperchio del bidone dove era stato disposto il tritolo e
avvicinai il fornello della pipa alla miccia. C'era molta cenere, ormai, nella
mia pipa e la miccia tardò un poco a prendere. Poi la sentii sfrigolare, con un
rumore che mi era ormai consueto, e mi raggiunse, acre, l'odore del fumo.
Allora riabbassai il coperchio, mi tolsi il cappello e lo deposi sul
carrettino: era quello il segnale con il quale avvertivo i miei compagni che la
miccia era stata accesa. Tra 50 secondi esatti ci sarebbe stata l'esplosione.
Non
appena ebbi compiuto questo atto il vecchio soldato della Croce Rossa, che entrava
e usciva dal portone, tornò a uscire di nuovo. «Vattene», gli dissi, «vattene
subito qui tra poco ci sarà un macello: stanno arrivando i tedeschi.» Non so se
capì, comunque scappò via. Lo rividi dopo la Liberazione, mi venne a
ringraziare accompagnato dalla moglie per l'avviso che gli avevo dato e che era
valso a salvargli la vita.
Mi
avviai lentamente, molto lentamente, cercando di non essere notato, verso via
Quattro Fontane, verso Carla che mi aspettava all'angolo con via Rasella.
Sentivo
i tedeschi avanzare. Il loro passo si faceva sempre più vicino, le loro voci si
facevano sempre più alte. Una ventina di metri oltre il carrettino c'era un
camion dal quale tre o quattro operai scaricavano materiale di risulta da una
casa in restauro. «Andatevene», dissi anche a loro «stanno arrivando i tedeschi!»
Non so se capirono, forse non si resero conto di quello che stava per accadere.
Tuttavia se la squagliarono.
Raggiunsi
Carla sull'angolo e quasi contemporaneamente mi infilai l'impermeabile per
coprire il mio camiciotto da spazzino. Impugnai, nella tasca, la pistola già
libera della sicura.
Il
boato dell'esplosione, enorme, squassò il centro della città. Un filobus che
scendeva lungo via Quattro Fontane, sbandò un momento, come se l'esplosione
avesse fatto sobbalzare il conducente.
Guardai
dietro di me. La compagnia nazista era tutta a terra. Mi avvicinai verso l'alto,
verso via Nazionale. Subito dopo sentii le esplosioni delle bombe a mano che i
compagni scagliavano sui tedeschi a terra, ad annientare il reparto, e
contemporaneamente, da palazzo Barberini, gruppi di guardie di Finanza uscirono
correndo e disposero i cordoni.
Facemmo
appena in tempo a passare.
Quando
i tedeschi furono investiti dalla esplosione del mio carrettino, Raoul, Silvio e
Francesco erano balzati fuori dell'angolo di via del Boccaccio, dove si erano
appostati, e avevano scagliato le loro bombe. Ma intanto era sopraggiunta la
pattuglia di retroguardia, con la quale avevano dovuto impegnare subito uno scambio
di colpi di arma da fuoco per sganciarsi e allontanarsi verso il Traforo.
Con
loro c'erano anche Carlo Salinari e Franco Calamandrei.
(…)
Lo
stato di isolamento in cui vivevamo impedì che ci rendessimo conto del
turbamento che aveva colpito le autorità germaniche. Nella città, tutto sembrava
tranquillo, né trapelava sentore della ritorsione che qualche ora dopo i
tedeschi avrebbero condotto a termine. Prima ancora che scadessero le 24 ore
dall'attentato e senza che nessun avviso o comunicazione fossero dati alla cittadinanza
e alle forze della Resistenza, i tedeschi cominciarono a uccidere alle Fosse Ardeatine
335 italiani.
Il
24 marzo era passato per noi senza avvenimenti particolari.