Su
ANPInews di questa settimana (n. 94) , inviata martedì 29
ottobre, il Presidente ha fatto un’ampia sintesi di tutte le ragioni della
nostra contrarietà sia alle modifiche dell’art. 138 della Costituzione sia alle
proposte di merito per riformare la Costituzione.
Si tratta di un materiale che può essere molto utile per i
dibattiti da promuovere, per i chiarimenti da dare ai cittadini e soprattutto
per rispondere ad obiezioni, osservazioni e perfino insinuazioni che si stanno
facendo circolare sulla fondatezza e sulla consistenza delle nostre
argomentazioni. Insomma, un materiale importante proprio per tutte quelle
iniziative che è necessario che vengano promosse dai nostri organismi
periferici, nel prossimo periodo, come più volte raccomandato.
Oltretutto, facciamo presente che il disegno di legge
costituzionale che modifica l’art. 138 è stato già oggetto di tre letture, in
Parlamento. A dicembre ci sarà la quarta ed ultima alla Camera; se
l’approvazione avverrà con una maggioranza superiore ai 2/3 (come già avvenuto
in Senato), non ci sarà più nulla da fare, per il metodo, perché non sarà
possibile il referendum e il disegno di legge costituzionale diventerà
definitivo. Da ciò la necessità e l’urgenza di attivarsi.
NOTA DEL PRESIDENTE
NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:
► Alla manifestazione
del 26 ottobre a Bologna, davanti ad una multiforme platea, ho colto
l’occasione per spiegare (ancora una volta, ma ce n’è sempre bisogno) le
ragioni della nostra ferma contrarietà, rispetto non solo al disegno di legge
costituzionale che “deroga” all’art. 138 della Costituzione, ma anche – nel merito
– al progettato sistema di riforme costituzionali. C’è chi ci sta spiegando che
non abbiamo capito, che non c’è nulla di straordinario; anzi, che in ciò che si
sta facendo, anche a proposito dell’art. 138 della Costituzione, ci sono
aspetti altamente positivi, così come – naturalmente – anche nel resto. Ci permettiamo di
dissentire e di insistere sulle nostre ragioni di fondo, che spiegherò ancora
una volta, creando una specie di rapida sintesi che riassume e rappresenta,
come diceva un grande scrittore “l’inverno del nostro scontento”.
Sono andato sabato a Bologna, per una manifestazione
significativa (“Con la Costituzione il nostro futuro”), promossa dal Comitato
provinciale dell’ANPI di Bologna, col patrocinio dell’ANPI nazionale.
Con questa manifestazione si intendeva, prima di tutto,
continuare il cammino che abbiamo iniziato col nostro documento del 18 maggio
sulle “riforme costituzionali” e con le numerose iniziative delle nostre sedi
ANPI provinciali da quel momento a tutt’oggi; in secondo luogo, riprendere il
dialogo con le altre Associazioni con cui era stata organizzata la
manifestazione del 2 giugno a Bologna, superando la breve interruzione derivata
da un dissenso (nostro e non solo) sulla manifestazione del 12 ottobre,
organizzata al di fuori di ogni intesa con l’ANPI e, a nostro avviso, corredata
di intenti che andavano (o potevano andare) al di là del progetto originario,
che era quello di combattere insieme un complesso di riforme costituzionali
considerato da molti di noi e da tante associazioni come inadeguato e
pericoloso, nel metodo e nel merito. Naturalmente, non era quella di Bologna la
sede più opportuna per individuare le prospettive comuni, sulla base di un
aperto e leale confronto; ma si trattava di dire, con chiarezza, che l’ANPI c’è
e vuole continuare unitariamente la battaglia impostata, proprio a Bologna, con
la manifestazione del 2 giugno. Ci saranno presto altre occasioni, non ultima
la riunione del direttivo dell’Associazione “Salviamo la Costituzione” prevista
per la metà di novembre (ed è noto che di quel direttivo fanno parte diverse
associazioni importanti, come “Libertà e giustizia”, la CGIL, i Comitati
Dossetti, oltre – naturalmente - l’ANPI). E spero che possa trattarsi di un
incontro positivo e propositivo.
