7 novembre 2017: la Rivoluzione fa 100 anni e Mario Fiorentini 99!
Il Comitato Provinciale dell'ANPI di Roma festeggia i 99 anni di Mario Fiorentini, partigiano pluridecorato e matematico di levatura internazionale.
La sua vita è "una odissea che avrebbe del leggendario se non fosse corroborata da incontestabili documentazioni" così Alfio Marchini e Giorgio Amendola riferendosi al periodo della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Ma questa "odissea leggendaria", trascorsa in gran parte a fianco dell'amatissima Lucia, venuta a mancare recentemente, dura tutt'ora e ci auguriamo possa durare ancora a lungo. Auguri Mario!!!
Abbiamo raggruppato alcuni articoli e interviste rilasciate da Mario sul periodo della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Sul web si trova molto altro materiale, anche di matematica (che è ciò a cui Mario tiene di più). Abbiamo aggiunto la descrizione delle gesta resistenziali fatta da Alfio Marchini e Giorgio Amendola come motivazione per richiedere una meritatissima medaglia d'oro (glie ne assegnarono tre d'argento).
Recentissima intervista di Fabrizio Rostelli su il Manifesto del 4 novembre scorso:
Mario Fiorentini, le memorie
Intervista. Incontro con l'ultimo gappista romano che compie 99 anni il 7 novembre
Via Rasella, gli attacchi al cinema Barberini, alla caserma Giulio Cesare e all’hotel Flora, il carcere di via Tasso, l’incursione a Regina Coeli, via Margutta, le Fosse Ardeatine. Mario Fiorentini è ancora lì, con la sua memoria, noncurante del tempo e delle primavere che si susseguono. Lo incontro a casa sua, a pochi metri da quella via Rasella che ha segnato indelebilmente la storia d’Italia. Non ci vediamo da un paio d’anni, Mario è seduto su una poltrona, nel suo studio zeppo di libri introvabili, di foto e di appunti; mi scruta con curiosità con i suoi occhi azzurri e mi domanda con la sua tipica cordialità: cosa vuoi sapere da me? In un attimo ho la sensazione di trovarmi al cospetto di un oracolo. “Lo sai che sono l’ultimo dei gappisti romani ancora in vita? Eravamo 48, ora sono rimasto solo io”.
Mario Fiorentini, classe 1918, la storia dell’ultimo secolo non l’ha vista solo scorrere, come quando a 4 anni fu testimone della marcia su Roma, lui è uno dei pochi che può affermare di averla attraversata, scritta e di custodirne un vivo ricordo. Sembra tenere sulle spalle il peso dell’intero ‘900. Come il marziano di Flaiano – suo caro amico – sembra un essere al di fuori del tempo che si aggira tra le strade di Roma. Chi lo conosce sa quanto sia difficile contenere le conversazioni negli argini di un solo tracciato narrativo poiché i ricordi, ancora lucidissimi, portano la memoria a compiere dei salti logici e temporali che solo chi possiede una discreta conoscenza dei fatti storici può seguire.
Fiorentini ama definirsi “l’uomo dalle tre vite”: l’intellettuale, il partigiano gappista e il matematico. Prima della resistenza armata al nazifascismo, di cui è stato un rappresentante di spicco, Fiorentini frequenta l’ambiente culturale e intellettuale romano degli anni ’30 e ’40. Via Margutta, Villa Strhol Fern ma anche le serate di cultura cinematografica a Palazzo Braschi (sede del Partito Fascista) e i littoriali della poesia. “Frequentavo scrittori e poeti come Pratolini e Penna, pittori del calibro di Vedova, Turcato e Guttuso, registi come Visconti, Petri e Lizzani, che era un amico di famiglia. Discutevamo di attualità politica e sociale. Se culturalmente il franchismo e l’hitlerismo sono state due storie ignobili, la cultura italiana non è stata negletta dal fascismo”. Riesce, da autodidatta, a costruirsi una cultura umanistica invidiabile che lo porta a costituire con Plinio De Martiis “una compagnia di teatro che si proponeva di portare il teatro d’impegno in ambienti dove non era conosciuto. Solitamente si andava all’Argentina, al Valle, noi siamo andati in periferia. Una volta abbiamo fatto irruzione al sindacato fascista professionisti ed artisti che aveva sede in via Sicilia. Ho letto un proclama ‘a nome del teatro rivoluzionario’ perché volevamo portare l’innovazione sul palcoscenico, eravamo contrari al fatto che il teatro fosse il regno dei primi attori come Benassi, Zacconi, Musco o Ricci. Rivendico inoltre di aver messo in orbita come attore professionista Vittorio Gassman che al cinema Mazzini, con la nostra compagnia, fu protagonista di una meravigliosa interpretazione dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello”. Il progetto non decolla e viene allestito solo un altro spettacolo di Cechov al Teatro delle Arti. “Gassman avrebbe dovuto saltare sopra un tavolo e cantare l’Internazionale in francese”. Della compagnia facevano parte tra gli altri: Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Mario Landi, Lea Padovani, Vittorio Caprioli e Ave Ninchi. La coscienza antifascista di Fiorentini cresce progressivamente. “Il mio impegno antifascista resistenziale è iniziato nel ’38, quando, con la promulgazione delle leggi razziali, è scattata la macchina infernale delle persecuzioni anti-ebraiche. Mio padre era ebreo ma non di osservanza, era un libero pensatore come me. I miei genitori decidono di lasciare a me la scelta religiosa e non mi circoncidono né mi battezzano. Io, un po’ donchisciottesco, quando vengo a sapere delle persecuzioni contro gli ebrei mi reco dal rabbino capo di Roma Sacerdoti e chiedo di diventare ebreo. Il rabbino mi dice che dovevo essere per prima cosa circonciso e mi fa desistere, salvandomi dalle deportazioni. In seguito i miei anziani genitori vengono catturati dalle SS ma riescono a fuggire”. Fiorentini entra in contatto con il circolo di Giustizia e Libertà, dal quale poi nascerà il Partito d’Azione, grazie all’amico Fernando Norma. L’Italia entra in guerra e gli eventi precipitano.
