Il 28 dicembre del 1943 Mario Fiorentini attacca, da solo, il carcere di Regina Coeli.
Il suo racconto tratto dal libro
SETTE MESI DI GUERRIGLIA URBANA, 2015, Odradek edizioni s.r.l.
CAP. V
UN CICLISTA A PONTE MAZZINI.
1. Attacco al carcere di Regina Coeli
Dopo pochi giorni l'attacco al cinema Barberini del 18 dicembre
mi incontrai con Antonello
Trombadori che mi disse: guarda che in carcere ci sono Pertini
e Saragat, noi vogliamo far sentire
a Regina Coeli che fuori
ci siamo noi, perciò prepara
un'azione. Allora andai a via della Lungara
e studiai l'azione. Immediatamente mi resi conto delle difficoltà dovute soprattutto ai ponti sul Tevere. Ne parlai con i compagni e decidemmo
che a fare l'azione dovevamo
essere in sette, tre coppie più
un ciclista.
Incontrai di nuovo Antonello dopo qualche giorno
per comunicargli che avevo parlato
con i miei compagni
e che avevamo preparato l'attacco. Veramente
più che un attacco si trattava di una battaglia. Antonello rimase trasecolato. Lui pensava
che noi saremmo
andati in alto alle spalle del carcere,
nascosti, e avremmo buttato una bombetta. Per cui quando
gli spiegai la dinamica dell'azione rimase stupefatto. In quel momento non sapeva bene cosa fare, perché si trovava di fronte a delle persone
che avevano superato largamente il suo modo di vedere la guerriglia urbana. Comunque sia noi abbiamo
preparato l'azione: Sasà
era d'accordo, Franco Di Lernia pure, tutti e sette eravamo
d'accordo.
Erano i giorni delle feste
natalizie ma a Roma c'era poco da festeggiare. Da mangiare non si trovava
più niente se non alla borsa nera a prezzi esorbitanti. Anche
il carbone era razionato
e nelle case faceva un gran
freddo. Inoltre c'era la paura per i rastrellamenti dei tedeschi, per cui gli uomini erano chiusi in casa e uscivano il meno possibile. Roma era diventata
un gigantesco nascondiglio per ebrei, militari,
renitenti alla leva e partigiani. Quel Natale del ’43
lo ricordo come il più triste della mia vita, ma bisognava
reagire alla tristezza
e allo sconforto. Attaccare i tedeschi era l'unico modo che avevamo
per reagire a quella cappa di piombo che avvolgeva Roma. Lo dovevamo agli ebrei deportati e a quelli
scampati costretti a vivere come topi; lo dovevamo ai carabinieri e alle loro
famiglie che vivevano in una disperante incertezza sulla sorte dei loro cari;
lo dovevamo al nostro paese calpestato dalla violenza nazifascista. Non c'è
dubbio: noi dovevamo essere d'esempio, perché era l'unico modo che avevamo per
riscattarci dalla débacle dell'8
settembre. Per cui in quei giorni noi gappisti chiusi nei nostri rifugi pensavamo
a come compiere l'azione a Regina Coeli.
Passati alcuni giorni incontrai di
nuovo Antonello e gli dissi che avevo ripensato alla dinamica dell'azione. Il
mio parere era che non si poteva fare in sette ma che l'avrei fatta da solo, perché
era un'azione troppo rischiosa, così nel caso io fossi morto l'organizzazione
sarebbe rimasta in piedi e avrebbe continuato la lotta. Al contrario se fossimo
caduti tutti e sette, e questo rischio era reale perché si trattava di
attaccare una guarnigione di tedeschi, i GAP sarebbero finiti. Questa mia
valutazione nasceva dal fatto che noi non sapevamo esattamente quanti eravamo.
Non sapevamo che c'era Franco Calamandrei con il suo GAP perché non ci
incontravamo mai, non ci vedevamo, e per fortuna nessuno conosceva il nome di
Lucia, conoscevano 'Maria' ma non sapevano chi era. Questa segretezza ci ha
salvati quando Guglielmo Blasi ha tradito.
Con Antonello non ci fu nessun problema,
era d'accordo con la mia decisione di fare l'azione da solo. Era logica e
giusta. Antonello diceva sempre che queste azioni erano un salto nel buio. Ma il
problema si presentò con Sasà e con Franco Di Lernia, perché loro volevano che
l'azione si facesse tutti insieme. E come potevi fermare Sasà, lui voleva stare
sempre al mio fianco, non mi avrebbe mai abbandonato. Di Lernia era un ragazzo
di 19 anni, robusto, forte, che io tirai fuori dal Liceo e feci entrare nei
GAP.