Mi sono trovato davanti ad una platea composita; c’erano
molti iscritti e Sezioni dell’ANPI, alcuni provenienti anche da lontano, da
Genova, dalla Toscana, dalla Romagna, da Monza, da Parma e così via; c’erano i
ragazzi e le ragazze di “Libera”, c’era uno striscione intitolato “ La via
Maestra”; e poi persone che conosco oppure ho conosciuto al momento, di
“Salviamo la Costituzione”, della CGIL e di altre Associazioni, E questo, anche
a prescindere dai dati numerici, era – di per sé – altamente positivo e
indicativo di una volontà diffusa di continuare, con più forza ed
unitariamente, nella battaglia.
Davanti ad una simile e multiforme platea, ho colto
l’occasione per spiegare (ancora una volta, ma ce n’è sempre bisogno) le
ragioni della nostra ferma contrarietà, rispetto non solo al disegno di legge
costituzionale che “deroga” all’art. 138 della Costituzione, ma anche – nel
merito – al progettato sistema di riforme costituzionali. C’è chi ci sta
spiegando che non abbiamo capito, che non c’è nulla di straordinario; anzi, che
in ciò che si sta facendo, anche a proposito dell’art. 138 della Costituzione,
ci sono aspetti altamente positivi, così come – naturalmente – anche nel resto.
Ci permettiamo di dissentire e di insistere sulle nostre
ragioni di fondo, che spiegherò ancora una volta, creando una specie di rapida
sintesi che riassume e rappresenta, come diceva un grande scrittore “l’inverno
del nostro scontento”.
Il progetto. Le ragioni di questo progetto di
riforme sono state spiegate dal Presidente del Consiglio Letta, nello stesso
discorso di insediamento, con espressioni che hanno suscitato subito le più
vive preoccupazioni di quanti si sentono legati alle ragioni profonde di un
“sistema costituzionale”, che ha retto validamente a tante difficili prove.
Sono frasi, parole, quelle pronunciate dal Presidente del Consiglio, che
esprimono un intendimento che non possiamo condividere, proprio perché distante
dallo spirito che domina l’intera Carta Costituzionale, che costituisce un
tutto unico, ispirato ad una intrinseca e logica coerenza, ed è - appunto per
questo – “rigida”, nel senso non di immodificabilità, ma di una modificabilità
limitata e specifica, alle condizioni di cui alla stessa Carta.
Quando si parla di “processo costituente” si dice già una
cosa molto diversa da ciò che è previsto dall’art. 138 della Costituzione, che
è la principale norma di garanzia, e parla di “leggi di revisione”, dunque di
misure parziali e limitate e non di un vero e proprio processo costituente, che
– nel significato corrente – esprime l’idea di riforme globali e fortemente
incidenti sul sistema.
Eppure, di questo ha parlato il Presidente Letta; che poi ha
fatto riferimento alla “forma di Governo”, e anche alla necessità di “scelte
coraggiose”; anticipando che l’obiettivo è quello di riavvicinare i cittadini
alle istituzioni, “rafforzando l’investitura popolare dell’esecutivo”; ed
infine prospettando anche la possibilità di operare una “riforma anche radicale
del sistema istituzionale”.
Tutto questo indica con chiarezza un percorso che il Governo
ha perseguito e sta perseguendo con tenacia, assecondato da un Parlamento
dominato da un’ampia maggioranza governativa e troppo poco incline a far
rispettare le proprie prerogative.
Con le modifiche di cui parla l’art. 138, tutte questo non ha
nulla a che fare, in quanto la norma si riferisce ad interventi specifici, su
linee chiaramente dettate dal Parlamento. Quanto al resto anche se ne parlerò
diffusamente più avanti, dirò fin d’ora che non si riesce ad intravvedere né la
ragione di scelte coraggiose e “radicali”, né i motivi di un rafforzamento
dell’esecutivo, fondato anche su una diretta investitura popolare.
Insomma, ciò che si è inteso mettere in campo non è “qualche
modifica di aggiustamento”, derivata dall’esperienza di questi anni, ma
qualcosa di più ampio, di più “costituente”, che finisce per mirare addirittura
al cuore del sistema ipotizzato dal legislatore costituente e può consentire
deformazioni e deviazioni di rilevante portata rispetto alla nostra Carta.
Il nostro ragionamento è semplice, addirittura elementare: ci
sono alcune riforme da fare, non solo di rilievo costituzionale, tra cui la
prima è la riforma della legge elettorale; le altre riforme concepibili (in
quanto non toccano né i princìpi della prima parte della Costituzione, né la
coerenza del “sistema” tracciato nella seconda parte) sono, in grandissima
parte, già mature e degne solo di una riflessione seria su alcune scelte
che da esse possono derivare.