Nel 1942, durante un concerto, avviene l’evento che più di altri sconvolgerà la sua vita: l’incontro con Lucia Ottobrini. Da quel momento Mario e Lucia non si sono più lasciati “ci siamo tenuti sempre per mano. Ci chiamavano le volpi argentate perché insieme abbiamo quattro medaglie d’argento al valor militare”. Lucia è venuta a mancare il 26 settembre 2015. Nel ’43, prima dell’armistizio, insieme ad altri antifascisti costituisce il movimento degli Arditi del Popolo, ispirandosi agli Arditi che per primi si erano opposti in armi alle violenze fasciste negli anni ’20.
L’8 settembre inizia formalmente la seconda vita di Mario. “Hanno scritto che i tedeschi, quando sono entrati a Roma, sono stati rumorosi. Non è vero. I carri armati sfilavano ed i tedeschi avanzavano in silenzio, sembrava uno spettacolo di teatro. Lucia era alsaziana, veniva dalla Francia e aveva visto l’entrata di Hitler. Eravamo in via Zucchelli, sgomenti, la prendo per mano e le dico: ‘Nous sommes dans un cul de lampe’. Sinisgalli ha descritto magnificamente la nostra impotenza. Prendo Lucia e saliamo di corsa fino ad arrivare a Piazzale Flaminio. Capiamo che il nostro obiettivo è reperire armi. C’era una catastrofe, l’esercito si era sciolto. All’epoca si trovavano ancora le caserme con le armi dentro, abbiamo la fortuna di recuperare una cassa di bombe a serramanico tedesche (ride ndr), erano perfette, non erano come quelle italiane che facevano un po’ di botto e potevano ferire una persona, queste erano più potenti. Nascondiamo le armi nelle case, questo è stato il primo armamento”.
Alla fine di settembre il Partito Comunista costituisce i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) operanti in ognuna delle otto zone in cui il movimento della Resistenza aveva diviso Roma. “Io ero il vice comandante dei GAP della IV zona- centro storico, Lucia agiva con me. A metà ottobre, dopo un incontro con Nicli, Salinari e Cortini, decidiamo di fondare i GAP centrali: elementi particolarmente arditi, che già si erano distinti in azione, si dovevano isolare, staccandosi dalle zone per compiere le azioni più rischiose e difficili. Io assumo la direzione della formazione Antonio Gramsci. Trombadori, che aveva il comando militare, dopo aver visto in azione me e Lucia capisce che i gappisti devono agire in coppie uomo-donna e così si costituiranno altre tre coppie: Calamandrei e Regard, Bentivegna e Capponi, Borghesi e Musu”.
Da quel momento iniziano a vivere in clandestinità, ad andare in giro sempre armati e ad assumere nomi di battaglia. Fiorentini assumerà quattro nomi diversi durante la Resistenza: Giovanni, Fringuello, Gandi e Dino. “Siamo stati i primi in Italia ad organizzare la guerriglia urbana, inizialmente attaccavamo dall’alto lanciando bombe, istruiti dal prof. Gesmundo. Abbiamo colpito a Colle Oppio e al Muro Torto ad esempio. Il nostro obiettivo era impedire che i tedeschi si sentissero padroni di Roma, che spadroneggiassero. Ho avuto più contatti di altri con Bandiera Rossa perché non avevo una visione ristretta della Resistenza ma la ritenevo un fatto corale. A livello di gappismo, noi abbiamo rappresentato l’episodio storicamente più rilevante e anche più illuminante. La mia storia è completamente diversa da quella di Pesce. Lui vedeva la guerra in ottica rivoluzionaria, come uno scontro tra comunismo e fascismo, aveva una componente anticapitalista e di lotta di classe, per noi i nemici erano soprattutto i nazisti”.
I GAP centrali organizzano decine di azioni militari e Fiorentini rischia la vita più volte, come quando attacca il carcere di Regina Coeli in bicicletta. “Dovevamo far sentire la nostra voce a Pertini, Saragat e agli altri antifascisti in carcere. Il piano era lanciare, in corsa, uno spezzone di esplosivo davanti all’ingresso del carcere, durante il cambio della guardia. Decido di agire da solo per non far rischiare la vita anche agli altri. Ho sfidato la morte tante volte e la fortuna mi ha sempre assistito”. È il 28 dicembre 1943. Subito dopo l’attacco viene emanata un’ordinanza che vieta la circolazione delle biciclette ma “i romani aggirano il divieto aggiungendo una terza ruota, trasformando le bici in tricicli”.
Con lo sbarco degli Alleati ad Anzio i GAP centrali vengono sciolti e Mario e Lucia continuano ad operare nei quartieri popolari del Quadraro e del Quarticciolo. Ottobrini ripeteva spesso che la guerriglia urbana è stata “fame, freddo, umidità e sudiciume”.
