22 giugno 2022

Matteotti contro la guerra: 24 giugno 2022. Riano non può essere cancellato dalla storia di Matteotti. OdG approvato il 21 giugno 2022

O.d.G. approvato all'unanimità dal Consiglio dell'ANPI provinciale dell'ANPI di Roma nella seduta del 21 giugno 2022

Riano non può essere cancellato dalla storia di Matteotti

Il rapporto di Giacomo Matteotti con Riano è certamente molto intenso anche se molto drammatico. Infatti ha probabilmente passato qui le ultime ore della sua vita. Dopo il rapimento al lungotevere il 10 giugno 1924 la macchina dei sicari lo ha portato fuori Roma lungo via Tiberina: è stata vista (allora di macchine ce n’erano poche) arrivare al centro storico di Riano a piazza Piombino, dove forse gli assassini volevano portarlo in un edificio, ma hanno rinunciato perché, non ostante fosse ormai sera, la zona era comunque popolata. Il cadavere di Matteotti fu sepolto frettolosamente nel bosco della Quartarella su via Flaminia, dove fu ritrovato in modo piuttosto sospetto il 16 agosto. Quando si venne a sapere il ritrovamento molta gente accorse, soprattutto contadini che conoscevano il suo impegno per la causa dei poveri. I resti furono portati nella chiesa di S.Giorgio, al cimitero del paese, dove fu allestita una camera ardente, a cui però fu consentito solo l’accesso dei familiari. Il giorno seguente il feretro fu portato a Monterotondo, caricato sul treno e trasportato a Fratta Polesine.

Al chilometro 23 di via Flaminia, in corrispondenza del luogo in cui fu trovato il cadavere di Matteotti sorge una stele, costruita nel 1976 dal Comune di Riano, che la sezione Anpi, dedicata proprio a Giacomo Matteotti, ha iniziato a curare dal momento della propria formazione, 10 anni fa. Abbiamo cercato di rendere più visibile il monumento operando la potatura degli alberi che si trovano attorno e la cui crescita, se non controllata, tende a coprire quasi completamente la struttura. Abbiamo ottenuto in regalo dall’Anpi di Ravenna le rose “Bella Ciao”, create dal partigiano Pantoli e regalate all’Anpi perché le piantasse nei luoghi della memoria (v. Patria Indipendente), e abbiamo realizzato due belle aiuole. Abbiamo poi disposto ai lati del monumento due fioriere, dove, a seconda della stagione di fioritura, si alternano piantine di ciclamino, garofano o begonia. La manutenzione di queste piante non è facile perché sul luogo non vi è acqua e neanche luce. Il monumento è illuminato in modo molto “discontinuo” da un pannello solare posto dal Comune.

Il monumento di via Flaminia è sempre stato al centro delle manifestazioni del 25 aprile e del 10 giugno, che la nostra sezione ha promosso o a cui ha partecipato insieme al Comune di Riano e le associazioni con cui collaboriamo SpiCGIL e Rete NoBavaglio. Speravamo quindi che il centenario della morte di Matteotti sarebbe stato il momento giusto per fare le necessarie migliorie, soprattutto garantendo gli allacci di acqua e luce, realizzando una pavimentazione dell’area e delle barriere vegetali per attutire il rumore del traffico che viene dalla strada e predisponendo delle strutture dove poter fare una bacheca e riportare immagini che ricordano l’attività di Matteotti.

Purtroppo le cose stanno andando nel modo sbagliato: non si sa se per incuria o per qualche altro motivo il provvedimento di legge che stanzia i fondi per la memoria del centenario non comprende il Comune di Riano. Questo è un grave “falso storico”, come si dichiara in una petizione e al Presidente della Camera dei Deputati, on. Fico, che tra l’altro non tiene conto di tutto l’impegno che il Comune, l’Anpi e tutte le altre associazioni e partiti antifascisti hanno dedicato per mantenere viva la memoria di Matteotti.

Nei prossimi giorni abbiamo già programmato da tempo un’iniziativa sull’impegno pacifista di Matteotti, a cui parteciperà il nostro Davide Conti, il presidente della Fondazione Matteotti Alberto Agheno, gli on.Stefano Fassina e Daniele Ognibene. Il titolo è “Matteotti contro la guerra”. Si invitano tutte le compagne e compagni ad intervenire! Sarà anche l’occasione per improvvisare un flash mob.

#RianoNonSiCancellaDallaStoriaDiMatteotti



il 22 giugno del 1922 nasceva a Roma il comandante Rosario Bentivegna

Rosario Bentivegna, cento anni da ribelle
Rosario Bentivegna a La Sapienza. Foto ANSA

di Davide Conti. Estratto da "il Manifesto" del 21 giugno 2022
«Sono nato il 22 giugno del 1922, qualche mese prima della marcia su Roma. Quindi si può star certi che non vi ho partecipato!». Era così che Rosario Bentivegna iniziava il racconto della sua esperienza di antifascista e partigiano. Salvo concludere che «la marcia su Roma fu un bluff sul piano militare ma un successo sul piano politico». Non mancava certo di intelligenza e ironia il comandante «Paolo» che aveva guidato il Gruppo di Azione Patriottica «Carlo Pisacane» durante i terribili 271 giorni di occupazione nazifascista della città che ha amato e difeso con le armi: Roma.

L’avvento del fascismo in Italia veniva indicato da Bentivegna non come esito inevitabile, quanto piuttosto come colpa storica della classe dirigente rea di aver inventato una risposta di tale carattere reazionario e regressivo di fronte alla grande questione dell’ingresso delle masse nella vita dello Stato. In una formula: l’indispensabile rifondazione su base democratica del patto collettivo e della sovranità popolare all’indomani della tragedia della Grande Guerra del 1914-1918.

A CENTO ANNI dalla sua nascita, e nel decennale della sua scomparsa (2 aprile 2012), la figura di Bentivegna «insiste» nella memoria storica di Roma e del Paese in ragione del suo lungo operato in seno alla Resistenza e del suo impegno in difesa della democrazia repubblicana. La sua traiettoria biografica coincide in larga parte con quei processi che hanno segnato il ’900 italiano ricollocando il Paese dalla parte giusta della Storia grazie alla «scelta» di combattere il regime dittatoriale imposto ed esportato in tutto il mondo attraverso i mezzi della guerra, dello sterminio di massa e del razzismo di Stato.

Il prologo di ciò che sarebbe stato si manifestò il 23 giugno 1941 quando, ad un anno dall’ingresso in guerra di Mussolini al fianco di Hitler, una manifestazione di studenti universitari protestò contro il richiamo obbligatorio alle armi. Le autorità fasciste segnalarono che l’azione faceva capo ad una «combutta sovversiva formata da elementi operai e intellettuali, con le modalità caratteristiche usate dal partito comunista». La repressione della polizia portò a numerosi arresti. Tra questi Antonello Trombadori, Pompilio Molinari, Paolo Bufalini, Roberto Forti, Mario Leporatti e il diciannovenne Rosario Bentivegna. Due anni dopo quel gruppo sarebbe divenuto la dorsale delle formazioni dei Gap del Pci a Roma.