Si tratta della diminuzione del numero dei parlamentari,
della differenziazione del lavoro (oggi sostanzialmente identico) delle due
Camere, della risistemazione del titolo V (“Le Regioni, le Province, i
Comuni”), per correggere anche alcuni problemi derivati dalla riforma costituzionale del 2001 e per decidere, una buona volta, la
sorte delle Province.
A nostro avviso, per affrontare queste tematiche, non c’è
bisogno di strumenti e sistemi straordinari: basta seguire quanto dispone, a
garanzia di tutti, l’art. 138 della Costituzione e lasciare poi che questo
lavoro venga svolto dalle Commissioni parlamentari competenti e quindi concluso
in Aula, nelle forme già ricordate e definite con chiarezza dalla Costituzione.
Invece, si concepisce un complicato sistema, che non ha
alcuna giustificazione, che comincia col mettere mano allo stesso art. 138 (per
una “deroga temporanea”, ingiustificata e incomprensibile), anche per stabilire
le tematiche e creare nuovi organismi, tra cui una supercommissione speciale.
Il tutto fissando termini molto brevi e imperativi e perfino riducendo, per
ragioni incomprensibili, quell’intervallo tra le due letture della legge
costituzionale previste dalla Costituzione come utile pausa di riflessione (non
solo per i parlamentari, sia chiaro, ma anche per i cittadini e per gli studiosi).
Come se non bastasse, il Governo nomina una Commissione
speciale di cosiddetti “saggi” (lo dico senza alcun disprezzo, ma con
perplessità, perché non ho ancora compreso quali siano i criteri oggettivi per
assegnare tale qualifica), incaricati di stendere una relazione, che verrà poi
sottoposta al Parlamento. Un’altra anomalia, e grave, per più ragioni, che poi
esamineremo, ma fin d’ora anticipiamo per sommi capi: in tema di riforme
costituzionali, si è sempre ritenuto che la parola spettasse al Parlamento, in
via assolutamente prioritaria. In questo caso, invece, è il Governo che nomina
un gruppo di consulenti (questo e non altro è la famosa Commissione di saggi),
che lavorerà sui principali temi sul tappeto e poi presenterà un testo, sul
quale ovviamente sarà chiamato a discutere il Parlamento.
E’ o non è, comunque la si metta, una grossa anomalia, che
non ha precedenti, nel nostro Paese? Si noti che il Parlamento può nominare
consulenti, può sentire, in apposite audizioni, esperti; e lo fa abitualmente.
Du que, non si giustifica un preventivo lavoro dei consulenti del Governo, se
non perché in realtà si vuole influenzare l’attività del Parlamento, anzi
fornirgli addirittura la base della discussione; ed è chiaro che su questo non
può concordare chiunque abbia del buon senso (non solo giuridico, ma anche
logico). In sostanza, ancora una volta, si tenderebbe ad incidere in modo
decisivo sul Parlamento, fornendo una traccia non solo ampia ed argomentata, ma
in qualche modo dotata di una certa “vincolatività”, per lo stesso modo con cui
è stato composto questo “Comitato”, fondato sulla scelta di giuristi, ma anche
sul bilancino del riferimento politico dei singoli.
Quasi a dire al Parlamento che non c’è molto da discutere se
il lavoro è stato già fatto da “esperti, che – per di più – rispecchiano, nel
loro complesso, qualcosa di simile alle competenze (e per fortuna anche alle
divisioni) delle maggioranze politiche. Ciò è tanto vero che questo Comitato ha
avuto anche riconoscimenti formali ed istituzionali quali, di solito, non vengono attribuiti ai semplici
consulenti o esperti di cui si serve il Governo.
Ma è ancora più vero se si considera che i maggiori
responsabili di quel Comitato già parlano e scrivono come se quello che hanno
compiuto fosse un lavoro definitivo, e dunque impegnativo per il Parlamento. Il
che, oltretutto, non è vero, e non solo perché poi il Parlamento non è compatto
su molte delle questioni esaminate, né in un senso né nell’altro e sarebbe
proprio dalla discussione parlamentare (una discussione seria, non condizionata
e non affrettata) che si dovrebbe arrivare, come nella Costituente, a soluzioni
condivise. Ma poi, il fatto fondamentale è che il Parlamento non sarà chiamato
a lavorare su quella relazione, ma sui progetti di legge che riguardino la
materia più volte ricordata; e in quei disegni di legge, come è noto, c’è di
tutto; e chi può dire che un argomento che non ha prevalso tra i “saggi” o da
loro abbandonato, non torni ad essere considerato in sede parlamentare, magari
nella peggiore delle versioni possibili?