Tra arresti e fucilazioni i GAP centrali si ricostituiscono nel febbraio ’44 e riprendono le azioni. “I gappisti romani hanno neutralizzato tre battaglioni. Il battaglione Onore e Combattimento, il Barbarico e il Bozen. Il primo lo abbiamo attaccato a via Tomacelli, con bombe da mortaio Brixia modificate per essere lanciate a mano. Su Il Messaggero c’era un articolo in cui si diceva che chi avesse consegnato gli autori dell’attacco avrebbe ricevuto una ricompensa di 500mila lire. Nessuno ci ha denunciato”.
Via Rasella. L’episodio e le sue conseguenze sono state raccontate in modo ineccepibile da Alessandro Portelli nel libro “L’ordine è già stato eseguito”. Fiorentini è il primo ad avvistare il battaglione Bozen sfilare per il centro di Roma e su indicazione di Salinari predispone un attacco in Via delle Quattro Fontane. “Il mio piano era molto astuto e scaltro. Il comando decide però che l’attacco doveva avvenire in via Rasella. Ero contrariato perché quella era una zona che frequentavo, lì avevo avuto addirittura delle riunioni con elementi della sinistra cristiana e di Bandiera Rossa. C’era una cellula di operai comunisti. E poi non volevo che altri decidessero le nostre azioni. Non si è mai capito esattamente da dove fosse venuta la decisione di cambiare il modo di attacco, io sospetto ci fosse una talpa nel comando cittadino. Preparo un nuovo piano con delle cassette di esplosivo ma il partito voleva colpire il 23 marzo perché era l’anniversario della costituzione dei Fasci di combattimento. Gli spezzoni però non erano ancora pronti, a quel punto si è deciso di utilizzare il carretto con l’esplosivo”. L’attacco è eseguito con successo senza alcuna perdita tra i gappisti, il battaglione viene sbaragliato ed i nazisti rispondono immediatamente con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. “Gli Alleati ci avevano inviato dei segnali, ci avevano detto ‘colpite duro’ perché siamo in gravi difficoltà sul fronte di Anzio. L’azione con il carretto ha avuto effetti più devastanti del piano ideato da me. Quando Kappler viene informato dal questore che l’azione era stata eseguita da ragazzi e ragazze, che avevano attaccato con delle bombe a mano e non con dei mortai, rimane sconvolto. Non pensava alle donne, non c’è una donna alle Fosse Ardeatine”. Quella di via Rasella è la più audace azione di guerriglia partigiana in Europa ed ha effetti sconvolgenti sull’opinione pubblica e sul comando tedesco. “Da quel momento le truppe tedesche non sfilano più all’interno della città e per questo potevano essere attaccate più facilmente sulle strade provinciali”. Chiedo a Mario perché non ci siano mai state rappresaglie prima di questo attacco. “Non volevano far sapere che c’era una resistenza armata. I tedeschi hanno spesso compiuto eccidi sulla gente inerme, non perché i partigiani attaccavano”.
Dopo una nuova ondata di repressione, dovuta anche al tradimento di Guglielmo Blasi, i GAP centrali si sciolgono di nuovo. Fiorentini prima opera in Sabina organizzando attacchi contro le autocolonne tedesche e poi inizia a collaborare con l’Office of Strategic Services – OSS americano, realizzando azioni di intelligence. Dopo la liberazione di Roma Fiorentini decide di continuare la lotta contro i nazifascisti nel Nord Italia, arruolandosi nell’OSS. Viene paracadutato tra Liguria ed Emilia. “Lucia confezionerà il suo vestito da sposa con la seta del mio paracadute”. Fiorentini è un narratore instancabile e con entusiasmo mi racconta gli episodi più arditi delle sue missioni, l’evasione rocambolesca dal carcere di San Vittore, le amicizie con i compagni di lotta, il tentativo di liberare Mussolini dai partigiani per conto degli Alleati.
Il 7 novembre di quest’anno ricorre il centenario della rivoluzione russa e Mario, nato ad un anno esatto dallo scoppio dell’insurrezione bolscevica, ricorda i suoi compleanni durante la guerra: “Nel ’43 ci siamo ritrovati in una trattoria a Roma. Abbiamo cantato i cori partigiani francesi con Bentivegna, festeggiando il 7 novembre sovietico come nazione in guerra contro i tedeschi. È stata una nottata fantastica. Nel ’44 ero al San Gottardo, al comando della 52 brigata Garibaldi, quella che ha arrestato e fucilato Mussolini. Abbiamo fatto una grande festa e io ho cantato una canzone partigiana in russo. C’erano anche Gianna (Giuseppina Tuissi ndr) e Neri (Luigi Canali ndr), la coppia partigiana più infelice e sfortunata d’Italia, uccisi dai partigiani comunisti perché coinvolti negli avvenimenti di Dongo. Nel ’45 invece ho festeggiato a Roma. Il Partito Comunista ha organizzato una grande festa a via Gaeta dove sono stato invitato insieme a tutti i politici”.
Dopo la guerra Fiorentini si laurea, “nel ’71 senza l’appoggio dei baroni ottengo la cattedra di professore ordinario di Geometria superiore all’Università di Ferrara” e successivamente diventa un matematico di fama internazionale. Qui inizia la terza vita, ma questa è un’altra storia.