IL CROLLO DEL FASCISMO e gli oltre cinquanta bombardamenti subiti dalla città spinsero Bentivegna alla scelta armata e all’ingresso in quella dimensione valoriale, umana e politica, che fu la Resistenza. Alla guida di uno dei quattro Gap Centrali «Paolo» ed i suoi compagni (tra cui la medaglia d’oro Carla Capponi, che fu sua moglie fino agli anni ’70) diedero corpo a quel conflitto asimmetrico ed «irregolare» che avrebbe riscritto il diritto dei popoli conferendo legittimità alle lotte per la loro autodeterminazione.

REALIZZÒ DECINE DI AZIONI di guerra contro le truppe nazifasciste tanto nel centro di Roma quanto in quelle periferie che divennero l’habitat naturale e protettivo dei ribelli della città. Nella capitale, dopo la fuga del re e dei generali a seguito dell’armistizio, le cellule dei Gap seguirono la parola d’ordine lanciata dagli Alleati: «rendere impossibile la vita all’occupante nazista».

Bentivegna praticò la guerriglia in Italia e all’estero. Incarnò fisicamente il carattere internazionalista della Resistenza combattendo a Roma e poi sulle montagne del reatino (al comando di gruppi partigiani formati da russi), proseguendo la lotta al fascismo e riscattando il nome del nostro Paese nelle fila della Divisione Garibaldi in Jugoslavia dove i «bravi italiani» erano stati «palikuce» (bruciatetti) e criminali di guerra (...).


Intervista a Rosario Bentivegna sulla Resistenza romana, sulla guerra di liberazione nazionale, sulla strage di Via Rasella e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. L’intervista è realizzata da Cecilia Rinaldini nel 2004 in occasione del LIX anniversario della Festa della Liberazione.


Intervista a Rosario Bentivegna di Michela Ponzani, per l'archivio storico del Senato:




Intervista di Rosario Bentivegna da parte degli studenti del Dante Alighieri:



(...) Rosario Bentivegna inizia a svolgere attività clandestina antifascista fin dalla giovinezza, vissuta nell'Italia fascista degli anni '30. Nel 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, aderisce ad un'organizzazione comunista di orientamento politico trozkista denominata "GUM" (Gruppo di Unificazione Marxista). Iscrittosi alla Facoltà di Medicina nel 1940, nel maggio 1941, in pieno regime fascista, partecipa all'occupazione dell'Università di Roma indetta dai GUF (Gruppi Universitari fascisti) in protesta contro la legge che richiamava alle armi gli studenti come "Volontari universitari"; la normativa prescrive una precedente legge che, invece, aveva disposto il congedo provvisorio per motivi di studio per tutti gli studenti universitari in età di leva e in regola con gli esami. Arrestato nel settembre dello stesso anno, Bentivegna viene rilasciato con diffida di polizia.

Nel 1943 aderisce al Pci e dopo l'8 settembre 1943, durante l'occupazione tedesca di Roma, partecipa alla guerra di liberazione dapprima come vice-comandante militare della IV zona garibaldina (Roma centro), poi come comandante del Gruppo di Azione Patriottica (GAP) "Pisacane" quale cellula dei Gap Centrali organizzati dalle Brigate Garibaldi per svolgere operazioni di guerriglia partigiana in città. Fuggito da Roma a causa del tradimento di un compagno, arrestato dalla Banda Koch, continua la Resistenza nel Lazio, a sud di Roma e immediatamente dietro il fronte tedesco di Cassino come comandante militare del Cln nella zona Casilina-Prenestina, fino alla Liberazione di Roma.

Il 5 giugno 1944, appena un giorno dopo l'arrivo degli Alleati nella Capitale, viene coinvolto in uno scontro a fuoco con un ufficiale della Guardia di Finanza, intento a strappare manifesti affissi sui muri che salutano l'arrivo degli Americani e la Liberazione di Roma. Nello scontro cade il tenente della Guardia di Finanza, Giorgio Barbarisi.

Sottoposto a processo dall'Alta Corte Militare Alleata, il 19 luglio 1944, viene condannato in prima istanza a 18 mesi di carcere con l'imputazione di "omicidio colposo per eccesso di difesa". Il 14 agosto successivo, in sede di revisione del processo, gli viene pienamente riconosciuto lo stato di legittima difesa, con assoluzione e immediata scarcerazione.

La sera del 20 settembre 1944 sposa Carla Capponi, sua compagna di lotta nei GAP a Centocelle e sui monti Prenestini dalla quale avrà la figlia Elena.

La mattina successiva su decisione del Ministero della Guerra, viene trasferito in Jugoslavia dove ricopre l'incarico di commissario di guerra presso la IV Brigata della Divisione Partigiana Italiana Garibaldi, reparto regolare dell'Esercito Italiano che opera nel sud della Jugoslavia (Montenegro, Kossovo, Bosnia e Croazia meridionale, Sangiaccato).

Durante il periodo di permanenza in Jugoslavia assolve a compiti di ufficiale di collegamento con i Comandi dell'Esercito Popolare Liberatore Jugoslavo ed assume la responsabilità politica del gruppo dei comunisti italiani che operano nella Divisione (...).

https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/fondi-acquisiti-dall-archivio-storico/rosario-bentivegna

10 giugno 2022

Odio gli indifferenti: i lavori del Liceo Vittorio Gassman di Roma sulla Resistenza

Ringraziamo i ragazzi e le ragazze e i docenti e le docenti del Liceo Vittorio Gassman di Roma per questo grande lavoro svolto:

ODIO GLI INDIFFERENTI

Un titolo forte per il progetto, a cui hanno partecipato le classi 2D, 2L, 3H, 3P, 4A, 4H, 5A, 5B, 5E e 5M, svoltosi in collaborazione con l'A.N.P.I della provincia di Roma e con la sezione del XIV Municipio, perchè contro l'indifferenza si deve essere forti.

A partire dal racconto degli anni dal '43 al '45, dall'incontro con le storie dei protagonisti e delle protagoniste che hanno scelto di prendere parte alla Resistenza e dalla riflessione sulla nostra Costituzione come perfetta sintesi di questo momento, i ragazzi del Gassman hanno elaborato contributi differenti, facendo proprio quanto appreso e dimostrando, ognuno con le loro specificità, che LA RESISTENZA SIAMO NOI!



La Banda Mario: "A very mixed bunch" della 4A

Parco di Monte Mario in onore di Antonio Righi e Guido Gori; della 3H

Musica e parole della Resistenza; della 2D

Le donne della Costituente; della 5B

09 giugno 2022

Marzo – giugno 2022: la seconda stagione de La Primavera delle Antifasciste

Il 2 marzo scorso è  partita la seconda edizione della Primavera delle antifasciste che lo scorso anno, malgrado le grandi difficoltà, dovute all’impossibilità di realizzare iniziative in presenza, siamo riuscite a sviluppare con un progetto organico di approfondimenti seminariali, coinvolgendo tantissime sezioni di Roma e della provincia, che ci hanno fatto conoscere la vita, l'azione politica e sociale di Madri Costituenti e Partigiane: Teresa Mattei, Teresa Noce, Nilde Iotti, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Nadia Gallico Spano, Laura Bianchini, Angela Cingolani Guidi, Maria De Unterrichter Jervolino, Lidia De Angelis, Maria Federici, Marisa Cinciari Rodano, Carla Capponi, Marisa Musu, Maria Teresa Regard, Lucia Ottobrini, Tina Costa, Marisa Ombra.