Dunque, sono giustificate le preoccupazioni di chi teme che
si parli ancora di presidenzialismo o semipresidenzialismo, che non sono
astrusi di per sé, ma non appartengono alla nostra esperienza giuridica, alla
nostra cultura e tanto meno al sistema costituzionale vigente. Il perché di
tutto questo ce lo dice, come accennavo all’inizio, lo stesso Presidente del
Consiglio, rivelando l’intento reale che sta alla base di questo progetto e
formulando proposizioni e indicazioni che sono idonee soltanto a crearci, più
che sospetti, preoccupazioni.
Colpiscono poi, in
tutto questo, due dati importanti:
Il primo: la legge
elettorale, che dovrebbe essere considerata la vera priorità, finisce in
fondo, come se la si potesse definire solo dopo aver sciolto alcuni nodi
costituzionali di merito. E’ un errore grave, perché nessuno sa quanto un
“Governo di larghe intese” possa durare, e fa spavento l’idea che si possa
tornare a votare con una legge nefanda e tale da consentire la riproduzione
della situazione di stallo che si è creata col voto della primavera 2012.
Ma è un “errore” rivelatore anche del fatto che non si pensa
solo alle riforme ormai mature, cui ho già accennato (nessuna delle quali
potrebbe incidere sul sistema elettorale), ma si pensa a modificare i
fondamenti stessi del sistema vigente, cioè il Governo e il Presidente della
Repubblica (come dire: presidenzialismo o semi-presidenzialismo, con tutte le
conseguenze che simili scelte comporterebbero per tutta la seconda parte della
Costituzione).
Il secondo: tutto il
progetto dovrebbe svolgersi all’insegna della fretta, in tempi molto
ravvicinati, soprattutto per il Parlamento, e inadeguati alla tempistica di una
riflettuta riforma costituzionale. Tempi ravvicinati e accelerati che non si
trovano invece, per altre cose assai importanti, come l’applicazione della
legge Severino (che dovrebbe essere fatta “immediatamente” e si trascina da
mesi), come una discussione, davvero seria e impegnata, sui modi per uscire
dalla crisi, con un rilancio delle attività produttive, degli investimenti e
soprattutto del lavoro e della sua dignità; discussione che si attende da
tempo; ma mentre a Roma si discute sulle riforme costituzionali, “Cartagine
brucia”, come si diceva una volta.
E si potrebbe continuare, a lungo, su questa linea, che ci
sembra incontestabile.
La modifica dell’art.
138 della Costituzione:
E’ fin troppo facile chiedersi il perché di una legge
costituzionale destinata, secondo la relazione al d.d.l., a dettare “una procedura
straordinaria di revisione costituzionale”, cioè la deroga, una tantum, ad un
breve e significativo articolo della Costituzione, sostituendolo con ben 9
articoli, che intervengono un po’ su tutto (istituzione di un Comitato
parlamentare, competenze e lavoro del Comitato, lavoro delle Assemblee,
organizzazione dei lavori, referendum, ecc.).
Ma le facili obiezioni sono state subito qualificate, da
alcuni, come infondate o frutto di incomprensione. Secondo costoro, non si è
dato troppo peso ai vantaggi previsti dall’art. 5, che consente il referendum
anche quando le leggi costituzionali siano state approvate con la maggioranza
di due terzi.
In verità, i sospettosi potrebbero essere indotti a pensare
che anche questo sia frutto, più che altro, di una “furbizia”, nel senso che
questa scelta dovrebbe servire a superare le altre obiezioni e lo stesso
dibattito sulle “stranezze” del disegno di legge costituzionale, mentre – per
altro verso - si farebbe conto sulla difficoltà di promuovere un referendum
quando ci sono, a sostenere il testo delle riforme, le forze più consistenti
del Paese, visto che comunque restano in vita i presupposti numerici richiesti
per l’ammissibilità del referendum (1/5 dei membri di una Camera, o
cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali).