Prima di salutarmi, Mario apre il blocco dei suoi appunti per leggermi un passo, scritto prima della scomparsa di Lucia, che credo sintetizzi al meglio la sua umanità. “Mi chiedete se la felicità fa parte del mio presente. Nel rapporto con la compagna della mia vita posso parlare di felicità realizzata. 70 anni di matrimonio d’amore con Lucia Ottobrini, ci siamo tenuti per mano fino all’ultimo giorno. Se mi guardo intorno, se rifletto sulle guerre provocate dagli uomini, sull’avidità dei reggitori dei Paesi opulenti, sui disastri provocati da una politica ambientale suicida, su quanto è avvenuto in Asia e sopratutto in Africa negli ultimi decenni, allora mi sento pervaso da una grande e sfuggente infelicità. Non sono felice ma sono sereno perché mi sono realizzato come studioso molto al di sopra delle mie aspettative e anche perché Lucia ed io abbiamo sempre remato affinché il battello della nostra vita e degli altri avanzasse. Per quanto abbiamo potuto abbiamo sempre aiutato il nostro prossimo. Su questo punto Lucia ed io non abbiamo nulla da rimproverarci, tutto quello che abbiamo avuto lo abbiamo conquistato con l’atteggiamento di chi ritiene che nulla ci era dovuto. Lucia ed io ci avviciniamo al capolinea con grande serenità”.
Se dovessi sintetizzare, direi che sono una persona normale
che in due periodi della mia vita, per effetto di una straordinaria volontà,
sono riuscito a realizzare cose per me importanti, e mi riferisco ai venti mesi
della guerra di liberazione in Italia e agli anni del mio impegno scientifico e
accademico come matematico. La mia storia politica inizia nel 1941. Del fascismo
conoscevo soltanto quello che allora veniva rappresentato pubblicamente non
avendo, come quasi tutti, la benché minima cultura politica per capire già
allora cosa realmente fosse. Anch’io come tutti i ragazzi del tempo fui
condizionato dalla propaganda patriottarda; ricordo una professoressa che ci
recitava spesso: «… non vedo più relegato nelle lontananze dell’avvenire il
giorno in cui i gonfaloni dei combattenti precederanno le bandiere lacere e
gloriose…» e via dicendo. I fascisti sostenevano che avevano salvato il paese
dal baratro in un momento di grande confusione, quando le istituzioni non
funzionavano. Questa propaganda, unita a orientamenti e a venature di stampo
sociale, in una prima fase apparentemente molto sentite e successivamente sacrificate
dagli stessi fascisti all’esigenza di conservare il potere, faceva sì che il
fascismo riscuotesse un consenso generalizzato.
Premetto che il fascismo a mio avviso non può essere
giudicato in blocco, innanzitutto perché ci sono stati tanti fascismi. Per
intenderci: il fascismo italiano, quello rumeno, quello portoghese sono tre
esperienze differenti.
Nel 1941, come dicevo, ho avuto i primi contatti che
risulteranno poi fondamentali per la mia esperienza politica. Innanzitutto con
Fernando Norma, che aveva uno studio di ebanista nel quartiere romano di Prati
ed abitava in via Arco della Ciambella, singolare strada romana alla quale è
dedicato un suggestivo romanzo autobiografico di Giovanni Gaglioffi. Poi Paolo
Emilio Manacorda e, a Positano, con Sibilla Aleramo e Franco Matacotta, poeta e
più tardi partigiano a Roma e nelle Marche. Nella seconda metà del 1941,
partecipai attivamente alle vicende politiche; conobbi Fabrizio Onofri,
Valentino Gerratana, Mario, Enrico e Carlo Socrate, Mario e Carlo Lizzani,
Ruggero Iacobbi, Ennio de Conciasi, Giuseppe de Santis, Gerardo Guerrieri,
Giuseppe Antonella e tanti altri.
Ebbi qualche contatto con Guido Carli con il quale
intrattenni alcune discussioni su argomenti letterari, economici e politici.
Con Ennio de Concini portammo avanti discorso di rinnovamento del Cinema
italiano auspicando l’apertura verso temi sociali e di forte impegno civile e
di rinnovamento della Chiesa. Ebbi vari contatti con Luchino Visconti al quale
proponemmo soggetti cinematografici che non furono realizzati, ma credo su di
lui qualche influsso lo ebbero certamente anche a giudicare dal favore che
sempre mi accordò più tardi, quando iniziai la guerra clandestina. Ruggero
Iacobbi allora fu un personaggio chiave al centro del mondo della letteratura,
delle arti figurative, del teatro, del cinema, e della musica. Poi Vasco
Pratolini e Franco Calamandrei che furono inquadrati nelle file della
Resistenza romana e svolsero la loro attività di Gappisti soprattutto nella
Terza zona. Le idee politiche che circolavano allora? Fernando Norma, che fu
ucciso alle Fosse Ardeatine, era un repubblicano di antica tradizione poi
passato a Giustizia e Libertà. Paolo Manacorda, in un primo tempo era liberale
con influenze risorgimentali e socialiste; poi insieme simpatizzammo per il
nuovo Partito Comunista.
Come ha vissuto la
notte del 25 luglio del 1943, quando cadde Mussolini?
Appena appresa la notizia alla radio ero in piazza a
manifestare nelle vie di Roma con Plinio de Martis. Eravamo pochissimi, al
centro della città, gridavamo slogans contro Mussolini e la guerra. Fu un
crescendo fantastico. Dapprima credevamo di trovare una resistenza da parte dei
fascisti, ma le case del fascio o erano chiuse o furono attaccate e
danneggiate.