Insieme all’ANPI del Molise abbiamo realizzato un seminario su Maria Di Salvo, partigiana molisana uccisa a Roma pochi giorni dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, in uno scontro a fuoco coi fascisti.

La “Primavera 2021” è stata la prima tappa nella costruzione di un nostro archivio ideale cui poter attingere e da implementare.

Numerose le iniziative che si svolgeranno nel 2022 fino alla fine di giugno di cui vi daremo conto di volta in volta sui social e che prevedono, a seconda dei casi, una modalità in presenza, mista o da remoto.


11 MARZO - DONNE RUSSE: LE TAPPE DELL' EMANCIPAZIONE PRIMA E DOPO LA RIVOLUZIONE



12 Marzo:



14 marzo:


20 marzo:

1 aprile:



3 aprile:



5 aprile:



6 aprile:



9 aprile:



13 aprile:




15 aprile:





25 APRILE: PRESENTAZIONE "PARTIGIANE" SEZIONE COLLEFERRO 



7 MAGGIO - ROSSANA ROSSANDA - SEZIONE BRACCIANO




13 MAGGIO- PRESENTAZIONE "PARTIGIANE" - SEZIONE LANUVIO


20 MAGGIO - JOYCE LUSSU - SEZIONE SPUNTICCIA LEONARDI

La diretta su Facebook


25 MAGGIO- MARISA MUSU LA RAGAZZA DI VIA ORAZIO - SEZIONE ELIO FARINA OSTIA



27 MAGGIO - CAMILLA RAVERA - SEZIONE NIDO DI VESPE

La diretta Facebook


28 MAGGIO - PROIEZIONE FILM "ALBA MELONI" - SEZIONE RAGAZZE DELLA RESISTENZA 



31 MAGGIO - NILDE IOTTI - SEZIONE ROCCA DI PAPA 


ADA GOBETTI - sezione LA STAFFETTA PARTIGIANA COLLEFERRO


1 GIUGNO - PRESENTAZIONE RICERCA "DONNE DELLA RESISTENZA ROMANA" A CURA DELLE VOLONTARIE del servizio civile presso l'ANPI provinciale - CASA DELLA MEMORIA e della Storia - ORE 16.30



6 GIUGNO - LIDIA MENAPACE - SEZIONE ADELE BEI - ORE 15.00 - CGIL NAZIONALE


9 GIUGNO -  "STRADE RESISTENTI" - SEZIONI XIII-XIV MUNICIPIO

La diretta su Facebook


9 GIUGNO - RENATA VIGANÒ  E PRESENTAZIONE del libro "PARTIGIANE" - SEZIONE ALLUMIERE


18 GIUGNO - ANNA MARIA ENRIQUES AGNOLETTI - SEZIONE MARINO



24 GIUGNO - LAURA LOMBARDO RADICE - SEZIONE ESQUILINO


25 GIUGNO - TERESA VERGALLI - SEZIONE FRASCATI  GROTTAFERRATA  



PRIMI GIORNI DI LUGLIO Giornata conclusiva della Primavera delle Antifasciste dedicata a TINA COSTA - COORDINAMENTO DONNE ANPI provinciale di Roma - PARCO DELLA CAFFARELLA 


AGGIORNAMENTI IN PROGRESS

Marina Pierlorenzi, vicepresidente ANPI provinciale di Roma e responsabile del coordinamento donne dell'ANPI provinciale di Roma


Tina Costa


05 giugno 2022

Il 5 giugno del 1944 cadeva in combattimento Ugo Forno, 12 anni

https://www.patriaindipendente.it/ultime-news/ugo-forno-il-partigiano-bambino/ 

Ugo Forno, il partigiano bambino

di Felice Cipriani



12 anni, ucciso in battaglia dai tedeschi a Roma il 5 giugno 1944. Con lui, tanti altri ragazzi che hanno perso la vita per la libertà e la giustizia sociale

Ugo Forno

5 giugno 1944, Roma festeggia dal pomeriggio del 4 la liberazione della città dall’occupazione nazifascista. Angiolo Bandinelli, testimone di quella giornata, alle ore 8 vede Ugo Forno, nei pressi del Parco Nemorense che strillava: «C’è una battaglia, lassù oltre piazza Vescovio, ci sono i tedeschi, resistono ancora». Ughetto si allontanò subito e si diresse verso il luogo dello scontro. Testimonianza di Guidi Antonio e Curzi Luciano: «Alle ore 9 si presentava nella casa colonica al vicolo Del Pino (attuale via Mancinelli) un giovanetto armato di fucile, seguito da altri giovani, che informava i presenti che i tedeschi stavano per far saltare il ponte sull’Aniene, (…) e predisponeva l’azione da svolgere». I due assieme ad altri contadini si armano, seguono Ughetto e si appostano sull’altura che domina l’Aniene e la Via Salaria. Iniziano a sparare contro i sabotatori tedeschi che stanno minando il ponte ferroviario sull’Aniene. Ughetto spara a ripetizione, testimonierà il tenente dei Gap Partigiani Giovanni Allegra. In soccorso dei guastatori arriva un plotone motocorazzato che inizia a lanciare granate verso i combattenti partigiani. Un colpo ferisce mortalmente Ughetto che verrà condotto nella vicina clinica Inail, in via Monte delle Gioie dove, alle ore 10, ne verrà constatata la morte. Da un proiettile di mitragliatrice rimase ferito il sedicenne Luciano Curzi, mentre l’agricoltore Guidi Francesco, affittuario della “Tenuta Vignatorti”, ebbe una gamba dilaniata da una scheggia di granata e morirà alla fine della giornata.

Chi era Ughetto? Debbo dire che quando ho letto le scarne informazioni sull’episodio di guerra che lo ha visto protagonista, non riuscivo a comprendere come un ragazzino di 12 anni potesse imbracciare un fucile ed invitare persone più grandi di lui a combattere contro i tedeschi per salvare un ponte. All’inizio ho pensato a una ragazzata irresponsabile, frutto di un’esaltazione di un gruppo di ragazzi incoscienti. Leggendo il giudizio della sua professoressa che lo promuoveva: “Pieno di buona volontà, un po’ troppo irrequieto, ma buono e generoso”, si comprende meglio il ragazzo. La sua irrequietezza la rimanderei all’inquietudine, maturata nei mesi di occupazione tedesca. Poi vi è un particolare da sottolineare. Ci sono uomini, e Ughetto lo era, a cui la guerra, le privazioni, portano in avanti il calendario dell’età e gli fanno ascoltare meglio la propria coscienza. Questi uomini, quando sono coinvolti in qualcosa che appartiene al male, non possono fare a meno di combatterlo per gli altri, ma anche per se stessi per la propria dignità e per il loro avvenire. Tutto questo aveva capito Ughetto, che comprese che la famiglia era lui, la mamma, il babbo, il fratello, i compagni di scuola, la casa, la sua città, l’Italia.