Dopo una accesa discussione decidemmo
che l'azione l'avrei fatta da solo la mattina del28 dicembre. Studiammo
attentamente le coperture e decidemmo che al di là di Ponte Mazzini si
sarebbero appostati Lucia e Franco Di Lernia, mentre su via della Lungara mi
avrebbero coperto Carla e Sasà. In un primo tempo pensammo di impiegare nell'azione
anche Rinaldo Ricci e Maria Antonietta Macciocchi ma poi non se ne fece nulla. Carla, che aveva il compito di portare lo 'spezzone', lo caricò sulla mia bicicletta
e con Sasà andarono via in direzione di Ponte Principe Amedeo di Savoia.
Arrivai di fronte a Regina Coeli. Malgrado fosse inverno
sudavo. Ero solo e davanti a me avevo un drappello di tedeschi armati fino ai
denti. Lì il Lungotevere è rialzato rispetto a via della Lungara. Scesi dalla
bicicletta e dall'alto gettai lo 'spezzone' sul camion dei tedeschi. Salii di
nuovo in bicicletta e scappai lungo Ponte Mazzini. I tedeschi dalle finestre
del carcere mi spararono contro varie raffiche di mitra. Chinato sul manubrio
sentivo le pallottole fischiare tutt'intorno. Pedalavo come un ossesso e
arrivai alla fine del ponte a tutta velocità proprio mentre transitava la
circolare nera che riuscii a schivare passandogli davanti. Non so come ho fatto,
se è stato l'istinto di sopravvivenza o la paura, ma in una frazione di
secondo, proprio mentre avevo davanti la carrozza del tram, riuscii a
schivarla. Superate le rotaie mi trovai in mezzo ad un mercatino che
attraversai a tutta velocità schivando le bancarelle e imboccai via dei Banchi Vecchi.
Come previsto dal piano, lì c'erano ad attendermi Lucia e Franco Di Lernia con
un impermeabile bianco. Io sarei dovuto entrare in un portoncino, lasciare la
bicicletta, mettermi l'impermeabile e togliermi il cappello e gli occhiali
neutri. Però passai talmente veloce che nemmeno li vidi e tirai dritto. La
paura in quel momento mi aveva fatto perdere l'abituale freddezza: pensavo solo
a pedalare il più velocemente possibile.
Attraversai Corso Vittorio Emanuele e arrivai a
Sant'Agostino dove c'era la libreria antiquaria di Fernando Bertoni. Fernando
per un certo periodo è stato comandante della Quarta Zona in sostituzione di
Mario Leporatti che andò a combattere nel viterbese; anche Gastone Manacorda
svolse questo ruolo. Arrivai nella libreria che si trovava proprio davanti alla
chiesa. Il locale all'interno aveva una botola dove noi nascondemmo alcuni dei
moschetti di Carboni che in seguito distribuimmo ai partigiani. Entrai senza
dire una parola. Ero cadaverico. Fernando naturalmente capì la situazione,
prese la bicicletta e la nascose nella botola. Mi sedetti sempre in silenzio.
Fernando mi prese un bicchiere d'acqua. Lo bevvi e uscii. Lui in un suo libro
scriverà che io ero bianco come un lenzuolo.
Uscito dalla libreria mi recai da Delia, la sorella di
Lucia, che faceva la commessa in piazza di Spagna. Successivamente Delia mi
disse che Carla e Sasà erano andati piangendo da lei per avere mie notizie,
erano molto preoccupati perché dopo che avevo attaccato i tedeschi loro sentirono
gli spari, e non vedendo la mia testa lungo Ponte Mazzini perché stavo piegato
sulla bicicletta, temettero che fossi stato colpito. Delia gli disse: guardate
che Mario è appena andato via.
Questi erano i valori ed i legami che ci tenevano uniti.
Sasà per me era come un fratello. Carla e Lucia sono rimaste legate per tutta
la vita da una solida amicizia. Sbaglia sia chi pensa che fossimo eroi, sia chi
pensa che fossimo violenti bombaroli: la verità è che sapevamo commuoverci e
anche piangere, ma la storia ci aveva messo nella condizione di avere una sola
scelta, quella di combattere contro la barbarie nazifascista.
L'azione a Regina Coeli i tedeschi non la poterono
nascondere. Dopo l'azione della settimana prima al Cinema Barberini il comando
tedesco affisse un avviso che vietava l'uso delle biciclette dopo le 19. Perché
noi attaccammo la sera alle 23. A Regina Coeli invece attaccammo alle11,50, e allora le vietarono completamente.
Alle14 incontrai Enzo Russo che mi disse: sai la radio ha
appena detto che non si può più andare in bicicletta perché è stata fatta un'azione
contro i tedeschi. Alle14! Perciò quell'azione ebbe un effetto straordinario.
Adesso un ricercatore, Carlo Costa, ha rintracciato un
mattinale della polizia dove si racconta che a me hanno sparato sette colpi di
pistola, che avevo un vestito verde, che l'azione è stata fatta alle 12. Quindi
era già presente nel mattinale della polizia.