Poi ci fu l’otto settembre, l’Armistizio. Furono settimane
di grande incertezza e confusione. Ci furono incontri febbrili di gruppetti e
non sapevamo come comportarci soprattutto nei confronti dei militari visto che
eravamo in regime militare e di guerra. Con Antonio Cicalini e Antonello
Trombadori, Fernando Norma e qualche militare che agiva sotto stretto incognito
e qualche cristiano sociale come Rodano, Tatò, e Ossicini costituimmo gli
«Arditi del Popolo». Era importante sottolineare il carattere popolare e
interpartitico di questa organizzazione, il cui principale obiettivo era quello
di riscattare l’Italia dalla vergogna del fascismo. Ricordo anche che
effettuammo una specie di parata militare in Viale Giulio Cesare. Noi sfilavamo
in gruppetti, Lucia Ottobrini, unica donna, era al mio fianco, dietro di noi
c’erano elementi del partito d’azione e altri. Non eravamo armati, ma aleggiava
in noi un po’ lo spirito dell’alleanza popolare antifascista in Francia, e in
Spagna del Fronte Popolare.
Nella giornata del 9 settembre ero nella zona ostíense
mentre infuriavano i combattimenti a Porta San Paolo. In quella giornata,
mentre si stava compiendo lo sfacelo dell’esercito italiano col Re in fuga,
Roma tentò di resistere ai tedeschi con una straordinaria unità ira militari
(in particolare granatieri ma anche nuclei di carabinieri e popolazione civile.
Il ricordo di Porta San Paolo è per me soprattutto il ricordo di volti. La
figura allampanata di Alcide Moretti, operaio antifascista altissimo dal volto
scavato; accanto a lui Adriano Ossicini e anche Tonino Tatò e Giuseppe Gozzer.
Quello stesso giorno attaccammo una piccola caserma in Via
Rasella dove erano custodite delle armi e alcuni fucili. La caserma era
presidiata da un colonnello in divisa e tre militari che si opposero
energicamente. Ci fu una colluttazione furibonda tra me e i militari e nel
frattempo i miei compagni rapinarono il grosso delle armi. Proprio di fronte
alla caserma abitava un operaio della Breda con la sua famiglia e nella sua
casa Tonino Tatò ed io avevamo fatto delle riunioni clandestine. Quell’uomo mi
disse che la folla che assisteva tutto intorno era rimasta impressionata dal fatto
che io, nonostante fossi magrissimo e pallido in viso essendo in convalescenza,
avevo dimostrato un’energia impensabile lottando con quei militari, fisicamente
più robusti di me.
Ricorda l’entrata dei
tedeschi a Roma?
È stato questo uno dei momenti più drammatici. Ero in via
del Tritone e una colonna imponente di carri armati prendeva possesso della
capitale. Fui colto da una furia incontenibile a cui però seguì una fase di
lucidità. Pensai che eravamo come in fondo a un pozzo, immersi nella melma fino
alla cintola. Inglesi e francesi ci avversavano perché avevamo assecondato
Hitler in una guerra sciagurata; i tedeschi ci odiavano perché si ritenevano
traditi. L’unica strada da seguire era schierarsi decisamente nel fronte degli
alleati combattendo una guerra senza quartiere contro i tedeschi. Non attesi
che la colonna terminasse di sfilare, presi per mano Lucia (Ottobrini) e con
lei mi recai alla periferia di Roma, alla Madonna del Riposo, sulla Via
Flaminia, alla Pineta Sacchetti, a Monte Mario a fare incetta di armi. Fu una
mia idea quella di concentrare gli sforzi per impossessarci di bombe di ogni
tipo. A parte le bombe tedesche e italiane che erano più o meno conosciute,
ricordo che ci procurammo anche bombe cecoslovacche di cui non conoscevamo
l’uso e alcune mine. Smistammo poi questo materiale nei luoghi più impensati.
Ci furono azioni
armate prima della costituzione dei Gap? Cosa successe nelle prime
settimane, della Resistenza armata romana?
Io cominciai, insieme
a Lucia Ottobrini e Franco di Lernia ad usare queste armi soprattutto contro
automezzi tedeschi in transito o in sosta. Ricordo che per queste azioni mi
forni il materiale esplosivo un impiegato del Banco di Roma, Mario Pressenda,
che era un funzionario di grande qualità, un oratore elegante con notevoli
qualità professionali e che fu purtroppo emarginato a ruoli e compiti secondari
ai tempi di Scelba.
Lei si incontrò nei
primi giorni di ottobre del 1943 a Ponte Sisto con altri antifascisti. Cosa
avvenne in quell’incontro?