Il 17 aprile 1947 la Commissione laziale per il riconoscimento della qualifica di partigiano e di patriota gli riconosce la qualifica di partigiano e gli assegna la medaglia d’oro al valor militare. Prima della definizione dell’iter, il Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia, emanerà un decreto che prevedeva che partigiano e meritevole di medaglia d’oro dovesse appartenere a una formazione o gruppo partigiano. Nonostante l’esercito avesse riconosciuto Ughetto, giovanetto quale militare presente alle bandiere, la medaglia d’oro non gli fu concessa. Ci vorrà il mio libro e la presentazione di un’istanza con allegata la documentazione affinché il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’8 gennaio del 2013, gli conceda la medaglia d’oro al Merito Civile alla Memoria. A Ughetto le Ferrovie hanno dedicato il ponte sull’Aniene e il Comune il giardino che è il luogo ove combatté. Lo scorso 10 luglio è venuto a mancare, all’eta di 91 anni, Francesco Forno, fratello di Ughetto. Era ricoverato in una clinica vicino a Casal Bernocchi, a 100 metri da dove si trova la via intitolata  a Ugo Forno.

La storia di Ughetto ripropone quelle di tanti giovani che si sono battuti contro il fascismo, la guerra, l’occupazione nazifascista e che sono stati un po’ trascurati dalla storiografia ufficiale, dal movimento della Resistenza e dagli scrittori.

Con il 25 luglio e l’8 settembre, molti giovani, quando l’Italia chiamò si fecero trovare pronti. Presero le armi l’8 settembre, quando la Patria era perduta e una delle pagine più brutte della storia del nostro Paese veniva scritta, per responsabilità del Re e dei vertici delle nostre Forze Armate. Questi giovani assieme a tanti altri a Roma e in Italia con la loro azione e sacrificio hanno restituito dignità al Paese. Nella lotta contro l’occupazione nazifascista furono 18 gli studenti ad essere uccisi a Roma. Altri giovani sono caduti il 9 e 10 settembre nella difesa di Roma. Per questi ultimi da anni andiamo chiedendo all’amministrazione comunale che la città di Roma eriga un monumento ai primi giovani partigiani della Resistenza romana caduti tra il 9 e 10 settembre nella difesa della città.

Ecco i loro nomi: Carlo Del Papa di 14 anni non ancora compiuti; Antonio Calvani di 16 anni; Maurizio Cecati di 17 anni; Nello Di Mambro, caduto nel giorno del suo diciottesimo compleanno; Salvatore Lo Rizzo di 18 anni; Carmelo Coco di 19 anni ed Augo Codani, di 16 anni, caduto il 23 settembre 1943.

Tra i 335 assassinati alle Fosse Ardeatine, ben 27 avevano meno di vent’anni, 113 meno di trenta.

Vanno inoltre ricordati i giovani del quartiere capitolino “Monte Sacro” come Ferdinando Agnini, che aveva aderito al Partito d’Azione, studiava medicina e abitava in via Monte Tomatico. Altri compagni di lotta e di fede erano gli studenti universitari Mario Perugini, Girolamo Congedo, Giorgio Lauchard e l’operaio Renzo Piasco, Antonio Pistonesi, Luciano Celli, Franco Caccamo e Orlandi Posti Orlando, “Lallo”, il figlio della sarta che abitava in via Monte Nevoso. Egli come Ferdinando Agnini è catturato e portato in via Tasso. Le ore drammatiche di Lallo e la sofferenza per le sevizie subite nel giorno del suo arresto sono state raccontate, dopo la liberazione di Roma, da Mastino Del Rio: «Mi sono accorto che questo ragazzo soffre in silenzio con dignità. Gli dico: “Caro Lallo ammiro la tua forza d’animo. Tu puoi essere esempio ai grandi. Ti sei battuto contro i tedeschi pensando alle sventure del nostro Paese, sacrificando te e la tua mamma. Vorrei che tutti i giovani, che tutti gli italiani fossero come te”. Sorride, risponde: “Caro avvocato, io non ho fatto niente o quasi niente. La mia pena qua dentro è proprio quella di aver fatto così poco. Oggi è il mio compleanno (18 anni). Ho proprio bisogno di qualche carezza”. Si guarda attorno come per farmi notare lo squallore che circonda. Una lacrima spunta come una perla, ma egli chiude gli occhi, alza fieramente la testa e mormora: “Scusi avvocato”, e si dirige alla sua cuccia». La sua identità fu riconosciuta da un’amica di famiglia dalla camicia che indossava. Orlando aveva tutti i capelli bianchi. Anche Agnini, Pistonesi e Piasco furono trucidati alle Fosse Ardeatine.

Fosse Ardeatine

Ha scritto una ragazza, senza firmarsi, sul giornale dell’Usi La Nostra Lotta del marzo 1945, nel ricordare la grande manifestazione studentesca del 28 gennaio del 1944 a San Pietro in Vincoli cui parteciparono, tra gli altri, gli studenti Agnini, Orlandi, Gizzio: “La libertà che si riceve in dono, o che si crede di aver ereditato dai padri o dagli avi, può venir persa e può venir venduta; ma la libertà che si conquista non si può né perdere né vendere. Ed io credo che i duecento ragazzi di San Pietro in Vincoli sapranno restare uomini liberi. Per questo non invano soffrirono quelli che oggi non sono fra noi; per questo i nostri morti non sono morti invano”. Questi i nostri eroi che sono giovani e belli, aggiungo io.

Concludo con un’annotazione. Da un po’ di anni nel dibattito su fascismo e antifascismo spesso si equiparano i giovani partigiani con i giovani della Repubblica sociale. Tutti mossi e impegnati, si dice, da un’ideale anche se diverso. È un falso, perché quelli della Repubblica sociale o fascisti peroravano la causa della guerra, avevano per simboli morte e baionette e usavano slogan razziali, i giovani partigiani come Orlando, Agnini, Rosario Bentivegna amavano la libertà, la democrazia, curavano molto l’amore per le loro donne. Quindi, per favore, facciamola finita con questo buonismo antistorico che offende chi ha pagato con la vita la ricerca della libertà, della democrazia e l’amore per il prossimo.

L’antifascismo non è una sorta di “residuo archeologico o pretestuoso”, ma è come lo definisce lo storico Luzzatto: «la Resistenza è un’esperienza troppo “singolarmente febbrile e giovanile” per lasciare solo ai reduci, o alle celebrazioni rituali, il compito di sottrarla all’usura del tempo. È un’indicazione utile per chi ha a cuore la trasmissione di un sapere storico attento a formare nei giovani l’assunzione di responsabilità sul passato e, quindi, sul presente». 

Felice Cipriani

Un video a cura della Cooperativa Diversamente

https://www.facebook.com/watch/?v=257252078676234

04 giugno 2022

Il 4 giugno 1944: la liberazione di Roma

Il 4 giugno 1944 Roma viene Liberata dalle truppe del generale Clark.