Ma ammettendo pure che, nonostante tutto, in questa scelta si
possa configurare qualcosa di positivo, ci sarebbe comunque da rilevare che si
tratta di poca cosa rispetto a tutto il resto ed al fatto stesso di manomettere
una importante “garanzia costituzionale”, con pregiudizio evidente per l’intero
sistema. Ma poi, questa soluzione non sarebbe applicabile proprio al disegno di
legge costituzionale che modifica l’art. 138 (che incide, cioè, su una
“garanzia costituzionale”), con una deroga” temporanea” che non si giustifica e
non si spiega, se non in relazione ai contenuti.
E i contenuti principali sono: la costituzione di una
Commissione speciale bicamerale, (di cui non ci sarebbe alcun bisogno visto che
ogni ramo del Parlamento ha la sua Commissione “Affari costituzionali”), con
compiti quasi redigenti, in senso politico, tempistiche accelerate e rigide,
una disciplina del percorso parlamentare minuziosa, ingiustificata e
pericolosa; la definizione della “materia” delle riforme, che comprenderebbe i
titoli “primo, secondo, terzo e quinto” della seconda parte della Carta, vale a
dire il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica e gli organismi
ausiliari; e inoltre il sistema delle autonomie.
Materia troppo vasta rispetto a quanto si è già detto circa
le riforme “mature” e che comprende nodi potenzialmente assai pericolosi,
finendo per fornire il terreno per chi pensa a presidenzialismo o
semipresidenzialismo, con un diverso ruolo del Presidente della Repubblica, che
inciderebbe anche sull’attuale struttura di alcuni degli organismi ausiliari
(di cui alcuni partico armente importanti come il Consiglio superiore della
Magistratura, non esplicitamente compreso nel titolo III, ma anche a questo si
è pensato, tant’è che l’art. 2, comma 2, del disegno di legge costituzionale
consente all’istituendo Comitato parlamentare, di esaminare o elaborare “anche
le modificazioni strettamente connesse ad altre disposizioni della
Costituzione”.
Il disegno di legge costituzionale contiene anche una
minuziosa regolamentazione non solo dei lavori del “Comitato” ma anche dei
lavori delle Assemblee e della loro organizzazione, con una tempistica
estremamente rigorosa (termine finale: 18 mesi) e perfino con una riduzione del
noto intervallo fra le due letture delle Camere, nella misura della metà di
quello attuale (perché?).
A me sembra che quanto ho fin qui descritto sia più che
sufficiente per suscitare la più viva contrarietà di chiunque non sia costretto
ad obbedire a logiche o direttive di partito. Un cittadino “libero” non può che
essere colpito da queste “stravaganze”, che nessun accorgimento dialettico
potrebbe riuscire a giustificare e far considerare come “normali” o comunque
dirette a perseguire l’interesse del Paese, che resta sempre quello di disporre
di
una buona Costituzione, di modificarla secondo le regole da
essa stessa stabilite, nei limiti di quanto richiesto dall’esperienza e
comunque sempre all’interno di un sistema coraggiosamente e ottimamente
definito da una legislatore costituente generalmente assai apprezzato anche per
la sua lungimiranza.
I contenuti della
progettata riforma:
Si è già detto che essa dovrebbe investire un terreno molto
vasto, che riguarda non solo la forma di Governo, ma anche la forma di Stato.
Ovviamente, in linea di principio, nessun sistema
costituzionale-ordinamentale può essere contestato, tant’è che ci sono molti
Paesi che hanno sistemi diversi, da ognuno di essi accettato e ritenuto
positivo. Ma per passare da un sistema ad un altro ci vogliono delle ragioni
serie. Non ce ne sono, attualmente, in Italia, per mutare il ruolo del
Presidente della Repubblica che è – e deve restare – organo di garanzia
autonomo e indipendente, al di sopra delle parti. Non c’è alcuna ragione per
creare organismi diversi, per ciò che attiene al Parlamento, da quelli che
affondano le radici in una tradizione ormai consistente e sui quali non ci sono
dubbi di sorta, allo stato.
Non esistono ragioni neppure per rinforzare in qualsiasi
forma l’esecutivo, cioè il Governo, favorendo un’elezione quasi diretta o
dotandolo di poteri più pregnanti rispetto a quelli attuali.