Occorreva superare la
tendenza attendista di rinviare la lotta armata a un’ipotetica ora x, cioè
l’ora dell’insurrezíone che doveva scattare solo al momento dell’arrivo degli
Alleati. L’attendismo si manifestava in forme differenti; c’era soprattutto il
timore di rappresaglie e perciò c’era chi diceva che non bisognava compiere
azioni in città, soprattutto se potevano assumere rilevanza militare; c’era chi
sosteneva che non bisognava attaccare i fascisti perché erano italiani anche
loro. Pensate che c’era addirittura una frangia anarchica che arrivava
all’assurdo affermando che attaccando i tedeschi si diventava uno strumento
degli imperialisti anglo-americani, posizione, questa, spesso fomentata e fatta
circolare dagli si essi nazifascisti. In quella riunione a Ponte Sisto venne
ribadito con energia che bisognava indebolire il potenziale bellico nazista
attaccando con azioni improvvise gli obiettivi militari, bisognava che Roma non
fosse utilizzata per il transito delle colonne di rifornimenti dirette al
fronte. Bisognava minare seriamente il morale delle truppe tedesche di
guarnigione nella città, oppure quelle operanti al fronte facendo sentire la
presenza di un esercito, quello partigiano, insidioso e pericoloso. Si dovevano
rendere più efficienti ed aggressive le formazioni patriottiche, demolendo la
fama di invincibilità della Wehrmacht, con azioni fulminee di piccoli gruppi
che colpivano duramente i reparti tedeschi. Infine bisognava attaccare senza
respiro militi e ufficiali della Milizia fascista. Eravamo al tramonto di una
calda giornata d’ottobre, qualche giorno prima avevo ricevuto l’ordine da
Fabrizio Onofri di recarmi in quel posto, lì, a Ponte Sisto incontrai Carlo
Salinari che già conoscevo, Danilo Nicli e Giulio Cortini. Decidemmo che
bisognava staccare dall’organizzazione militare delle zone, alcuni elementi
particolarmente arditi, preparati, i quali avrebbero attaccato i tedeschi senza
tregua. Quell’incontro fu decisivo: nacquero i Gap centrali.
Già nel mese di settembre un primo nucleo formato da me,
Lucia Ottobrini e Franco di Lernia e altri tra cui Giuseppe Regis e Luciano
Vella avevamo portato a termine numerose azioni sia contro le pattuglie di
fascisti e di tedeschi sia contro gli automezzi in transito. Tuttavia la stampa
e la radio non citavano le nostre azioni e questo fatto diffondeva tra noi un
senso di incertezza. Dovette trascorrere almeno un mese dalla riunione di Ponte
Sisto prima di formare definitivamente i Gap centrali. Verso la fine di ottobre
si aggiunsero a noi Rosario Bentivegna e Carla Capponi, che mi fu segnalata da
Enrico de Angelis in via Piave. Non ho mai dimenticato gli occhioni grandi e
sgranati, il viso pallido fortemente incipriato, la figura snella e svelta e il
modo spontaneo di parlare di Carla. Chi avrebbe potuto immaginare che Carla
sarebbe diventata forse la partigiana più ardimentosa e popolare della guerra
di Liberazione? Carla fu un acquisto importantissimo dei Gap, fu al fianco mio
e di Lucia nelle prime due azioni dei Gap contro automezzi tedeschi. Tra Carla
e Lucia si strinse un affetto e una stima rimasti inalterati nel tempo.
Il comando regionale era diretto da Antonio Cicalini e Pompilio
Molinari. Talvolta ci furono tra me e il comando diversità di vedute e dissensi
come per l’azione del teatro Adriano dove, il 18 novembre del 1943 si svolse
un’adunata di autorità fasciste e alti ufficiali tedeschi. Era stato annunciato
che un corteo avrebbe sfilato per la città e io avevo studiato un piano che
comprendeva due azioni, una all’interno del teatro e l’altra contro il corteo
nel caso in cui il primo attacco non fosse riuscito; in quell’occasione
disponevo anche di un mitra che mi era stato fornito da Enzo Russo, uno
studente di medicina. Nel palazzo all’ultimo piano adiacente al teatro Adriano
abitava Emanuele Rocco, figlio del giurista fascista che poi sarebbe diventato
giornalista della Rai. Con il suo aiuto, io e Sasà ispezionammo le terrazze
per organizzare un’irruzione dall’alto. Il mio progetto di attaccare il corteo
fu però rifiutato. Fu così collocato un estintore con otto chili di tritolo
sotto il palcoscenico. Ma come tutti sanno la bomba non esplose e i gerarchi
fascisti e i generali tedeschi sfilarono indisturbati per la capitale. Ma quel
piano fu ripreso più tardi, il 10 marzo del 1944, quando, nello stesso luogo in
cui era previsto l’attacco al corteo una squadra di 12 gappisti tra cui due
donne, Marisa Musu e Lucia Ottobrini, in via Tomacelli, attaccò un corteo di
fascisti preceduto da una colonna di centocinquanta giovani della Guardia
Nazionale. In quattro attaccarono frontalmente la colonna e gli altri,
dislocati in vari punti della strada crearono lo scompiglio tra i partecipanti
al corteo. Io facevo parte del quartetto con Raul, Furio e Paolo. Quell’azione
fu molto importante non solo perché destò grande impressione, tanto che fu
istituita una taglia di cinquecentomila lire su di noi, ma soprattutto perché
proprio in virtù di quell’azione così temeraria i tedeschi proibirono ai
fascisti di sfilare per la città. Fu un duro colpo. Soltanto tredici giorni più
tardi, il 23 marzo, si sarebbe dovuta svolgere a Roma la grande manifestazione
di celebrazione del venticinquesimo anniversario della fondazione dei fasci di
combattimento che i fascisti avevano preparato con grande cura e quella
manifestazione non si svolse.
Che può dirci
dell’azione in via Rasella?
Nella seconda quindicina di febbraio del 1944, vidi passare
una colonna della gendarmeria tedesca che in pieno assetto di guerra sfilava
per il centro della Capitale. Rividi sfilare la colonna di soldati tedeschi il
quattro marzo. Subito mi venne in mente il piano d’attacco. Chiesi a Spartaco
(nome di battaglia di Carlo Salinari) che aveva assunto il comando dei Gap
centrali dopo l’arresto di Giacomo (Antonello Trombadori), di autorizzarmi ad
attaccare, la colonna in via Quattro Fontane, di fronte al museo Barberini.