La battaglia di Roma: uno straordinario documentario di Gianni Bisiach 




La Liberazione di Roma: 4 giugno 1944

di Rosario Bentivegna

La dura offensiva partigiana del febbraio e del marzo 1944, richiesta dagli Alleati dopo lo sbarco di Anzio e condotta dai partigiani romani che operavano in città contro le forze militari germaniche, i loro comandi, i loro trasporti, le loro vie di comunicazione in città, nelle periferie e in tutto il Lazio, provocò inevitabilmente un allentamento delle misure di cautela cospirativa proprie della guerra clandestina. Bloccate da Kesserling le forze alleate sulla spiaggia di Anzio, i tedeschi e i collaborazionisti repubblichini recuperarono con sanguinosi rastrellamenti e con l’aiuto di infiltrati delle diverse polizie, pubbliche e private (le SS di via Tasso, i banditi di Koch alla pensione Jaccarino, la Pubblica Sicurezza di Roma guidata dal questore Caruso, le formazioni repubblichine Muti, Onore e combattimento, Roma o morte, ecc.) il controllo del territorio, arrestarono e deportarono migliaia di romani, ne fucilarono alcune centinaia, massacrarono nei dintorni di Roma le popolazioni civili (ricordo, per tutte, la Pasqua di sangue della Sabina), riuscendo così a liquidare le formazioni partigiane più efficienti e aggressive.

Anche i Gap Centrali caddero alla fine di aprile nelle mani del questore Caruso, che li trasferì alla pensione Jaccarino e di qui a Via Tasso dove, dopo un sommario processo, furono condannati a morte.  L’esecuzione era stata fissata proprio per il 4 giugno, che sarà invece il giorno della liberazione di Roma. Solo pochi di noi, inquadrati nei Gap Centrali, riuscimmo a sfuggire alla caccia spietata che ci veniva condotta (avevamo tutti, tra l‘altro, taglie miliardarie ai valori attuali della moneta: "Spartaco", Carlo Salinari, il nostro comandante, fu "pagato sull’unghia", a chi l’aveva arrestato, un milione di lire del 1944)

Ai primi di maggio Francesco Curreli, ex combattente delle Brigate Internazionali in Spagna, Carla Capponi e io fummo inviati dal nostro Comando Militare nella zona che, da Cassino a Roma, era contenuta lungo le due strade consolari Prenestina e Casilina, dove si svolgeva il massimo dei collegamenti tra i comandi di Roma e il fronte. A me fu affidato il comando militare (si stava arrivando alla unificazione della Resistenza, nel Corpo Volontari della Libertà) di tutte le formazioni militari della zona, interne ed esterne al C.L.N., con il compito di attaccare in tutti i modi il nemico e i collaborazionisti, anche ai fini di preparare le avanguardie partigiane, che, armate dai lanci aerei degli Alleati, avrebbero dovuto precedere le formazioni anglo-americane e partecipare alla insurrezione di Roma.

Analoghi compiti furono affidati a Mario Fiorentini, che aveva come vice Lucia Ottobrini (eravamo gli unici, dei Gap centrali, che erano sfuggiti alla cattura), nella zona di Tivoli, con in più il compito di preparare campi di lancio sul Monte S. Gennaro per avere armi dagli Alleati da portare anche ai partigiani di Roma.

Il 15 maggio gli Alleati sfondarono a Cassino, e la battaglia per Roma, bloccata dopo il fallimento dello sbarco di Anzio, ricominciò. Le nostre formazioni ripresero con più intensità gli attacchi ai tedeschi (nella zona di Palestrina, per il nostro orgoglio, furono affissi dai comandi nemici i famosi cartelli "Acthung! Banditen!"), i tedeschi risposero con la nota brutalità, anche con rappresaglie che ci colpirono direttamente (la famiglia Pinci – il padre, i tre figli e le due figlie, che facevano parte della nostra formazione - furono massacrati davanti alla vecchia madre).

Stavamo in una situazione che non era certo invidiabile: infatti, mentre combattevamo contro i tedeschi, subivamo insieme a loro i bombardamenti e i cannoneggiamenti degli Alleati, ma, soprattutto con l’aiuto di una formazione di carabinieri, riuscimmo a infliggere perdite al nemico, a catturare parecchi prigionieri e perfino gli approvvigionamenti per un battaglione, che ci permisero di sfamarci e che distribuimmo alla popolazione, disperata e dispersa nelle campagne.

Il primo di giugno, privo di collegamenti con il Comando e di notizie sull’andamento delle operazioni militari, decisi di rientrare a Roma per avere notizie e ulteriori istruzioni dal Comando a proposito del trasferimento a Roma, in appoggio dei partigiani romani, delle formazioni che erano al mio comando. Vennero con me Carla Capponi e Dante Bersini, comandante militare della formazione di Palestrina. Francesco Curreli, intanto, operava nella zona della Sgurgola e di Paliano, con il compagno Giannetti, anche lui ex combattente delle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile, e comandante delle formazioni garibaldine della zona.

Il due giugno presi contatto con Valentino Gerratana, del comando centrale garibaldino, il quale la sera del tre mi consegnò quattro pesanti batterie con riflettori, che avrei dovuto portare a Tivoli, a Fiorentini, per essere utilizzati come segnali luminosi dei limiti del campo di lancio sul Monte San Gennaro. La parola d’ordine, che ci doveva pervenire da Radio Londra, era "La neve è caduta". La sera in cui l’avessimo sentita bisognava mettere in sito quei fari e attendere il lancio. Si dà il caso che quella missione aerea (lo seppi molti anni dopo) sarebbe stata portata a termine da Ruggero Orlando, il noto giornalista televisivo, ingaggiato dagli Stati Uniti.

La mattina del 4 rimandai Bersini a Palestrina, e, all’alba, Carla e io con due biciclette e due pesanti zaini in cui avevamo disposto i fari prendemmo la via Tiburtina. All’altezza di Ponte Mammolo fummo fermati da reparti tedeschi in ritirata, disposti in posizione di combattimento. Un ufficiale ci chiese dove stavamo andando. "Abbiamo il nostro bambino a Tivoli, dalla balia, gli dicemmo, e siamo molto preoccupati: vogliamo raggiungerlo". "Impossibile, ci rispose, a due chilometri ci stanno gli americani". Carla e io ci consultammo, non potevamo credergli. Ma come, se ieri sera ci hanno dato le disposizioni per i campi di lancio, è chiaro che gli alleati non saranno qui prima di dieci, quindici giorni. Insistemmo per proseguire, l’ufficiale tedesco credette alle nostre giustificazioni, non ebbe nemmeno la curiosità di controllare i nostri zaini, e ci lasciò passare.

Il fatto fu che dopo due chilometri incontrammo effettivamente gli americani, e allora tornammo indietro, attraversammo di nuovo, questa volta verso Roma, le linee tedesche e raggiungemmo il centro militare in Roma, cui demmo la notizia che gli alleati stavano effettivamente arrivando, e che li avremmo visti in serata in città. Per tutto il giorno, sulla via Tiburtina, dove ci eravamo fermati presso il comando di zona, vedemmo sfilare i tedeschi in ritirata, e ci sembrava ancora un esercito imponente, con le sue artiglierie pesanti e i suoi carri armati. Ma quando arrivarono gli americani, con le loro attrezzature e le loro armi, i tedeschi che erano passati poco prima ci sembrarono dei pezzenti, né riuscimmo mai a capire perché, malgrado l’enorme sproporzione di mezzi e la grande quantità di uomini che avevano a disposizione, gli Alleati ci avessero messo tanto tempo ad arrivare a Roma.