L’equilibrio fra i poteri dello Stato è garantito
adeguatamente dalla Costituzione. Se qualcosa non va o non funziona, come
recenti esperienze dimostrano, la responsabilità non è del dettato
costituzionale, ma della politica, che non riesce a rispettare – spesso –
neppure la tradizionale divisione dei poteri, che non riesce ad esprimere
maggioranze valide ed idonee per governare, che ha trovato le ben note
difficoltà perfino ad eleggere il Presidente della Repubblica. A proposito del
quale, bisogna ricordare che esistono esperienze diverse, di Presidenti eletti
in brevissimo tempo e di Presidenti per eleggere i quali ci vollero giorni e
giorni di votazioni.
In tutti questi casi, di rapide o di prolungate votazioni, le
ragioni sono sempre state politiche, o attribuibili al funzionamento o
disfunzionamento di una politica spesso incapace di svolgere il suo ruolo,
chiaramente desumibile dall’art. 49 della Costituzione.
Del resto, la riprova ce l’hanno fornita i famosi “saggi”,
che hanno affrontato molti di questi nodi, non trovandosi d’accordo su alcuni
di quelli più rilevanti, ma concordando alla fine sui poteri del Governo, che
andrebbero rafforzati, secondo loro, in termini che personalmente giudico
inaccettabili. Trovo infatti che mettere l’agenda del Parlamento nelle mani del
Governo sia una trovata molto discutibile e molto limitativa delle prerogative
del Parlamento.
Ognuno capisce che se si desse al Governo il potere di
indicare i progetti di legge a cui tiene in modo particolare, precisando la
data entro la quale debbono essere discussi, si avrebbe come risultato
l’invasione dei disegni di legge governativi, con priorità su ogni altra
iniziativa e con buona pace del diritto dei Parlamentari e dei loro gruppi di
presentare progetti e pretendere che vengano esaminati e discussi.
D’altronde, e chiudo sul punto, ancora una volta il problema
è politico e non di ordine costituzionale, come dimostrano le esperienze degli
ultimi vent’anni, nei quali ogni disfunzione è stata determinata o
dall’eccessiva forza o dall’eccessiva debolezza della politica.
Cose, entrambe, alle quali non si può porre riparo con
l’ingegneria costituzionale, ma con una vera riforma, scritta o non scritta,
della politica attuale, sempre più deteriorata, sempre più lontana dai
cittadini e spesso dai princìpi, oltreché dalle regole, di una Costituzione
che, a maggior ragione non deve essere modificata se non là dove è matura e
sperimentata l’esigenza di un aggiornamento; ed ho fatto troppi chiari esempi
perché qualcuno possa ancora permettersi di considerarci “conservatori”.
Ogni cosa al suo posto ed al suo tempo: prima di tutto la
legge elettorale e gli interventi di politica economica e del lavoro, per la
ripresa, l’occupazione e la dignità di chi lavora e delle famiglie.
Certo in un simile contesto, si può metter mano anche agli
aggiustamenti alla Costituzione, nei limiti di cui ho parlato più volte, senza alterare
né princìpi né impianti complessivi e senza “interventi straordinari”, deroghe
temporanee o altro, alle stesse procedure ipotizzate dalla Carta
costituzionale. La Costituzione è lì ad indicarci la strada anche per le sue
eventuali modifiche. Rispettiamola e – se mai – pretendiamo dei futuri Governi
che ha la applichino, integralmente e soprattutto nelle parti in cui è troppo
forte ed evidente il divario tra i princìpi e la realtà. E sia ben chiaro che
quando questo divario si produce, come sta avvenendo, non sono i princìpi che
debbono essere modificati, ma la realtà. Alla fine, è richiesta a tutti un po’
di umiltà.
A quale titolo si può insistere a dire che non abbiamo
capito, che c’è un fraintendimento della reale volontà riformatrice, e così via?
I “saggi” del Governo saranno certamente bravissimi. Ma vorranno consentire che
qualche esperto ci sia anche sul versante di chi dissente; e soprattutto
ammetteranno che il discorso, alla fine, è squisitamente politico; e sotto
questo profilo un po’ di esperienza concreta non guasta. Solo per dire che le
esperienze del passato, in tema di riforme costituzionali, non sono state
certamente esaltanti; e dunque un po’ di cautela dovrebbe essere adoperata
nell’affrontare temi così delicati.
Quando è in gioco la Costituzione, dobbiamo sapere che è in
gioco la regola fondamentale delle nostre istituzioni e della nostra convivenza
civile. E’ per questa ragione che una Costituzione può anche essere modificata,
nei modi da essa stessa previsti, ma non manomessa.