Salinari si riservò di interpellare il comando regionale. Finalmente giunse
l’ordine di attaccare ma i soldati tedeschi non passarono. Successivamente mi
incontrai di nuovo con Carlo Salinari e questi mi riferì che il comando aveva
riconsiderato l’azione ed aveva disposto la sua realizzazione non più in via
Quattro Fontane, ma in via Rasella e con forze più consistenti. Questa
decisione mi trovò contrario per una serie di ragioni di natura strategica. Non
sapemmo mai con precisione i veri motivi che determinarono il cambiamento del
luogo dell’attentato ma la decisione fu presa quasi sicuramente dal comando
regionale.
Lei è stato, quindi l’ideatore e il regista di
quella azione, come valutò, il C.N.L., l’azione di via Rasella? E come reagì
alla strage delle Fosse Ardeatine?
Inizialmente ci fu un forte sbandamento, poi furono solidali
con i garibaldini i liberali (Manlio Brosio) e Giustizia e Libertà (Riccardo
Bauer). Pertini protestò perché voleva essere informato prima, ma fu solidale.
Le Brigate del Popolo, almeno in un primo tempo, mostrarono smarrimento. I
militari erano distrutti. Quando poi le radio alleate, e non solo Radio Londra,
esaltarono il coraggio e lo stoicismo del popolo romano la situazione fu più
chiara.
Quando ha conosciuto
il professor Gesmundo, figura centrale della lotta di Liberazione a Roma,
assassinato alle fosse Ardeatine nel marzo del 1944?
L’ho conosciuto a
metà settembre del 1943, quando mi occupavo di organizzare la quarta zona delle
brigate Garibaldi. Ricordo perfettamente i nostri incontri nella libreria
Bertoni in via Sant’Agostino dove l’otto settembre, in una botola, io e Roberto
Forti avevamo nascosto parte dei moschetti che il generale Carboni aveva
consegnato alla popolazione.
Qual era
l’atteggiamento di Gesmundo sul modo di condurre la lotta partigiana?
Ci fu tra noi una
mirabile intesa su quello che era l’imperativo categorico del momento. Gesmundo
convenne sull’opportunità di costruire speciali unità cospirative, Formate da
pochi elementi, con il compito di attaccare i nazífascísti: quelli che poi si
chiamarono i Gap. Gesmundo era d’accordo con me che gli attacchi dovevano
essere compiuti sia contro i fascisti che contro i tedeschi.
Gesmundo ebbe chiarissima la consapevolezza che le azioni
dei Gap centrali erano un avvenimento di estrema importanza. A Roma la polizia
politica in quel periodo, e mi riferisco a Rotondano e a Quagliotta e agli
altri dirigenti dell’Ovra, ha lavorato a ritmi ridotti. Se avessero dato un
giro di vite le cose per noi sarebbero andate diversamente. Io credo, e questa
è una cosa che dico per la prima volta, che prima dello sbarco di Anzio la
polizia politica controllava L’Unità e il quotidiano di Ginsburg e degli altri
di G.L. Gesmundo fu arrestato proprio mentre lavorava al giornale.
Lei ha conosciuto
anche Giorgio Labò, l’artificiere dei Gap, cosa ricorda di lui?
Ho conosciuto Giorgio Labò nella seconda metà del dicembre
del 1943. Era iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano
ed anche sergente del Genio minatori. Si era trasferito a Roma con Gianfranco
Mattei e aveva organizzato la Santa Barbara di Via Giulia. Grazie alla sua
collaborazione l’attività dei Gap subì una forte impennata, soprattutto per
quanto riguarda l’efficacia delle azioni… Entrambi avevamo vissuto il dramma
dell’Armistizio, quando l’esercito italiano si era sfaldato per i colpi di
maglio della Wermacht e soprattutto per il disorientamento dei militari
badogliani. La nostra collaborazione iniziò dopo avergli raccontato la mia
avventura della sera dell’11 dicembre del ’43 quando tentai di lanciare un
ordigno esplosivo contro i tedeschi che uscivano dal Cinema Barberini e si
apprestavano a salire sui camion militari. Quella sera la miccia dello «spezzone»
confezionato da un marmista del Verano non si accese, nonostante i miei
ripetuti tentativi, anzi, cadde per terra con frastuono. Ma i tedeschi non si
accorsero di nulla e potei mettermi in salvo riportando con me lo spezzone
inesploso. Giorgio mi disse che ero stato protetto dalla dea bendata e che per
la prossima azione avrebbe preparato lui l’ordigno. Il 18 settembre l’azione al
Barberini andò a segno, lo spezzone di Giorgio funzionò alla perfezione.
L’ultima volta che vidi Labò fu a Piazza Navona dove discutemmo seduti su una
panchina di marmo. Con Giuseppe Felici e Lucia Ottobrini avevamo effettuato un
sopralluogo per le strade intorno a via Arenula dove abitavano e avevano
depositi di commercio molte famiglie ebree. Il giorno prima, nella piazzetta della
fontanella delle tartarughe, dietro il ghetto, Trombadori, Felici ed io avevamo
discusso un piano d’appoggio alla comunità ebraica nel caso che i tedeschi in
ritirata avessero fatto razzie. Poche settimane più tardi Felici fu catturato
dopo uno scontro a fuoco sul monte Tancia, era ferito, ma contro ogni legge di
guerra i tedeschi lo fucilarono ugualmente.