Il primo incontro con loro, che lì fecero sosta, fu la sera sul piazzale Tiburtino, e Roma esplose in tali manifestazioni di gioia, dopo nove mesi di buio e di fame, di paura e di morte, che possono essere descritti solo dalle immagini dei cine giornali, e tornarono a vedersi per le strade della città i ragazzi e gli uomini a rischio che Roma aveva nascosto e protetto per ben nove mesi. Fu un secondo 25 luglio, alla faccia di quei quattro sgallettati, più o meno in camicia nera, che parlano della guerra di liberazione solo in termini di guerra civile.


I partigiani romani avevano avuto l’ordine di non attaccare: erano appostati, armati dentro i portoni o dietro gli angoli delle vie secondarie, pronti a reagire ad eventuali tentativi dei tedeschi di aggredire in qualche modo la popolazione civile. Tra i piani farneticanti di Mussolini e del generale Wolff, vero padrone della cosiddetta Repubblica Sociale e comandante in capo delle SS, erano state elaborati piani di punizione dei romani, che avevano così duramente resistito ai tedeschi soprattutto con una straordinaria rete di solidarietà per i perseguitati e con la più intransigente disobbedienza civile (solo il 10 per cento dei romani chiamati alla leva militare e del lavoro risposero ai bandi nazisti, contro il 40 per cento dell’Italia occupata). Nella città e nei suoi dintorni si era sviluppata inoltre una guerriglia che, nei primi nove mesi della Resistenza, e cioè fino al giorno della liberazione della città, era stata la più intensa di qualsiasi altra città d’Italia. Dollmann, comandante delle SS in Roma, scrisse dopo la guerra, nelle sue memorie, che Roma era stata la Capitale dell’Europa occupata che aveva dato più filo da torcere ai tedeschi occupatori. Mahlausen, console tedesco in Roma, sempre nelle sue memorie, riporta che Kappler aveva paura dei romani, e lo stesso Kappler, per giustificare la fretta e la segretezza con cui aveva portato a termine la strage delle Ardeatine, disse durante il processo che gli fu intentato dal Tribunale militare di Roma che non si poteva fidare dei romani, che non lo avevano mai aiutato contro i partigiani, malgrado le promesse di consistenti premi in denaro, e che quella segretezza era dovuta alla paura delle reazioni dei romani e della Resistenza ove fossero stati a conoscenza del delitto che i nazisti stavano per commettere.

I partigiani romani hanno lasciato sul terreno, dall’8 settembre del ‘43 al 4 giugno del ‘44 circa 1700 caduti; oltre diecimila sono stati i romani deportati in Germania. Senza dubbio la ritirata frettolosa dei nazisti da Roma, frutto di probabili accordi presi tra gli Alleati, il Vaticano, i nazisti e il governo italiano di Badoglio, fu dovuta anche alla combattività dimostrata dai romani, di cui si stupisce perfino Kesserling nelle sue memorie, dagli stretti rapporti tra la resistenza passiva, disarmata, della popolazione, e la durezza degli attacchi militari e dei sabotaggi condotti dai partigiani in città e nel Lazio.

Comunque il piano di Mussolini e di Wolff, di difendere Roma casa per casa e di deportare tutta la popolazione maschile valida dalla città fu abbandonato come irrealizzabile anche per la risposta che i romani avevano dato, oltre che con le armi dei loro partigiani, con la protezione offerta ai combattenti e ai perseguitati di qualsiasi colore, avendo non solo impedito ai repubblichini di sviluppare una qualche iniziativa politica, ma anche avendo isolato gli occupatori nazisti da ogni contatto umano con la popolazione. I nazisti ebbero tutto il tempo di capire che un’iniziativa antipopolare di massa sarebbe finita, a Roma, molto peggio che a Napoli.

Fu anche per questo che se ne andarono con la coda tra le gambe, non senza, però, lasciare dietro di loro la consueta striscia di sangue, con i massacri della Storta e del mercato di Poggio Mirteto.

(da "Liberazione", 5 giu. 2001)


4 giugno 1944: eccidio de La Storta




L'eccidio raccontato in un volume scaricabile, a cura dell'ANFIM:



Eccidio-della-Storta-Anfim_2021.pdf

Dalla prefazione:

Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1944, l’esercito alleato si prepara a entrare in Roma da sud. I tedeschi cercano la fuga disperatamente e alcuni di essi, al comando dell’anziano ufficiale delle SS Hans Kahrau, caricano su due camion dei prigionieri politici incarcerati nella tristemente famosa prigione di Via Tasso. Si dice che vogliano portarli con sé in Germania o che debbano consegnarli a Mussolini.

Si tratta di prigionieri che possono essere un prezioso salvacondotto: nel caso in cui si fossero incontrati dei partigiani sulla strada, essi avrebbero potuto sempre essere scambiati con la libertà o almeno con la vita salva.

I prigionieri scelti, infatti, appartengono, secondo i tedeschi, al Fronte Militare Clandestino, oppure sono socialisti. In effetti, tra essi c’è il responsabile militare delle Brigate Matteotti, Giuseppe Gracceva, nome di battaglia “Maresciallo Rosso”, il quale viene fatto salire sul primo camion in partenza che, tuttavia, non va da nessuna parte (chi dice per un guasto e chi per un agguato dei GAP). Il caso salvò la vita a Gracceva e agli altri saliti su quel mezzo (tra questi Arrigo Paladini).

Sul secondo camion, vengono fatti salire altri quattordici prigionieri. Tra questi c’è Bruno Buozzi, operaio, dirigente sindacale, già deputato del PSI nella legislazione precedente alla dittatura fascista, personaggio ben noto e molto attivo tra Italia e Francia per l’affermazione del socialismo e del movimento sindacale.

E c’è anche Luigi Castellani, dipendente del Ministero dell’Interno, maestro di xilografia e di disegno. Era stato arrestato dalla Gestapo, la polizia di sicurezza tedesca, nel pomeriggio del 4 aprile 1944, tradotto al carcere di Regina Coeli, e successivamente trasferito in Via Tasso.

Il mezzo parte, incolonnato da Via Tasso, con gli altri veicoli tedeschi verso nord. È notte, ormai, e il convoglio viene fermato sulla Via Cassia, in zona detta La Storta. All’alba del 4 giugno, al chilometro 14 di Via Cassia, in aperta campagna, i quattordici prigionieri vengono allontanati dal resto del convoglio e portati in una rimessa della tenuta Grazioli. Nel pomeriggio dello stesso giorno, in una piccola valle accanto alla tenuta, vengono giustiziati con un colpo di pistola alla testa.

Non è ancora chiaro perché o chi emanò l’ordine (il nome più accreditato, dopo gli ultimi studi, è Erich Priebke, vicecomandante del quartier generale della Gestapo a Via Tasso e boia delle Fosse Ardeatine). Il “carico” del camion era troppo prezioso per lasciarlo così, in un campo, al chilometro 14,200 di una delle più famose vie di accesso alla capitale. Sarebbe stato più logico tenere con sé tutto quel gruppetto di uomini e assicurarsi via libera fino al confine, ma si è preferito, invece, “sbarazzarsi” di quel carico umano nel modo più sbrigativo possibile in un luogo anonimo. I corpi dei martiri vennero individuati dai contadini del luogo che diedero l’allarme.

Nonostante gli sforzi degli storici, il dibattito sulla ricostruzione dell’eccidio è ancora aperto. Anche se Kappler, comandante della Gestapo a Roma, durante il suo processo, parlò di un attacco di partigiani, si è ritenuto che il motivo di queste morti per condanna senza processo fosse dovuto a un guasto al loro camion (Alessandro Portelli): divenuti un peso, era meglio eliminare i prigionieri. Non è, tuttavia, una ipotesi probabile, dato il necessario lungo tragitto per giungere in zone sufficientemente sicure per i tedeschi. Si è anche sostenuto che l’ordine di uccidere i prigionieri fosse stato dato già in partenza dal comando (Priebke? Kappler?) e che la messinscena fosse solo un modo per giustificare la partenza e l’eliminazione

di nemici pericolosi senza che venissero reclamati subito da qualcuno. Altri autori hanno ipotizzato che l’ordine fosse stato impartito in seguito visto che qualche contadino della zona testimoniò di avere visto arrivare una motocicletta tedesca che poteva anche avere portato nuovi ordini (Gabriele Mammarella). È stata avanzata anche la tesi secondo la quale i prigionieri fossero stati eliminati per far posto al bottino di guerra (Paolo Monelli).

Caso, convenienza, messinscena, opportunismo, tutte le ragioni che sono poste alla base delle diverse ricostruzioni colpiscono nel profondo per il comune disprezzo delle regole (morali, civili e militari) e della vita umana e dimostrano, una volta ancor di più, la banalità del male.

Il procedimento a carico di Priebke è stato archiviato e nessuno è stato processato per la strage di La Storta. Ai parenti delle vittime è stato negato a lungo un degno monumento.

Attualmente rimangono il memoriale e il cippo di via Galli, in una piazzola nel verde non sempre ben curata, la presenza del Sindaco o comunque di un suo delegato alla cerimonia commemorativa. Probabilmente, molto di più andava e va fatto per dare il giusto tributo al sacrifico e alla memoria dei quattordici che sono caduti, in modo anonimo e senza motivo di morire, al chilometro 14,200 della Cassia.

È a questi quattordici uomini che è dedicato questo libro.

Francesco Albertelli - Presidente Anfim


Vedi Anche:

https://www.eccidiolastorta.it/ 


01 giugno 2022

4 giugno festa della Liberazione di Roma. Il programma e il racconto di Rosario Bentivegna

Il 4 giugno alle ore 16,00 si terrà l'evento organizzato dall'ANPI provinciale di Roma in occasione del 78° della LIberazione della città che prevede:

- l'omaggio al Memoriale della Resistenza di piazzale Ostiense e successivamente al Rome War Cemetery di via Zabaglia

Dopo le cerimonie, alle quali prenderà parte anche il rappresentante dei veterani britannici 1943-1945 Harry Shindler

- a partire dalle ore 17,00 a piazza Testaccio, grande festa, musica e letture con la BandaJorona, la Banda Cecafumo e Ilaria Patamia.








La Liberazione di Roma: 4 giugno 1944

di Rosario Bentivegna

La dura offensiva partigiana del febbraio e del marzo 1944, richiesta dagli Alleati dopo lo sbarco di Anzio e condotta dai partigiani romani che operavano in città contro le forze militari germaniche, i loro comandi, i loro trasporti, le loro vie di comunicazione in città, nelle periferie e in tutto il Lazio, provocò inevitabilmente un allentamento delle misure di cautela cospirativa proprie della guerra clandestina. Bloccate da Kesserling le forze alleate sulla spiaggia di Anzio, i tedeschi e i collaborazionisti repubblichini recuperarono con sanguinosi rastrellamenti e con l’aiuto di infiltrati delle diverse polizie, pubbliche e private (le SS di via Tasso, i banditi di Koch alla pensione Jaccarino, la Pubblica Sicurezza di Roma guidata dal questore Caruso, le formazioni repubblichine Muti, Onore e combattimento, Roma o morte, ecc.) il controllo del territorio, arrestarono e deportarono migliaia di romani, ne fucilarono alcune centinaia, massacrarono nei dintorni di Roma le popolazioni civili (ricordo, per tutte, la Pasqua di sangue della Sabina), riuscendo così a liquidare le formazioni partigiane più efficienti e aggressive.

Anche i Gap Centrali caddero alla fine di aprile nelle mani del questore Caruso, che li trasferì alla pensione Jaccarino e di qui a Via Tasso dove, dopo un sommario processo, furono condannati a morte.  L’esecuzione era stata fissata proprio per il 4 giugno, che sarà invece il giorno della liberazione di Roma. Solo pochi di noi, inquadrati nei Gap Centrali, riuscimmo a sfuggire alla caccia spietata che ci veniva condotta (avevamo tutti, tra l‘altro, taglie miliardarie ai valori attuali della moneta: "Spartaco", Carlo Salinari, il nostro comandante, fu "pagato sull’unghia", a chi l’aveva arrestato, un milione di lire del 1944)

Ai primi di maggio Francesco Curreli, ex combattente delle Brigate Internazionali in Spagna, Carla Capponi e io fummo inviati dal nostro Comando Militare nella zona che, da Cassino a Roma, era contenuta lungo le due strade consolari Prenestina e Casilina, dove si svolgeva il massimo dei collegamenti tra i comandi di Roma e il fronte. A me fu affidato il comando militare (si stava arrivando alla unificazione della Resistenza, nel Corpo Volontari della Libertà) di tutte le formazioni militari della zona, interne ed esterne al C.L.N., con il compito di attaccare in tutti i modi il nemico e i collaborazionisti, anche ai fini di preparare le avanguardie partigiane, che, armate dai lanci aerei degli Alleati, avrebbero dovuto precedere le formazioni anglo-americane e partecipare alla insurrezione di Roma.

Analoghi compiti furono affidati a Mario Fiorentini, che aveva come vice Lucia Ottobrini (eravamo gli unici, dei Gap centrali, che erano sfuggiti alla cattura), nella zona di Tivoli, con in più il compito di preparare campi di lancio sul Monte S. Gennaro per avere armi dagli Alleati da portare anche ai partigiani di Roma.

Il 15 maggio gli Alleati sfondarono a Cassino, e la battaglia per Roma, bloccata dopo il fallimento dello sbarco di Anzio, ricominciò. Le nostre formazioni ripresero con più intensità gli attacchi ai tedeschi (nella zona di Palestrina, per il nostro orgoglio, furono affissi dai comandi nemici i famosi cartelli "Acthung! Banditen!"), i tedeschi risposero con la nota brutalità, anche con rappresaglie che ci colpirono direttamente (la famiglia Pinci – il padre, i tre figli e le due figlie, che facevano parte della nostra formazione - furono massacrati davanti alla vecchia madre).

Stavamo in una situazione che non era certo invidiabile: infatti, mentre combattevamo contro i tedeschi, subivamo insieme a loro i bombardamenti e i cannoneggiamenti degli Alleati, ma, soprattutto con l’aiuto di una formazione di carabinieri, riuscimmo a infliggere perdite al nemico, a catturare parecchi prigionieri e perfino gli approvvigionamenti per un battaglione, che ci permisero di sfamarci e che distribuimmo alla popolazione, disperata e dispersa nelle campagne.