È vero che lei è
stato inviato in Svizzera per arrestare Mussolini? Ci può raccontare
quell’episodio?
Dopo una pericolosa impresa solitaria – avevo marciate per
venti chilometri sulla neve con le racchette ai piedi percorrendo la Valle del
Saas, in Svizzera – ero giunto a metà aprile 1945 a Macugnaga. Avevo la febbre
ed ero ustionato a causa del riverbero del sole sulla neve. Fui curato
amorevolmente dalle suore di un convento. Poi passai in Valsesia dai
garibaldini di Cino (Moscatelli) e Ciro (Eraldi) con l’intento di prendere
contatti con il tenente americano Aldo Icardi. Il capitano Emilio Daddario era
partito dalla Svizzera, si era unito a Icardi, che guidava la missione Chrisler
dell’O.S.S. (Office service strategie), insieme si erano diretti in Lombardia
con l’intento di catturare Mussolini. Io conoscevo bene i luoghi e le persone
del comasco, e se fossi giunto in tempo a raggiungere i due ufficiali
italo-americani avremmo preceduto Lampredi e Valerio, i due giustizieri del
Duce. Tuttavia penso che sarebbe stato comunque difficile sottrarre Mussolini e
i suoi compagni di fuga al furore popolare.
Qualcuno ha detto che
Mussolini è stato il più grande statista del secolo…
Mussolini, in alcuni momenti, era riuscito a creare intorno
all’Italia un notevole consenso da parte delle diplomazie internazionali e in
settori consistenti dell’opinione pubblica non solo italiana. Come si
spiegherebbe altrimenti le pubbliche dichiarazioni di elogio a lui indirizzate
da Ghandi e Churchill? L’avere associato l’Italia alle criminose imprese
belliche di Hitler, a partire dalla guerra di Spagna, ha portato al nostro paese
soIo lutti e sciagure.
Giorgio Bocca ha
scritto che Roma è stata l’unica grande città italiana che mancò l’occasione
insurrezionale, perché?
Roma l’insurrezione l’ha fatta, eccome! Subito dopo il 22
gennaio 1944, quando lo sbarco alleato di Anzio aveva fatto credere in una
rapida liberazione della città. Le organizzazioni clandestine in Roma pagarono
allora un prezzo molto alto in termini di arresti, torture, fucilazioni. Noi
dei Gap centrali fummo mandati nelle retrovie e ogni notte attaccavamo le
truppe e i mezzi che i tedeschi spostavano per evitare che dalla testa di ponte
di Anzio gli alleati dilagassero verso la Capitale. C’è chi sostiene oggi che
nella strategia della guerra lo sbarco in Normandia fu decisivo, mentre lo
sbarco di Anzio era un diversivo per attirare forze consistenti tedesche
distogliendole dal fronte principale. Le frasi di Giorgio Bocca sono state
scritte trent’anni fa e rilette oggi mostrano la frettolosità di un giudizio
incompleto e approssimativo. Occorre aggiungere che i romani erano corsi,
armati come potevano, a Ostiense, alla Cecchignola, ad Acilia accanto ai
granatieri e ai carabinieri nelle drammatiche ore seguite all’Armistizio,
perciò Roma l’insurrezione l’ha fatta ben due volte.
Perché è stato
partigiano? Cosa è stata la Resistenza e come bisogna parlarne oggi ai giovani?
Io posso rispondere per me, perché le motivazioni sono
sempre personali. Ho fatto la guerra partigiana perché ho avvertito
l’imperativo categorico di combattere a fianco degli alleati per risollevare
l’Italia dalla disgrazia in cui era caduta e per fare questo, data la
situazione, bisognava fare anche un certo tipo di guerra. Il risultato del mio
impegno di gappista in città, e di combattente in montagna nel nord e di tutti
quelli che hanno combattuto come me può essere riassunto da una foto: il
Comando Generale del corpo dei Volontari della Libertà che sfila per Milano
alla fine della guerra. C’era l’esercito, i liberali, i socialisti, gli
azionisti, i garibaldini, i comunisti. C’erano tutti quelli che, pur con
ispirazioni politiche e culturali diverse, avevano combattuto insieme per
liberare l’Italia. Quella foto, in qualche modo, riassume la Resistenza, che
per me rimane una delle pagine più belle della storia d’Italia. In quella-esperienza
il popolo italiano fece emergere le sue qualità migliori. E tuttavia è un fatto
della storia ormai passato; e non possiamo pretendere che continuamente dia i
suoi frutti.
Come parlarne ai
giovani?
Anni fa insegnavo in una scuola media a Roma. Era il 25
aprile e io stavo per iniziare la lezione quando entrò una professoressa che mi
disse che era arrivato un fonogramma del Provveditore che disponeva di
celebrare la ricorrenza in aula e mi chiese di lasciarle il posto. Le risposi
che la lezione di celebrazione dell’anniversario della liberazione l’avrei
tenuta io. Era un periodo in cui c’era una recrudescenza di nostalgia per il
fascismo e anche in aula c’erano degli studenti che simpatizzavano per la destra,
ma io la prima cosa che dissi fu: «io oggi parlerò della Resistenza per
fascisti e antifascisti…». Parlai per due ore e tutti mi ascoltarono con grande
attenzione.