Il primo di giugno, privo di collegamenti con il Comando e di notizie sull’andamento delle operazioni militari, decisi di rientrare a Roma per avere notizie e ulteriori istruzioni dal Comando a proposito del trasferimento a Roma, in appoggio dei partigiani romani, delle formazioni che erano al mio comando. Vennero con me Carla Capponi e Dante Bersini, comandante militare della formazione di Palestrina. Francesco Curreli, intanto, operava nella zona della Sgurgola e di Paliano, con il compagno Giannetti, anche lui ex combattente delle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile, e comandante delle formazioni garibaldine della zona.

Il due giugno presi contatto con Valentino Gerratana, del comando centrale garibaldino, il quale la sera del tre mi consegnò quattro pesanti batterie con riflettori, che avrei dovuto portare a Tivoli, a Fiorentini, per essere utilizzati come segnali luminosi dei limiti del campo di lancio sul Monte San Gennaro. La parola d’ordine, che ci doveva pervenire da Radio Londra, era "La neve è caduta". La sera in cui l’avessimo sentita bisognava mettere in sito quei fari e attendere il lancio. Si dà il caso che quella missione aerea (lo seppi molti anni dopo) sarebbe stata portata a termine da Ruggero Orlando, il noto giornalista televisivo, ingaggiato dagli Stati Uniti.

La mattina del 4 rimandai Bersini a Palestrina, e, all’alba, Carla e io con due biciclette e due pesanti zaini in cui avevamo disposto i fari prendemmo la via Tiburtina. All’altezza di Ponte Mammolo fummo fermati da reparti tedeschi in ritirata, disposti in posizione di combattimento. Un ufficiale ci chiese dove stavamo andando. "Abbiamo il nostro bambino a Tivoli, dalla balia, gli dicemmo, e siamo molto preoccupati: vogliamo raggiungerlo". "Impossibile, ci rispose, a due chilometri ci stanno gli americani". Carla e io ci consultammo, non potevamo credergli. Ma come, se ieri sera ci hanno dato le disposizioni per i campi di lancio, è chiaro che gli alleati non saranno qui prima di dieci, quindici giorni. Insistemmo per proseguire, l’ufficiale tedesco credette alle nostre giustificazioni, non ebbe nemmeno la curiosità di controllare i nostri zaini, e ci lasciò passare.

Il fatto fu che dopo due chilometri incontrammo effettivamente gli americani, e allora tornammo indietro, attraversammo di nuovo, questa volta verso Roma, le linee tedesche e raggiungemmo il centro militare in Roma, cui demmo la notizia che gli alleati stavano effettivamente arrivando, e che li avremmo visti in serata in città. Per tutto il giorno, sulla via Tiburtina, dove ci eravamo fermati presso il comando di zona, vedemmo sfilare i tedeschi in ritirata, e ci sembrava ancora un esercito imponente, con le sue artiglierie pesanti e i suoi carri armati. Ma quando arrivarono gli americani, con le loro attrezzature e le loro armi, i tedeschi che erano passati poco prima ci sembrarono dei pezzenti, né riuscimmo mai a capire perché, malgrado l’enorme sproporzione di mezzi e la grande quantità di uomini che avevano a disposizione, gli Alleati ci avessero messo tanto tempo ad arrivare a Roma.

Il primo incontro con loro, che lì fecero sosta, fu la sera sul piazzale Tiburtino, e Roma esplose in tali manifestazioni di gioia, dopo nove mesi di buio e di fame, di paura e di morte, che possono essere descritti solo dalle immagini dei cine giornali, e tornarono a vedersi per le strade della città i ragazzi e gli uomini a rischio che Roma aveva nascosto e protetto per ben nove mesi. Fu un secondo 25 luglio, alla faccia di quei quattro sgallettati, più o meno in camicia nera, che parlano della guerra di liberazione solo in termini di guerra civile.

I partigiani romani avevano avuto l’ordine di non attaccare: erano appostati, armati dentro i portoni o dietro gli angoli delle vie secondarie, pronti a reagire ad eventuali tentativi dei tedeschi di aggredire in qualche modo la popolazione civile. Tra i piani farneticanti di Mussolini e del generale Wolff, vero padrone della cosiddetta Repubblica Sociale e comandante in capo delle SS, erano state elaborati piani di punizione dei romani, che avevano così duramente resistito ai tedeschi soprattutto con una straordinaria rete di solidarietà per i perseguitati e con la più intransigente disobbedienza civile (solo il 10 per cento dei romani chiamati alla leva militare e del lavoro risposero ai bandi nazisti, contro il 40 per cento dell’Italia occupata). Nella città e nei suoi dintorni si era sviluppata inoltre una guerriglia che, nei primi nove mesi della Resistenza, e cioè fino al giorno della liberazione della città, era stata la più intensa di qualsiasi altra città d’Italia. Dollmann, comandante delle SS in Roma, scrisse dopo la guerra, nelle sue memorie, che Roma era stata la Capitale dell’Europa occupata che aveva dato più filo da torcere ai tedeschi occupatori. Mahlausen, console tedesco in Roma, sempre nelle sue memorie, riporta che Kappler aveva paura dei romani, e lo stesso Kappler, per giustificare la fretta e la segretezza con cui aveva portato a termine la strage delle Ardeatine, disse durante il processo che gli fu intentato dal Tribunale militare di Roma che non si poteva fidare dei romani, che non lo avevano mai aiutato contro i partigiani, malgrado le promesse di consistenti premi in denaro, e che quella segretezza era dovuta alla paura delle reazioni dei romani e della Resistenza ove fossero stati a conoscenza del delitto che i nazisti stavano per commettere.

I partigiani romani hanno lasciato sul terreno, dall’8 settembre del ‘43 al 4 giugno del ‘44 circa 1700 caduti; oltre diecimila sono stati i romani deportati in Germania. Senza dubbio la ritirata frettolosa dei nazisti da Roma, frutto di probabili accordi presi tra gli Alleati, il Vaticano, i nazisti e il governo italiano di Badoglio, fu dovuta anche alla combattività dimostrata dai romani, di cui si stupisce perfino Kesserling nelle sue memorie, dagli stretti rapporti tra la resistenza passiva, disarmata, della popolazione, e la durezza degli attacchi militari e dei sabotaggi condotti dai partigiani in città e nel Lazio.

Comunque il piano di Mussolini e di Wolff, di difendere Roma casa per casa e di deportare tutta la popolazione maschile valida dalla città fu abbandonato come irrealizzabile anche per la risposta che i romani avevano dato, oltre che con le armi dei loro partigiani, con la protezione offerta ai combattenti e ai perseguitati di qualsiasi colore, avendo non solo impedito ai repubblichini di sviluppare una qualche iniziativa politica, ma anche avendo isolato gli occupatori nazisti da ogni contatto umano con la popolazione. I nazisti ebbero tutto il tempo di capire che un’iniziativa antipopolare di massa sarebbe finita, a Roma, molto peggio che a Napoli.

Fu anche per questo che se ne andarono con la coda tra le gambe, non senza, però, lasciare dietro di loro la consueta striscia di sangue, con i massacri della Storta e del mercato di Poggio Mirteto.


(da "Liberazione", 5 giu. 2001)


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